Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Mila R. Sachs

Yitzchak Rabin: "A noi non può succedere..."

Fonte: "Il Regno" n. 20 del 1995

L`assassinio del premier israeliano; il sincretismo eversivo tra politica e Halachà nei giovani religiosi sionisti.


Gerusalemme, 9 novembre. L'assassinio di Yitzchak Rabin, primo ministro dello stato di Israele ucciso lo scorso 4 novembre da un giovane israeliano, che sostiene di avere agito in nome della Halachà (la legge religiosa ebraica), è senza alcun dubbio da contarsi fra i tre o quatto avvenimenti più drammatici nei quarantasette anni di vita del paese, paragonabile come impatto emotivo e possibili conseguenze politiche e sociali alla fondazione dello stato, alla guerra dei sei giorni del '67 e alla guerra del Kippur del '73.

L'uomo che nei suoi tardi anni si è trasformato da guerriero a vessillifero della pace è ora compianto in tutto il paese da decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani, giovanissimi e addirittura bambini, in una specie di culto pubblico mai visto prima in Israele, che spesso riveste aspetti del tutto estranei alla tradizione ebraica, come lunghi sit-in con una chitarra sulla piazza del delitto, di fronte a una marea di lumini, cantando soltanto le due canzoni che è noto Rabin aveva maggiormente amato: "Il canto dell'amicizia", che ricorda i compagni caduti nella guerra d'indipendenza nel 1948, e "Il canto della pace", composto nel 1972, in cui i caduti in guerra chiedono ai vivi di non pregare per loro, bensì di invocare ad alta voce la pace. Questa seconda canzone è stata anche l'ultima che Rabin ha cantato, al termine del rallie per la pace di sabato sera, pochi minuti prima di venire raggiunto dai proiettili dum-dum di fabbricazione casalinga dell'assassino.

Di fronte a questo delitto, che infrange uno dei miti della società israeliana "da noi questo non può succedere" e all'immane lutto di una larga fetta della popolazione che piange accoratamente un uomo di settantatre anni, noto per la sua imperiosità, diffidenza e mancanza di comunicatività, nonché di fronte alle motivazioni "religiose" addotte dall'omicida un giovane dei sobborghi di Tel Aviv nato dopo la guerra dei sei giorni , è inevitabile porsi una lunga serie di domande, a cui tenterò di dare una breve quanto inesauriente risposta in queste pagine.

Soldato di pace
Innanzi tutto, che cosa rappresenta Yitzchak Rabin per la maggioranza degli israeliani, che, sebbene a volte all'estero possa apparire il contrario, sono completamente laici? Oserei dire che la biografia del premier scomparso viene da molti considerata paradigmatica del rinascente stato degli ebrei. Nato nel 1922 a Gerusalemme da una famiglia di immigrati russi socialisti (entrambi i genitori furono attivi sindacalisti), visse l'infanzia a Tel Aviv, frequentò poi il più noto liceo agrario del paese, dove si conquistò il premio del governatore britannico come migliore allievo. Arruolatosi a sedici anni nella Haganà (la milizia ebraica di difesa che precedette l'esercito), la guerra del '48 lo vide al comando della brigata Harel del Palmach (unità d'assalto), che aprì la strada verso Gerusalemme assediata. Dopo la guerra, decise di rinunciare al sogno privato di studiare ingegneria negli Stati Uniti e continuò la carriera militare, fino a essere nominato, all'inizio del 1968, capo di stato maggiore. In questa funzione fu il principale responsabile della modernizzazione e del potenziamento dell'esercito, che portò alla quasi incredibile vittoria della guerra dei sei giorni, consacrandolo eroe nazionale. Alla scadenza della nomina chiese e ottenne il posto di ambasciatore a Washington, dove rimase cinque anni. Richiamato in seguito alla guerra del Kippur, che colse di sorpresa la classe politica e militare israeliana, all'inizio del '74 fu incaricato di formare il nuovo governo, al posto di quello dimissionario di Golda Meir. Rimase in carica tre anni e furono tre anni difficili, sconvolti dalle polemiche amare del dopoguerra, dalla situazione economica catastrofica e dagli scandali che rivelarono la profonda corruzione del partito laburista (e che in certa misura coinvolsero anche sua moglie Leah, condannata per avere violato le norme allora vigenti sulla valuta). Con i risultati delle elezioni del 1977, che portarono il Likud di Menachem Begin al potere, Rabin, l'eroe sulla cui dirittura morale nessuno aveva mai sospettato, nemmeno nei momenti peggiori della locale "mani pulite", pagò per tutti. Per sette anni fu all'opposizione, anni contrassegnati da lotte interne contro Shimon Peres, ma anche dalla pace con l'Egitto e dallo scoppio della guerra del Libano.

Alla fine del 1984 sorge il governo di unità nazionale, con il preciso scopo di uscire dalla "palude libanese" e salvare l'economia. Rabin ne è ministro della difesa fino all'inizio del '90, quando il governo si scioglie per insanabili divergenze sul nascente processo di pace e dovrà misurarsi con l'insurrezione palestinese, nei primi e più terribili anni dell'Intifada. L'ordine non-scritto che dà di "rompere le ossa" ai rivoltosi, il quale troppo spesso verrà preso alla lettera, non sarà facilmente dimenticato. Le elezioni del '92 vedono la vittoria del Partito laburista sotto la guida di Rabin, che, finalmente d'accordo con Peres, cambia improvvisamente prospettiva trasformandosi nel promotore dello stagnante processo di pace iniziato dal Likud. La via agli accordi di Oslo e alla pace con la Giordania è aperta. C'è chi non perdona il "voltafaccia" a questo eroe, simbolo della nazione forte che tiene orgogliosamente testa ai suoi nemici. Le parole "traditore", "gemello di Arafat" sono sempre più frequenti, accompagnate dall'epiteto "assassino" dopo ogni attentato palestinese.

Negli ultimi tre mesi l'atmosfera si era a tal punto surriscaldata, che nell'ultima manifestazione delle destre nel centro di Gerusalemme furono sventolati fotomontaggi di Rabin in divisa da SS. Il rallie dello scorso sabato doveva essere una risposta a questa campagna di delegittimazione: centomila persone si sono radunate per confermare il loro appoggio al processo di pace, il loro "no alla violenza", fisica o verbale che sia. Yitzchak Rabin è stato colpito da tre pallottole al termine della manifestazione, mentre stava per risalire in macchina.

Esami di coscienza
La prima e più immediata associazione mentale di fronte a questa tragedia è quella con Mosè, di cui è scritto (Dt 32,52): "Tu vedrai il paese davanti a te, ma là, nel paese che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai!". Rabin, l'uomo che quasi tutta la vita aveva combattuto per la difesa del suo paese e che negli ultimi anni era divenuto il portatore della pace, è morto per tale pace senza avere avuto il tempo di vederla completa. D'altra parte, l'identità dell'assassino un israeliano ebreo e l'estensione e la profondità del lutto, che si è già trasformato in culto popolare (la piazza del delitto, piazza dei re d'Israele, è già stata ufficialmente reintitolata piazza Yitzchak Rabin) non possono non far pensare alla tesi sostenuta da Sigmund Freud, in Mosè e il monoteismo, secondo la quale Mosè fu il condottiero ucciso dal popolo, che non potendo sopportate i sensi di colpa per il "parricidio", lo trasformò nel totem, profeta e legislatore, simbolo di unità del popolo.

E in Israele, in questo momento, i sensi di colpa sono tanti ed esami di coscienza si stanno facendo a tutti i livelli, portando come conseguenza al crollo di più di un mito. Il primo mito a crollare è stato ovviamente quello che "a noi non può succedere", perché un ebreo "non leverebbe mai la mano su un altro ebreo". Eccome può succedere, dal momento che è accaduto. Sebbene nella breve storia dello stato di Israele sia stato registrato un solo omicidio a sfondo politico, commesso da un ebreo nei confronti di un altro ebreo (quello del dott. Israel Kastner, ucciso da un estremista di destra nel '57, sullo sfondo di una tragica vicenda di presunto collaborazionismo con i nazisti durante l'Olocausto, accusa da cui Kastner fu poi assolto dopo la morte), altri due attentati senza conseguenze furono compiuto contro David Ben Gurion, nel '49 e nel '57, sempre da estremisti di destra. È tuttavia questa la prima volta che un leader israeliano viene ucciso e il paradosso è proprio in questa ingenua incredulità che "a noi non può succedere". L'obiettivo del sionismo, in quanto movimento laico di liberazione nazionale, era proprio quello di trasformare il popolo ebraico in un popolo "come tutti gli altri", di "normalizzarlo", liberandolo dalle "pastoie della religione", e "dalle influenze morbose della diaspora", creando un nuovo tipo di ebreo, libero e orgoglioso in un suo stato sovrano. Rabin, il primo capo di governo israeliano nato in Israele, simbolo di questo nuovo ebreo frutto del sionismo è stato proprio ucciso, come altri capi di stato prima di lui, da un giovane figlio di questo popolo sulla via della normalità, che pur compiendo l'atto più laico possibile è convinto di agire in nome di un imperativo religioso, mentre la maggioranza laica si culla nella convinzione di matrice "religiosa", che "questo a noi ebrei non può succedere".

Sincretismo religioso
Il secondo mito crollato è molto più banale e salta immediatamente agli occhi: l'invincibilità del famoso servizio di sicurezza interna (Shin-Beth), che non ha saputo individuare il possibile omicida, lo ha lasciato avvicinare a tre passi dalla vittima, che poi non è stato in grado di difendere. Non che fossero mancati gli avvertimenti, ma la convinzione più profonda ed introiettata era che il pericolo veniva essenzialmente dai fondamentalisti islamici e non dagli estremisti ebrei. La commissione di inchiesta interna nominata dal capo dello Shin-Beth ha già chiarito che ci sono state delle omissioni enormi nella protezione del primo ministro durante la manifestazione di sabato sera, tutte derivanti dalla "concezione" sbagliata che il nemico dovesse essere cercato soprattutto all'esterno e non all'interno, e che i fanatici scatenati che avevano sventolato il fotomontaggio di Rabin in divisa da SS non erano abbastanza organizzati, o abbastanza violenti, o abbastanza criminali per fare di più. Se questa tragicamente errata valutazione sia stato il solo sbaglio o ce ne siano stati altri lo stabilirà una commissione di inchiesta governativa guidata dall'ex presidente della corte suprema Meir Shamgar (lo stesso della commissione sulla strage di Hebron di un anno e mezzo fa). Lo Shin-Beth, in ogni caso, la sua debacle l'ha già avuta, simile e forse peggiore di quella subita dall'esercito e dal Mossad con la sorpresa della guerra del Kippur, e ci vorranno molto tempo e molti successi affinché il pubblico possa riacquistare anche soltanto parte della fiducia che aveva nei servizi di sicurezza.

La terza crisi su cui vorrei soffermarmi e su cui in questa settimana sono stati spesi fiumi di parole e di inchiostro su tutti i media è quella dei sionismo religioso, dalle cui fila proviene l'assassino. I più sentiti appelli a fare un esame di coscienza provengono proprio da questo lato dello schieramento ideologico israeliano, che in questo momento si sente ed è accusato di essere un focolaio e un vivaio di estremismo fondamentalista. Mi si permetta di fare un passo indietro e di premettere alcune parole di introduzione storica. Il sionismo è nato come movimento di liberazione nazionale ebraico all'inizio di questo secolo, sul modello degli altri movimenti di liberazione nazionali sorti in Europa dopo il congresso di Vienna. È noto che Theodor Herzl, un giornalista viennese che vedeva nell'assimilazione l'unica soluzione possibile del problema ebraico in un secolo positivista, cambiò idea in seguito al processo Dreyfuss e cominciò a pensare in termini di stato nazionale sovrano.

Anche il sionismo, come altre ideologie che ritengono di avere la soluzione comprensiva di tutti i problemi di un determinato gruppo umano, era contagiato da una forma di messianesimo laico che lo metteva in diretta concorrenza con la tradizione religiosa, la quale ne respinse sia le premesse che gli obiettivi, giudicando blasfemo un qualsiasi tentativo di creare un nuovo regno di Israele con mezzi umani prima della venuta del "messia figlio di Davide". L'ortodossia religiosa respinse quindi più o meno en bloc il sionismo, ma non riuscì a vanificarne l'attrattiva. La svolta si ebbe con la dichiarazione Balfour del 1917, che aprì una possibilità concreta alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Il rabbino-capo di Gerusalemme, Avraham Yitzchak Ha-Cohen Kook, di origine lettone e che in precedenza aveva servito per dieci anni come rabbino di Giaffa, tentò quindi sia di risolvere il problema di coloro che pur rimanendo fedeli ai precetti dei padri volevano prendere parte a questa grande esperienza di rinascita nella terra degli stessi padri, sia di integrare nella corrente centrale dell'ebraismo quello che, in ogni caso, si stava realizzando sotto i suoi occhi in quel momento storico. Il pensiero del rabbino Kook, espresso in un linguaggio moderno accessibile a tutti e accettabile anche per gli intellettuali più raffinati, combina filosofie occidentali con tradizioni religiose e individua nel sionismo uno strumento del piano divino di redenzione del popolo ebraico, processo che sarà terminato in un futuro ignoto e soltanto per volontà divina, con la venuta del "messia figlio di Davide". Nessuno si rese conto del potenziale ideologico esplosivo contenuto in questo sincretismo.

Un sincretismo eversivo
Il rabbino Kook morì nel 1935, e l'interpretazione di ciò che aveva scritto fu lasciata ai suoi successori. La creazione dello stato di Israele vissuta come miracolosa dopo gli orrori dell'Olocausto e la guerra dei sei giorni, che riunì sotto un'unica sovranità tutto il territorio dal mare al Giordano, fornirono infine il campo d'azione necessario: il precetto di colonizzare, proteggere, difendere la terra di Israele fu interpretato come il più importante fra i 613 precetti della tradizione ebraica e ad esso furono subordinati tutti gli altri. Cominciò così la colonizzazione dei territori occupati. A questo punto non vanno dimenticate le grandi responsabilità politiche della classe dirigente laica, che prima permise (Labor) e poi incoraggiò (Likud), legittimandone teorie e fatti, tutto il movimento religioso-nazionale ispirato al rabbino Kook. Da allora quasi due generazioni di giovani religiosi-sionisti sono stati educati alla luce di una interpretazione della Halachà ebraica che vede nell'integrità della terra di Israele sotto una sovranità ebraica il precetto fondamentale, senza cui non è possibile un futuro messianico. Ben pochi sono stati gli educatori e i rabbini che si sono resi conto del potenziale eversivo di tale visione; ancora meno coloro che incoraggiarono l'eversione, anche se ce ne furono e ancora ce ne sono. Anche quando fu ormai evidente che esisteva un filo ideologico diretto fra il gruppo clandestino ebraico, che all'inizio degli anni '80 operò contro alcuni sindaci arabi e progettava di far saltare le moschee di Gerusalemme, il dott. Goldstein, responsabile della strage di Hebron, e le minacce rivolte a Rabin e Peres dalle frange estremiste negli ultimi due anni, la maggioranza del pubblico e degli esponenti sionisti-religiosi ancora non fu in grado di cogliere il pericolo in tutta la sua estensione.

Ora che Rabin è stato ucciso, e, secondo quanto stanno rivelando le indagini, apparentemente con l'approvazione di alcuni rabbini estremisti, che lo hanno definito "pericoloso per la terra ed il popolo di Israele" e a cui quindi è applicabile il diritto di legittima difesa (cioè il permesso anche di uccidere per difendersi), la crisi è scoppiata, profonda come non mai, ed è cominciato l'esame di coscienza. L'impressione è, tuttavia, che ancora una volta siano pochi coloro i quali sono in grado di individuare i reali termini ideologici della questione e riescono a vedere l'imperativa necessità di separare la politica dalla Halachà. Se questo non verrà fatto, c'è seriamente da temere che Yitzchak Rabin non sarà l'ultima vittima. Eppure basterebbe che coloro che oggi vedono nella leadership israeliana dei "traditori che svendono la patria al nemico" ricordassero il motivo per cui digiunano il giorno seguente il capodanno ebraico: in quel giorno si commemora l'assassinio, da parte di zeloti, di Ghedalià Ben Ahikam, il governatore della Giudea nominato dai babilonesi dopo la conquista di Gerusalemme del 586 a.C. In seguito alla sua morte, la Giudea perse l'ultima ombra di autonomia.


articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)