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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

La sfolgorante vittoria e il voto tribale

Fonte: "Il Regno" n. 12 del 1999

Il 17 maggio 1999 nello Stato di Israele Ehud Barak, laburista, è stato eletto primo ministro in luogo di B. Netanyahu.
Il tema della sicurezza al centro delle preoccupazioni degli elettori.
A 50 anni dalla fondazione lo Stato d’Israele sembra lontano dall’essere "un solo popolo".



La netta vittoria di Ehud Barak riportata nelle elezioni svoltesi in Israele lo scorso 17 maggio, 56% contro il 44% del suo antagonista, il premier uscente Netanyahu, invita a riallacciare i fili di un discorso brutalmente spezzato dal colpo di pistola che pose fine alla vita di Izchak Rabin. È quindi opportuno iniziare elencando due non effimeri punti di contatto tra queste due personalità: entrambi sono laburisti e tutti e due hanno alle spalle una prestigiosa carriera militare. La riconquista della carica di premier da parte della sinistra, dopo la sconfitta patita tre anni fa da Shimon Peres (cf. Regno-att. 12,1996,326), è dunque avvenuta sotto l’insegna di un uomo politico a cui si può ben applicare un’affermazione di Rabin: "Forse in Israele... solo un militare è nelle condizioni di imporre la pace" (cf. Le Monde 31.5.1996, 2).

La formazione personale di Barak richiama, per molti aspetti, il più classico iter delle prime classi dirigenti isrealiane. Per rendersene conto basta elencare alcuni dati biografici: Ehud Brog nacque nel 1942 nel kibbutz Mishmat Hasharon; suo padre era di origine lituana e sua madre di provenienza polacca, entrambi immigrati in Israele negli anni trenta; secondo una prassi corrente nei primi anni di vita dello stato, il suo cognome europeo fu poi mutato in quello di Barak – più propriamente Baraq, "sfolgorare", "luccicare". Combattente della guerra dei sei giorni (1967) e di quella del Kippur (1973), la sua carriera militare si è svolta, per un buon tratto, in un commando dello stato maggiore specializzato nella lotta antiterroristica. Tra l’altro, in questa sua veste, nel 1972 si trovò a capo della squadra che liberò a Tel Aviv gli ostaggi di un aereo Sabena dirottato da un gruppo palestinese; in quell’occasione alle sue dipendenze vi era anche il giovane luogotenente Benjamin Netanyahu.

Barak fu protagonista di molte altre operazioni antipalestinesi e questi atti contribuirono non poco a renderlo il soldato più decorato dell’intero esercito israeliano. Laureatosi nel frattempo in fisica e matematica all’Università ebraica di Gerusalemme, nel 1979 fu nominato ufficiale di brigata e nel 1982 direttore della pianificazione presso il Ministero della difesa. Rabin, che lo stimava molto, aveva già avuto occasione di dichiarare che se Barak, in futuro, non fosse diventato capo di stato maggiore ciò avrebbe significato che nell’esercito israeliano vi era qualcosa che non funzionava a dovere.

Nel 1986 fu nominato comandante della regione centrale e dei Territori occupati; l’anno dopo Rabin, allora ministro della difesa, lo promosse a vicecapo dello stato maggiore (e in questa sua veste collaborò all’operazione che portò nel 1988 a uccidere, nella sua abitazione di Tunisi, Abu Jihad, numero due dell’OLP); infine nel 1991 raggiunse la carica di capo di stato maggiore. Lasciò il servizio nel 1995. In quello stesso anno Rabin gli affidò il Ministero degli interni; in seguito Shimon Peres lo nominò ministro degli esteri. Eletto deputato nel 1996, Barak, dopo lo scacco elettorale di Peres, si iscrisse formalmente al partito laburista. Nel maggio 1997 Peres venne allontanato dalla direzione del partito; al suo posto, tre mesi più tardi, fu plebiscitariamente eletto Barak.

Barak, Rabin: continuità e discontinuità

La linea politica del nuovo premier mette in primo piano, assai più di quella di Peres, il tema della sicurezza, tanto è vero che qualcuno dei suoi avversari interni ha coniato per lui la qualifica di "falco mascherato da colomba". Non a caso, a suo tempo, Barak contestò gli accordi di Oslo. Certo, il suo programma politico prevede il rilancio del processo di pace con i palestinesi, il ritiro entro un anno delle truppe israeliane dal sud del Libano, il che comporta necessariamente la ripresa dei colloqui con la Siria.

Sicuramente si prefigge di riproporre il discorso troncato dall’assassinio di Rabin; tuttavia egli vuole perseguire questa linea in un quadro fortemente caratterizzato dai temi della sicurezza: è disposto a fare concessioni territoriali in Cisgiordania, ma non su Gerusalemme, non ha nulla da ridire sugli insediamenti ebraici finora attuati, accetta l’esistenza di uno stato palestinese, esso però dovrebbe avere una sovranità soggetta a varie limitazioni. Riguardo al tema della sicurezza, l’opinione pubblica israeliana lo giudica perciò, come Rabin, assolutamente affidabile.

La vittoria di Barak è da attribuirsi a un fattore squisitamente personale (il suo partito infatti ha subito un calo); essa, tra l’altro, alcuni mesi fa non appariva affatto scontata. Ancora agli inizi di marzo, Nachum Barnea, il più noto editorialista politico israeliano, dava per favorito Netanyahu, e ciò avveniva nonostante gli scandali, le menzogne e gli impacci che hanno caratterizzato i tre anni di governo del leader del Likud, situazione che lo aveva costretto a indire le elezioni anticipate. L’analisi di Barnea si reggeva peraltro sul fatto che, a quell’epoca, il panorama elettorale prevedeva la presenza di tre candidati "forti", essendo ancora accreditato di possibilità di successo il centrista Mordechai; questa presenza rendeva scontato che si dovesse andare al ballottaggio tra i due canditati più votati al primo turno (cf. Il Sole 24 ore, 8.3.1999).

Il ritiro di Mordechai ha lasciato il campo, come già nel 1996, a un confronto diretto a due che escludeva in partenza il secondo turno; ma se tre anni fa la vittoria di Netanyahu fu risicatissima (37.000 voti in più rispetto a Peres), questa volta la sconfitta del premier uscente appare a tal punto senza attenuanti, 12% in meno rispetto al suo avversario, da rendere pressoché scontata la fine della sua carriera politica; tra l’altro le dimissioni di Netanyahu da capo del Likud – un partito uscito drasticamente ridimensionato dalle urne – sono state accolte con un profondo respiro di sollievo anche dagli uomini della sua parte.

Non va dimenticato che il governo Netanyahu, oltre che da scandali e fenomeni di corruzione, è stato contraddistinto da decisioni così scarsamente soppesate da gettare nel discredito la figura di primo ministro, peraltro universalmente riconosciuto, capace di manipolare a suo favore l’opinione pubblica. A Netanyahu, ad esempio, vanno imputate scelte estremamente infelici come quella, foriera di gravissimi incidenti, di aprire il tunnel sotto il monte del Tempio di Gerusalemme o di ordinare l’assassinio di un esponente islamista in Giordania (uno dei pochi paesi arabi in pace con Israele), fatto che ha portato allo scambio tra i maldestri agenti israeliani catturati nel corso della fallita operazione e lo sceicco Yassin capo del movimento fondamentalista islamico Hamas. Casi come questi hanno reso evidente che il prestigio, l’efficienza e la sicurezza d’Israele – tasti sensibilissimi per l’opinione pubblica – non possono essere affermati senza una capacità di gestione e previsione degne di questo nome.

Sistema elettorale, governabilità, pace

Il ritorno a una leadership più conforme al modello originario dello Stato d’Israele è però più apparente che reale. Una delle molteplici vie per rendersene conto sta nel confrontare gli esiti delle attuali elezioni con quelle che portarono al potere Rabin nel 1992. Dal punto di vista strettamente temporale, a seconda delle circostanze, sette anni possono apparire un periodo anche non particolarmente lungo; in questo caso però i parametri complessivi di lettura della situazione sono profondamente mutati.

Sul piano internazionale, proprio il governo Rabin ha compiuto passi senza precedenti, ponendo in atto, in tempi assai rapidi, un processo di pace che, nei confronti sia dei palestinesi sia della Giordania, ha conseguito esiti irreversibili (cf. Regno-att. 18,1993,527; 12,1994,357; 20,1994,616; Regno-doc. 19,1993,640). Da questo punto di vista, come si è detto, si può ipotizzare la ripresa di un discorso che a lungo rischiato ha di venire definitivamente interrotto. Tuttavia, è un tipico errore di molti osservatori europei sopravvalutare il peso assunto nella società israeliana dai pur importanti temi della sicurezza e della politica estera. In realtà le cose stanno in maniera molto diversa: il rapporto tra società civile e stato passa largamente anche per questioni interne e queste ultime, negli anni novanta, hanno subito mutamenti di rilievo.

Nonostante il fatto che l’elezione diretta del premier sia stata introdotta solo nel 1996, è ugualmente utile confrontare le elezioni del 1992 con quelle del ’99, anche perché le modalità di nomina dei 120 deputati della Knesset sono rimaste invariate. In altre parole, se in relazione all’elezione del primo ministro l’asse portante è ormai la polarità destra-sinistra (come si è visto, anche quest’anno vi è stata difficoltà a far emergere una candidatura di centro), rispetto alla nomina dei parlamentari, effettuata in base a un sistema rigorosamente proporzionale, continuano a entrare in gioco una più ampia serie di fattori di tipo religioso, etnico, sociale e culturale.

Nella cinquantennale storia d’Israele questo sistema elettorale ha fatto sì che tutti i governi fossero di coalizione, inoltre ha attribuito una "rendita di posizione" a determinati partiti minori, specie di tipo religioso. Tuttavia, pur tenendo conto di queste costanti, il quadro attuale appare molto diverso.

Nelle elezioni del 1992 i laburisti ottennero 44 seggi e il Likud 40: da soli i due partiti annoveravano cioè più dei 2/3 dei deputati; gli esiti elettorali del 1999 hanno attribuito invece al gruppo di Barak 27 seggi e a quello di Natanyahu 19: ormai quindi neppure una "grande coalizione" raggiungerebbe la maggioranza assoluta! Ancora non molti anni fa la posizione dei partiti religiosi, espressione di quelli che si è soliti chiamare gli "uomini in nero", veniva felicemente sintetizzata affermando che per questi raggruppamenti "il vero problema non è quello di politica estera. Le vere domande che sono poste al partito laburista o al Likud, allorché questi vogliono sollecitare il loro appoggio, sono le seguenti: "Siete pronti a garantire che gli allievi delle nostre scuole talmudiche non saranno arruolati nell’esercito?"; "Quanto siete disposti a dare alle nostre istituzioni"; "Siete pronti a lottare contro gli aborti e le autopsie?". Ed è chiaro che quello che dei due grandi partiti sarà capace di impegnarsi in maniera più ferma su questi problema guadagnerà il loro appoggio e ciò qualunque siano le sue posizioni in politica estera".1 Oggi le cose non stanno più così, perché i termini delle contrattazioni non si possono più limitare a qualche settore particolare.

Frammentazione sociale, contrapposizione culturale

Una delle caratteristiche salienti attuali della società israeliana, ben riflessa dal suo sistema politico, è di essere a un tempo sempre più frammentata e sempre più connessa a contrapposizioni frontali. Hannah Kim, editorialista del più prestigioso quotidiano israeliano Ha’aretz, ha scritto di recente che negli ultimi anni si è saltato il fosso che separa il pluralismo politico dalla frammentazione, e che quest’ultimo processo si è poi spinto fino al punto di rendere evidente l’assenza di legami capaci di tenere coesa la società. In effetti, questa frammentazione si regge non solo attorno a una serie di elementi divergenti, ma anche su un ventaglio di contrapposizioni reciproche; tra esse la più immediatamente percepibile è quella fra religiosi e laici. Gli analisti politici parlano ormai apertamente di un "voto tribale", cioè della presenza di opzioni politiche tutte legate a particolarismi sociali, etnici, culturali e via dicendo.

Tendenze volte ad assicurare rappresentanze settoriali ci sono sempre state (e non solo in Israele) e, in molte elezioni, hanno dato luogo a una costellazione di liste più o meno folcloristiche (nell’ultima tornata elettorale si è presentato, ad esempio, un gruppo difensore degli interessi degli ebrei originari del Caucaso e di Bukara, un partito che voleva la presenza di case da gioco anche in Israele per contrastare quella aperta dai palestinesi a Gerico, un movimento che si proponeva di diffondere la meditazione trascendentale ecc.); tuttavia il salto qualitativo si ha quando i raggruppamenti "tribali", lungi dall’essere solo delle frange, rischiano di diventare il cuore stesso del sistema.

Per limitarsi ai casi maggiori, la contrapposizione tra sefarditi (ebrei originari del Medio Oriente) e askenaziti (ebrei originari dell’Europa centro-orientale, i quali, in proprio, possono anche non considerarsi una "tribù" ma tali sono giudicati dagli altri); tra religiosi e laici; e la presenza dei "russi" (circa 900.000 gli immigrati dopo il 1989) e degli arabi israeliani (il 17% dell’elettorato) sono tutte componenti ormai di ordine sistemico. Nel Parlamento eletto il 17 maggio sono rappresentati ben quindici partiti politici, in realtà ve ne sarebbero anche di più se si tenesse conto, ad esempio, che il raggruppamento di maggioranza relativa "Israele unito" (27 seggi) è costituito da una lista in cui sono confluiti i laburisti, i sefarditi del Ghesher ("Ponte", diretti dall’ex ministro degli esteri David Levi di origine marocchina) e i religiosi progressisti.

I due partiti che hanno raggiunto proporzionalmente il maggior successo elettorale sono stati, rispettivamente, lo Shass e il Shinnui ("Cambiamento"). L’Organizzazione mondiale dei sefarditi osservanti la Torah (Shass) è passata da 10 a 17 seggi (solo due in meno del Likud!), e ciò è avvenuto nonostante il fatto che il suo capo politico Areh Deri (ex ministro degli interni di Netanyahu) sia stato condannato, alla vigilia del voto, a quattro anni di carcere per corruzione e altri reati. Lo Shass è ormai il partito ultraortodosso di gran lunga più numeroso, visto che il corrispettivo partito askenazita (Giudaismo unificato della Torah) ha 5 seggi, e altrettanti ne annovera lo "storico" e ridimensionato Partito nazionale religioso.

Alla sua prima partecipazione al voto il Shinnui di Tommy Lapid ha conquistato di colpo 6 deputati; la sua ideologia si ispira a un laicismo militante di stampo radicale, infatti il movimento si è contraddistinto per aver condotto una campagna molto aggressiva nei confronti dell’intolleranza dei rabbini. I due gruppi maggiormente in crescita sono perciò chiaramente alimentati dalla contrapposizione ideologica laici-religiosi. Passando ad altri schieramenti, va sottolineato che i "russi" di Sharanski hanno 7 seggi, mentre quelli, più a destra, di Libermann 4; nel loro complesso anche le liste arabe possono contare su 11 deputati.

Sionismo e conflitti religiosi

Poco più di un secolo fa il sionismo politico prospettò al popolo ebraico sparso un po’ ovunque di trovare un suo centro unificante territoriale e statuale; lo fece in nome di un principio di nazionalità inteso in senso forte: "Siamo un popolo, un solo popolo" (T. Herz).2 Per molti versi, rispetto a tante ideologie ottocentesche tragicamente naufragate nel secolo successivo, il sionismo può fregiarsi di aver conseguito risultati assai più positivi; tuttavia bisogna ugualmente riflettere su un processo che, lungi dal limitarsi a ribadire in modo positivo il pluralismo da sempre presente in seno al mondo ebraico, sembra aver innescato, in questi ultimi anni, dinamiche di frammentazione del tessuto sociale e politico sempre più pericolose e francamente paradossali se confrontate con gli intenti ideologici originari.

Per molti anni è prevalsa l’idea che lo Stato d’Israele fosse il luogo capace di fondere in un unico sia pur variegato crogiolo ebrei provenienti da più di cento nazioni diverse; oggi invece, proprio quando i nati in Israele rappresentano ormai la netta maggioranza della popolazione, la presenza di sperequazioni sociali, economiche e culturali legate a quelle diverse origini e l’acuirsi delle contrapposizioni ideologiche connesse al fattore religioso sono diventate per la stabilità d’Israele minacce forse ancor più serie di quella rappresentata dalla residua opposizione presente nel mondo arabo.

Probabilmente è ancora vero che in Israele solo un militare è nelle condizioni di imporre la pace, è altrettanto certo però che la riconciliazione nazionale non dipende più solo dai rapporti con gli arabi. Dalla folla che festeggiava Barak dopo la vittoria si è ripetutamente alzato il grido "Mai con lo Shass!". Il nuovo premier ha, a partire dalle elezioni, 45 giorni di tempo per formarsi una maggioranza; questo periodo di ardue trattative sarà il primo vero banco di prova per vedere se la stella di Barak sarà davvero capace di cominciare a "sfolgorare".

1 I. Greilsammer, Israël les hommes en noir. Essai sur les partis ultra-orthodoxes, Press de la Fondation nationale des Sciences politiques, Paris 1991, 25-26.

2 Per la storia dell’ideologia sionista cf. il recentissimo D.J. Goldberg, Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista, Il Mulino, Bologna 1999.


articolo tratto da Il Regno logo

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