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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Marcello Matté - Francesco Strazzari

La pace verrà dai nuovi leader

Fonte: "Il Regno" n. 12 del 2001

Intervista al patriarca Michel Sabbah dopo la visita del papa in Siria


Mons. Sabbah, cambierà qualcosa in Medio Oriente dopo la visita del papa?

"Il viaggio del papa in Siria viene dopo quello in Egitto, ma questo sembra più pensato in direzione del mondo arabo e della Chiesa araba. Il papa infatti è stato accolto in Siria non solo dalla Chiesa cattolica, non solo dal patriarca greco-cattolico, ma anche dagli altri due patriarchi, il patriarca siro-ortodosso Ignatius Zākka I Iwās e il patriarca greco-ortodosso Ignace I Hazim, e tutti e tre erano parte del seguito. Ciņ significa che queste Chiese non venivano avvicinate soltanto come Chiese alle quali si faceva una visita – come č stato a Gerusalemme, per esempio, o anche in Egitto –, ma qui le due Chiese ortodosse erano parte della visita. Si è trattato dunque di una visita agli oltre due milioni di cristiani siriani, cristiani arabi. Io credo che questa visita alla Chiesa araba orientale sia l’inizio di un nuovo dialogo, che potrà avere o meno la sua influenza sul dialogo generale con la Chiesa ortodossa".

Una visita al mondo arabo

– Perché il papa ha scelto la Siria?

"Una visita al mondo arabo è stata pensata perché la Siria è un po’ il cuore di tutta la Grande Siria (Palestina, Giordania, Libano e Siria). Lì c’è stato l’incontro con l’islam in una moschea, per la prima volta (a Gerusalemme il papa non è andato in una moschea, ma in un salone nella spianata della moschea). si trattava oltretutto della più grande, la più importante, la moschea degli Omayyādi, che era anticamente la chiesa di s. Giovanni Battista, nella quale i musulmani hanno conservato il ricordo del santo. Č stata l’occasione di un dialogo, di un inizio; il muftě ha detto nel suo discorso: "Dimentichiamo il passato, cominciamo un nuovo periodo...". Anche il papa ha fatto appello per un nuovo inizio nel dialogo tra cristiani e musulmani nel mondo arabo (cf. Regno-doc. 11,2001,334).

Vista dal mondo arabo musulmano è stata certamente una visita controversa; in questi giorni si leggono articoli contro e a favore. Per alcuni questa visita è stato un bene, per altri sarebbe stato meglio se non si fosse fatta. Sono voci che rappresentano correnti all’interno del mondo islamico. Ma anche questa controversia è segno di qualcosa che si muove tra cristiani e musulmani. Nuovo inizio e, piuttosto, un rinnovamento del dialogo che già c’era. Per quello che riguarda la pace, il papa ha nuovamente richiamato i valori della giustizia, dei diritti dei popoli, in un paese che è in conflitto con Israele e ha un posto importante nella dinamica del Medio Oriente".

– Dal punto di vista politico, come è stata valutata la visita?

"Dal punto di vista della Siria il giudizio è positivo. Tutto il paese ha accolto il papa – governo e popolo – e si sentiva che era un’accoglienza di cuore; anche i musulmani lungo le strade accoglievano il papa. La Siria ha decretato vacanza per tutte le scuole sabato, domenica e lunedì durante il soggiorno del papa. Il governo ha dunque investito molto per accogliere bene il papa. Dal punto di vista politico certo tutto il mondo ha visto la Siria sotto un’altra luce: una società che sa accogliere, che può essere ospitale; una società che non è poi tanto per il conflitto, ma alla quale il conflitto è imposto come a tutto il mondo arabo (palestinesi, siriani, Egitto), senza che lo vogliano. Quello che richiede il mondo arabo è semplicemente di rientrare nei propri territori e nei propri diritti. Sarà difficile forse per tutto l’Occidente cambiare la propria visione della Siria, ma bisogna cambiarla".

– In che senso cambiarla? Perché l’Occidente fa fatica a capire questo?

"Guardare alla Siria non come a uno stato che vuole la guerra con Israele, ma come un paese che vuole semplicemente riavere i suoi territori e dare la pace a Israele; non ha niente contro Israele come tale – almeno in questa fase della storia del conflitto –, ma vuole indietro i suoi territori occupati".

– Lei ha usato un’espressione forte: "un conflitto imposto".

"Certamente, è imposto, a tutti noi. Chi lo vuole? Israele si è imposto nella regione prendendo la terra di altri popoli. La comunità internazionale lo ha aiutato in questo, perché voleva riparare al danno fatto al popolo ebraico in Europa, e ha riparato a spese di altri; invece di dare dei suoi terreni in Europa, ha dato una terra che non era sua. Certo che è un conflitto imposto! Se oggi l’Europa non continua ad aiutare, continua comunque a essere troppo debole e mancare alle proprie responsabilità nei riguardi di questo conflitto. L’Europa ha aiutato questo conflitto a nascere e poi si è ritirata. Adesso deve fare tutto il possibile – è suo dovere – per aiutare a mettervi fine. Il che vuol dire oggi aiutare i due popoli a una riconciliazione".

– Gli israeliani rappresentati da Sharon come hanno reagito alla visita del papa in Siria?

"Hanno sentito la frase del re sui "nostri nemici… che ci opprimono come hanno maltrattato Gesù…" e hanno reagito soltanto in riferimento a questa".

– I cristiani del Libano come hanno vissuto questa visita? Vi sono state reazioni particolari?

"No, nessuna reazione particolare. C’erano i rappresentanti delle varie comunità religiose. Il patriarca no, ha le sue ragioni. Ma il popolo come tale, per quello che ho potuto percepire, ha accolto bene la visita, così come tutti i cristiani della regione, perché s’è trattato di un evento che li riguardava tutti".

La nuova Intifada

– Questa nuova ripresa dell’Intifada quanto potrebbe durare?

"Dipende dall’emergere di una nuova generazione di leader israeliani. I leader attuali sono quelli del ’48 e i leader del ’48 non possono amministrare un conflitto dopo cinquant’anni, nel 2000. I leader attuali devono passare e poi speriamo che una nuova generazione prenda in mano la questione; loro sapranno meglio vedere l’"altro popolo", perché la nuova generazione israeliana, come quella di tutti i popoli, non vuole la guerra. Malgrado tutte le maggioranze che si esprimono come estremiste, di destra ecc., io credo che nel seno della società israeliana ci sia stato un cambio storico, sociale, psicologico: anche loro non vogliono vivere nella guerra. Per non vivere nella guerra possono guardare in faccia le ragioni della guerra: ingiustizia verso i palestinesi, occupazione dei territori. Togliamo la causa, ridiamo ai palestinesi i loro territori e viviamo in pace. In questi due giorni c’è stata una dichiarazione firmata da oltre 300 accademici israeliani per dire: "Mettete fine a questa occupazione e facciamo la pace". Ci sono queste voci che esprimono i sentimenti di tanti altri. Io credo che la sola speranza per la fine del conflitto stia in questo cambiamento del senso della pace e della giustizia nelle nuove generazioni israeliane".

– Lei ritiene dunque che soluzione resti la restituzione dei territori e la fine degli insediamenti ebraici?

"Bisogna ritornare alle frontiere del 1967. Punto".

– E per quanto riguarda Gerusalemme?

"Tutto si può risolvere se c’è la volontà sincera e autentica di fare la pace: Gerusalemme, rifugiati, coloni, insediamenti. Ma se non c’è la volontà, tutto diventa ostacolo. Finché non c’è la volontà, anche ciò che non è ostacolo diventa pretesto per non fare la pace. Se c’è la volontà si trova una soluzione per tutto. Cambiano gli eventi, il conflitto e l’opposizione prendono altre forme, muta di giorno in giorno, ma la questione di base rimane la stessa, perché non c’è la volontà di risanare tutto".

– È ancora sul tavolo la proposta vaticana per Gerusalemme?

"A Gerusalemme c’è una questione politica: Gerusalemme Est è territorio palestinese, da restituire ai palestinesi. Lo statuto speciale con garanzie internazionali viene dopo; prima bisogna risolvere il conflitto politico. Come amministrare i luoghi santi, come rispettare il carattere sacro della città: tutto questo dovrà essere preso in considerazione dal governatore, da colui che sarà incaricato di amministrare la città".

– Il popolo palestinese oggi soffre ancor di più per la mancanza degli introiti derivanti dal turismo.

"Sono momenti più difficili. Non solo per il venire meno del turismo; tutta l’economia non ha più base, non c’è nessuna struttura: né turismo, né economia interna, nessuna possibilità di sviluppo, le strade chiuse e non si può andare da qua a là; tutto è fuori dalla norma".

– Accennava alla necessità che emergano nuove generazioni di leader. Le nuove leaderships in Giordania e Siria come le vede orientate?

"La Giordania ha sempre operato per la pace; qui la pace l’hanno già fatta, a livello di governo. Ecco un’altra questione: bisogna che il popolo segua la leadership. In Israele bisogna cominciare a rieducare la gente; fino a oggi nella raffigurazione comune l’immagine del palestinese è solo quella del terrorista, e perciò tanta parte dell’opinione pubblica non è preparata; non per sua colpa, ma perché è stata sempre educata a vedere nel palestinese il terrorista. Bisogna educarla a veder nel palestinese un vicino, con il quale può vivere in pace. C’è un’opera di rieducazione da fare. È un lavoro di generazioni".

– E l’amministrazione statunitense attuale?

"Quella attuale, quella passata, quella che verrà non possono fare niente. In ciò che riguarda Israele è Israele che comanda, non è l’America".

articolo tratto da Il Regno logo

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