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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

La pace fallita

"Il Regno" n. 16 del 2001

Le cause che hanno condotto alla fine degli Accordi di Oslo


La cronaca mediorientale induce a credere che ci sia un’unica caratteristica capace di qualificare questo periodo: la stagione dell’odio. Difficile trovare un’altra denominazione per i meccanismi psicologici che traspaiono sui volti e per i sentimenti e comportamenti sempre più diffusi tra le due popolazioni. Lo scenario è dominato da un’avversione retta dalla dinamica, per sua natura non componibile, propria della catena senza fine delle vendette reciproche. L’atto vendicativo non è mai conclusivo: ogni gesto sa di essere seguito sempre da una reazione uguale e contraria. Quando la logica privata della faida diviene modello che regge lo scontro tra collettività, i tempi della riconciliazione si spostano in un futuro dai contorni via via più indeterminati.

Questo il quadro fornito dalla cronaca. Alla sue spalle vi sono però anche nodi politici. Essi comportano di individuare le ragioni che, nell’ultimo anno, hanno fatto naufragare quel processo di pace, iniziatosi a Oslo nel 1993, che aveva, tra lenti progressi e repentine interruzioni, caratterizzato per qualche anno i rapporti israelo-palestinesi.

Sionismo e razzismo: equazione irresponsabile

Quando si è di fronte a un compito molto impegnativo, a volte conviene prendere una via un po’ defilata. È quanto faremo in questo caso, seguendo per un buon tratto il discorso – pronunciato ai primi di settembre alla Conferenza ONU di Durban sul razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l'intolleranza che vi è associata – dall’ambasciatore Mordechai Yedid in nome del vice ministro degli esteri israeliano Rabbi Michael Melchior. Rabbino ortodosso, pure in passato Melchior, che aveva già ricoperto importanti cariche pubbliche, si era dimostrata personalità aperta e lontana da ogni oltranzismo. L’appassionato, a volte sdegnato, ma mai iroso discorso preparato per una conferenza abbandonata da Israele, dopo la proposta della mozione che accusava lo Stato ebraico di razzismo, può dunque considerarsi un’espressione appropriata della componente più moderata e pensosa dell’attuale leadership israeliana.

L’intervento prende le mosse da alcune prospettive di fondo. Secondo la visione ebraica la dottrina della creazione garantisce l’assoluta uguaglianza fra tutti gli uomini; inoltre l’esperienza primordiale dell’esodo, tenuta viva per tutto l’arco delle generazioni, educa l’ebreo a combattere ogni forma di schiavitù. Il sionismo ebbe come motivo ispiratore la lotta per la libertà e l’emancipazione di un popolo per raggiungere un mondo in cui tutti i popoli siano ugualmente liberi. A tal proposito, Melchior richiama una frase di Theodor Herzl, in cui il fondatore del sionismo politico auspicava di poter testimoniare dopo il pieno riscatto del popolo ebraico anche quello delle popolazioni di colore. Gli ebrei più di tutti gli altri hanno sperimentato su loro stessi a quali conseguenze nefaste possano condurre visioni razzistiche.

La Shoah va conservata in tutta la sua tremenda peculiarità storica proprio per testimoniare dove sfociano simili aberrazioni; infatti c’è qualcosa di peggio della stessa "soluzione finale" ed è il tentativo di negarla, di banalizzarla, di non assumerla come monito per l’intera umanità. Il XX secolo, oltre che all’atrocità della Shoah, ha assistito anche alla realizzazione del sogno sionista concretizzatosi con la nascita dello Stato d’Israele, il quale, fin dalla sua fondazione, si è sforzato di attenersi agli ideali di libertà, uguaglianza e democrazia a favore di tutti i suoi abitanti. Non sempre si è stati all’altezza di questi compiti; tuttavia, anche di fronte all’aperta ostilità dei paesi vicini, essi non sono stati mai rinnegati.

Dichiararsi antisionisti rifiutando però la qualifica di antisemiti è un’operazione ipocrita: come scrisse Martin Luther King, l’antisionismo vuol negare al popolo ebraico quel diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione che concediamo a tutte le altre nazioni; si tratta quindi di una "discriminazione contro gli ebrei perché ebrei. In breve è antisemitismo". Lo specifico degli atteggiamenti antisionisti/antisemiti presenti nella Conferenza di Durban si trova nel fatto che essi sono stati deliberatamente propagandati e manipolati per fini politici. I bambini non nascono razzisti, diventano tali per l’educazione che ricevono; al giorno d’oggi, questo è anche il caso di intere generazioni di giovani palestinesi.

Il conflitto è soprattutto politico e territoriale

Dopo aver sunteggiato queste ampie premesse, trascriviamo ora per esteso alcuni passaggi del discorso più direttamente legati all’attualità: "Il conflitto tra noi e i nostri vicini palestinesi non è razziale, e non ha posto in questa conferenza. È politico e territoriale, e come tale può e deve essere risolto ponendo fine alle sofferenze e portando pace e sicurezza sia al popolo israeliano sia a quello palestinese. Il cammino verso tale esito è chiaro: una cessazione immediata delle violenze e del terrorismo e un ritorno ai negoziati come raccomandato dal piano Mitchell accettato da entrambe le parti. Le accuse oltraggiose e folli che abbiamo udito in questa sede sono tentativi di tramutare un problema politico in uno razziale, privo di quasi ogni speranza di soluzione.

Circa un anno fa, a Camp David, il governo israeliano ha dimostrato il suo più profondo impegno nei confronti della pace offrendo ai vicini palestinesi compromessi molto estesi. Questi compromessi, come ricorderete, ricevettero il plauso dell’intera comunità internazionale. Ma i palestinesi non accettarono quelle proposte, né da parte loro avanzarono altre proposte di compromesso. Alla nostra profonda costernazione essi risposero con un’ondata di violenza. Nel corso dell’ultimo anno questa violenza è sempre cresciuta dando luogo ad attacchi prolungati e disumani diretti contro la popolazione civile israeliana, forzando Israele ad assumere un ruolo che aborriamo, difendere i nostri cittadini con mezzi militari che avevamo sperato e auspicato fossero relegati al passato".

Dopo essersi rammaricato che la delegazione palestinese si sia servita della conferenza non per tentare le vie della pace, bensì per incitare all’odio, e dopo aver ricordato alcuni suoi parenti, tra cui anche dei bambini, vittime di attacchi terroristici, Rabbi Melchior torna sull’infamante e strumentale equivalenza tra sionismo e razzismo, ricordando che circa un decennio fa le Nazioni Unite cancellarono una risoluzione in tal senso che fu definita da Kofi Annan il "punto più basso" nella storia dell’ONU. È triste ironia pensare che una conferenza, destinata a combattere il razzismo, sia sfociata in una sua riproposizione corredata da virulente istigazioni contro Israele. Questi fatti suscitano preoccupazione non perché minaccino quello Stato d’Israele, ma perché rinvigoriscono un’ideologia che, non stanca del suo passato, sembra esigere sempre nuove vittime.

Lo stato d’animo d’Israele

Letti nel testo originale, gli appelli agli ideali di fondo ebraici e sionisti compiuti da Melchior non suonano retorici; anzi, si è fortemente propensi a credere nella sincerità delle sue affermazioni. Né si può dubitare che sia opportuno presentare il proprium del conflitto israelo-palestinese in termini politico-territoriali (ben conosciuti dalla storia europea quando sorgono e si affermano identità nazionali), piuttosto che razziali (o religiosi). Per queste loro caratteristiche, tali parole sono rivelatrici di uno stato d’animo e di un’interpretazione che appaiono sempre più diffusi nell’opinione pubblica israeliana anche non estremista. Si tratta, precisamente, della convinzione, fattasi più salda di mese in mese, che nel luglio del 2000 Barak a Camp David abbia offerto ai palestinesi le massime concessioni possibili da parte israeliana (cf. Regno-att. 14,2000,530) e che quindi il loro rifiuto significhi, obiettivamente, che i palestinesi non vogliono la pace.

Come giustificare quell’inopinato diniego se non ipotizzando un Arafat ormai incapace di controllare le componenti estremistiche? Non è forse vero che nell’ultimo anno la popolazione palestinese si è riconosciuta in modo crescente nelle organizzazioni oltranziste? In realtà, alcune statistiche indicano che, in questi ultimi dodici mesi, il sostegno nei confronti di Hamas e di altre forze ascrivibili al fondamentalismo islamico è passato dal 15% al 25% della popolazione, un incremento che, date le circostanze, non può essere valutato come particolarmente clamoroso. La vera questione è però un'altra. Come mostra un severo, ma persuasivo articolo a firma Alain Gresh apparso Le Monde diplomatique, settembre 2001, l’impressione o la convinzione che a Camp David si sia giunti da parte israeliana al massimo delle concessioni possibili è priva di fondamento. Né quell’evento deve assurgere a ruolo di spartiacque decisivo.

Negli ultimi giorni del suo governo (gennaio 2001), nel tentativo ormai disperato di garantirsi la rielezione a primo ministro (cf. Regno-att. 4,2001,118), Ehud Barak intavolò a Taba dei colloqui con una delegazione palestinese. Nel documento presentato in quell’occasione dalla delegazione israeliana (reso pubblico per la prima volta sul numero citato di Le Monde diplomatique) sono presenti concessioni molto più "avanzate" di quelle mai ammesse in precedenza. In quel testo, ad esempio, si parlava persino di una responsabilità israeliana nell’insorgenza del problema, anzi, come si esprime il documento, della "tragedia", dei profughi palestinesi: "Malgrado la sua accettazione della risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del novembre 1947 [che raccomandò la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e l’altro arabo] lo Stato d’Israele è stato coinvolto, alla sua nascita, nella guerra e nello spargimento di sangue del 1948-1949, che hanno fatto delle vittime e hanno provocato delle sofferenze da ambo le parti, compresa l’espulsione e l’espropriazione della popolazione civile palestinese divenuta cosi composta da rifugiati (…) Una giusta regolamentazione del problema dei rifugiati palestinesi, in accordo con la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, deve condurre all’applicazione della risoluzione 194 dell’Assemblea generale" – confermata tutti gli anni a partire dal 1948 –, che permette ai rifugiati che lo desiderano di tornare alle loro case e di vivere in pace con i propri vicini.

Le gravi responsabilità di Israele

Di fronte a queste ammissioni, infinite volte sollecitate dai palestinesi e mai accolte da parte israeliana, la soddisfazione di aver a portata di mano un accordo storico si scontrava, già allora, con la consapevolezza che queste proposte erano giunte ormai troppo tardi. Le elezioni erano alle porte e con esse la schiacciante vittoria di Sharon.

Quali che fossero le prospettive concrete legate a questa e ad altre proposte avanzate a Taba, esse dimostravano di per sé che Camp David non poteva qualificarsi (per ricorrere alle parole di Barak) solo come "un’offerta generosa" malauguratamente respinta da parte palestinese. Secondo quelle "generose concessioni" lo Stato palestinese avrebbe infatti goduto solo di una sovranità limitata. La vita dei palestinesi avrebbe continuato a essere subordinata all’occupante israeliano: il 9,5% della superficie della Cisgiordania doveva essere annesso e circa il 10%, lungo il Giordano, affidato ancora per lungo tempo al controllo israeliano. In prigione, è stato osservato da parte palestinese, ai carcerati può essere concesso anche più del 90% della superficie, con tutto ciò essi restano pur sempre prigionieri.

Nonostante alcune concessioni coraggiose relative alla stessa Gerusalemme Est, la filosofia delle proposte israeliane avanzate a Camp David rifletteva una ben determinata visione del processo messo in moto dagli Accordi di Oslo e dai successivi colloqui (cf. Regno-att. 18,1993,527; 18,1995,527; 4,1997,86; 20,1998,661; 16,1999,539): non si tratta di stipulare patti tra due parti poste su un piano di parità, ma di pervenire a un accomodamento tra occupante e occupato. Tra il 1993 e il 2000 sono stati firmati una dozzina di accordi, ma è stata applicata, spesso in ritardo, solo una parte modesta delle clausole sottoscritte.

Gli errori di Arafat

Da questo punto di vista, per molti palestinesi Camp David ha rappresentato davvero un punto di svolta, ma nel senso opposto a quello individuato dall’opinione pubblica israeliana: quando si era giunti finalmente a discutere dello statuto definitivo, ci si è resi conto che esso non avrebbe mai condotto all’applicazione integrale del principio "pace in cambio dei territori". La pazienza palestinese era giunta ai limiti; di fronte alla provocatoria camminata di Sharon sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme a fine settembre del 2000, la collera popolare, senza che ci fosse alcuna direttiva centrale, è scoppiata incontenibile. Per quanto in tre giorni non si fosse usata alcuna arma contro l’esercito israeliano, quest’ultimo ha ucciso trenta persone e ne ha ferite cinquecento. Da questo innesco è nata una serie ininterrotta di violenze reciproche di cui non si vede ancora la fine (cf. Regno-att.20,2000,674).

Nonostante non sia la massima responsabile degli ultimi avvenimenti, la dirigenza palestinese non è esente da colpe. Contraddistinta dalle pratiche autoritarie di Arafat, immobilizzata dalle lotte per la successione all’anziano leader, intaccata a fondo dalla corruzione, essa per molti mesi è stata preda di una paralisi mortale, incapace di individuare obiettivi e strategie. Inoltre ha sottovalutato il pericolo della vittoria elettorale di Sharon, non mobilitando a favore di Barak gli arabi israeliani. Si aggiunga, infine, che, essendo convinto che gli Stati Uniti controllassero il negoziato al 99%, Arafat ha ignorato un fattore cruciale: il peso dell’opinione pubblica israeliana, indispensabile per raggiungere qualunque tipo d’accordo.

Profughi, coloni, ma soprattutto sovranità

Ora, nonostante che in agenda siano previsti degli incontri tra Peres e Arafat, nessuno sa se e quando tra israeliani e palestinesi riprenderanno degli effettivi colloqui di pace. Un punto è però certo: quegli incontri, oltre che con altri punti di difficilissima soluzione, in primis lo statuto di Gerusalemme Est, troveranno sulla loro rotta due scogli particolarmente ardui: i rifugiati palestinesi e i coloni israeliani.

Il dramma di 3.700.000 profughi sparsi nei campi di Libano, Siria, Giordania e dei territori dell’Autonomia rappresenterebbe di per sé un ostacolo oggettivamente insuperabile, se la pace comportasse il reale reinsediamento dei rifugiati nei luoghi abbandonati (da loro o dai loro genitori o dai loro nonni) oltre mezzo secolo fa. È chiaro però che, dal punto di vista ideale, la richiesta legata ai rifugiati palestinesi è irrinunciabile in quanto speculare a quella sionista che legittima la pretesa ebraica su quella terra in virtù di un legame ben più remoto.

Come ha giustamente osservato il corrispondente da Gerusalemme di France 2, Charles Enderlin, "è un insulto all’intelligenza immaginare, come afferma una certa propaganda, che i dirigenti palestinesi credano possibile concludere un accordo di pace che comporti il ritorno in Israele di 3,7 milioni di rifugiati. La verità è che non si può rinunciare a questa rivendicazione storica dell’OLP se non in cambio di uno stato palestinese che si sviluppi sulla quasi totalità della Cisgiordania e di Gaza, con capitale la parte araba di Gerusalemme". Per l’opinione pubblica israeliana sembra sempre più remoto riconoscere l’esistenza di questa equazione; ma è anche sempre più difficile convincere altri (non solo palestinesi) che essa non sia pienamente legittima.

I coloni israeliani rappresentano, da un punto di vista qualitativo, il rovescio speculare dei rifugiati palestinesi: invece di essere stati allontanati dalle proprie case, vanno in quelle altrui (che, ben s’intende, essi ritengono proprie). Secondo dati ufficiali del giugno 2001, il numero dei coloni israeliani insediati in Cisgiordania e nella striscia di Gaza ammonta a 208.000 unità, con un aumento di 5.000 persone rispetto alla fine del 2000. Il tasso di crescita si è comunque comprensibilmente ridotto passando dal 7% al 2,4%. I coloni, che godono di importanti vantaggi fiscali e sociali, sono sistemati in insediamenti molto diversi tra loro: alcuni sono delle vere e proprie cittadine (il maggiore conta 26.480 abitanti), altri sono piccoli nuclei (per non parlare del caso di Hebron, in cui vivono circa 300 coloni difesi da 700 soldati, circondati, a loro volta, da 120.000 palestinesi). A detta di qualcuno, dopo i pericoli e la snervante tensione di quest’ultimo anno, circa l’80% dei coloni sarebbero ora disposta a lasciare i territori palestinesi se il governo israeliano accordasse delle indennità finanziarie e permettesse loro di risistemarsi dentro i confini storici dello Stato d’Israele.

Ma anche se questa ipotetica previsione fosse vera (e c’è da dubitarne), il problema dei coloni resterebbe ugualmente una pietra d’inciampo sulla via dei negoziati. Da un lato infatti la pace comporta di necessità un’inversione della scelta israeliana di proteggere a oltranza gli insediamenti, dall’altro lato questa retromarcia metterebbe in questione la stessa coesione interna d’Israele: i coloni religiosi non sarebbero mai disposti ad allontanarsi da una terra che credono loro per diritto divino e sloggiarli con la forza comporterebbe il rischio, tutt’altro che teorico, dello scoppio di una vera e propria guerra civile.

Subito dopo la guerra dei Sei giorni (1967), il grande intellettuale isreliano Yeshayahu Leibowitz (cf. Regno-att. 8,1999,236) sostenne che il vero problema per lo Stato d’Israele non era quello di liberare i territori, bensì di liberarsi dai territori. Per molte (e non immotivate) ragioni, il governo di allora non volle (né forse avrebbe potuto) seguire tale preveggente consiglio. Dopo sei/sette anni in cui una simile meta è apparsa parzialmente conseguibile, la prospettiva è bruscamente ritornata a essere fuori portata. L’aspetto paradossale di tutto ciò sta nel fatto che la formula "pace in cambio di territori" rimane tuttora l’unica immaginabile; anche se, purtroppo, non sono pochi i fattori orientati a far credere che a essere inimmaginabile sia ormai proprio la pace. 7 settembre 2001.

articolo tratto da Il Regno logo

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