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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

Il nazionalismo laico di Sharon

"Il Regno" n. 16 del 2005

Il ritiro unilaterale di Israele da Gaza; lo stato palestinese


Per interpretare gli attuali avvenimenti legati al disimpegno unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza si può cominciare anche da molto lontano, al fine, però, di giungere rapidamente a questioni di stretta attualità.

Il punto d’inizio potrebbe essere addirittura la più classica e articolata definizione dell’ebraismo. Esso è definito in base a tre parametri: Torah (legge religiosa), popolo, terra. È sostenibile affermare che quasi tutte le modalità in cui in epoca moderna si è posto sul tappeto il problema dell’identità ebraica ruotino attorno ai modi di pensare il reciproco intreccio di questi tre poli.

Der Judenstaat
Tra questi tentativi a fine Ottocento vi fu anche quello del sionismo politico propugnato da Theodor Herzl. In quest’ambito si puntò programmaticamente sul predominio del fattore popolo. Nonostante il fatto che il suo nome abbia un’origine geografica, si sbaglia a ritenere che il fattore decisivo di questo movimento sia costituito dalla terra. L’opuscolo di Herzl inizia con parole inequivocabili: siamo un popolo, un solo popolo.

L’affermazione è nettissima, molto più vaghe sono invece le ragioni che motivavano perché quello ebraico sia un popolo solo. In ogni caso non è tale né per l’osservanza religiosa, né per il fatto di risiedere in una determinata terra. I commentatori che anche di recente hanno rievocato – scatenando un coro di polemiche – una pretesa, originaria vocazione espansionista-territoriale del sionismo hanno sottovalutato il riferimento determinante al popolo.

Quando il sogno sionista si realizzò nel 1948, Torah e terra vollero avere voce in capitolo. L’opuscolo di Herzl s’intitolava Der Judenstaat, alla lettera Lo stato degli ebrei; alla sua nascita Israele si presentò invece come stato ebraico. Tuttavia ciò non avvenne a totale scapito di istituzioni laico-democratiche. Una parte significativa della popolazione israeliana e la maggioranza della classe dirigente erano allora non religiose. Non vi fu perciò nessuna integrale assunzione della Torah come un insieme di norme volte a regolamentare la vita collettiva del paese. Si ebbe però un compromesso nazional-religioso in base al quale la Torah giocò, per più aspetti, un ruolo decisivo in alcuni settori della vita pubblica. Come ogni soluzione intermedia, anche questa evidenziò la presenza delle ali estreme, ambedue legittimate, sia pure per ragioni opposte, ad affermare che si erano traditi alcuni principi irrinunciabili. Da qui la perenne tensione sociale e istituzionale, rafforzatasi con il tempo, tra laici e religiosi.

Quanto alla terra, fino alla guerra del 1967 gli spazi controllati dagli israeliani erano troppo angusti e privi dei grandi luoghi biblici perché il tema fosse coniugabile in termini nazional-religiosi. Le cose cambiarono dopo la guerra dei Sei giorni. Allora la Grande Israele divenne un’ipotesi virtualmente percorribile. Tuttavia l’annessione integrale dei territori avrebbe avuto ripercussioni interne e internazionali intollerabili. Poco per volta ci si orientò per una soluzione di compromesso: la politica di colonizzazione. Scelta ambivalente: poteva essere giudicata come primo passo verso l’annessione o poteva essere vista come definitiva rinuncia a essa. Anche per questo – oltre che per temi legati alla sicurezza – i coloni furono appoggiati sia da destra sia da sinistra.

Lo stato come maggioranza demografica
Il più grande successo storico del sionismo è di aver fatto sì che gli ebrei, minoranza ovunque, potessero essere da qualche parte maggioranza. Il dato demografico – il polo del popolo – è dunque un fattore strutturale di Israele. Nei primi decenni la popolazione israeliana fu arricchita da un costante flusso migratorio, ripreso in termini più ambigui negli anni novanta con l’arrivo di parecchie centinaia di migliaia di ebrei russi. Il processo di colonizzazione dei territori occupati nel 1967 portò invece, per definizione, alla creazione di una situazione in cui gli ebrei si trovavano di nuovo a essere minoranza circondata da una società ostile.

Il processo che ha condotto molte decine di migliaia di coloni a stanziarsi in Cisgiordania e a Gaza ha quindi comportato una ridefinizione – o, secondo altri, uno stravolgimento – degli ideali sionisti. Questo è avvenuto in quanto l’egemonia fu data alla terra e non al popolo. Le correnti nazional-messianiche più radicali si accorsero del paradosso. La loro aberrante risposta fu di stampo razzista e auspicò la deportazione degli arabi. Scelta intollerabile sul piano sia internazionale sia interno.

Mantenere enclaves ebraico-israeliane all’interno di una società per la quasi totalità palestinese, oltre ad andare contro il diritto internazionale ed esigere un costante dispiegamento di truppe, compromette anche l’ideale maggioritario del sionismo. In base ai parametri sionisti si può pensare di garantire l’esistenza di minoranze non ebraiche entro una società ebraica, più arduo è difendere in maniera indefinita la presenza di minoranze ebraiche all’interno di società ostili. Se così fosse ci si troverebbe in modo permanente di fronte al problema – l’esistenza di pericolo incombente sulle minoranze ebraiche – che il sionismo si era proposto di risolvere una volta per tutte.

Questo caso risultava lampante a proposito della Striscia di Gaza, territorio piccolissimo (378 km2) in cui risiedevano circa 7.000 coloni ebrei e 1.300.000 palestinesi. I coloni dichiaravano di abitare sulla propria terra (controllavano in effetti ben il 20% del territorio), ma rispetto alla sua popolazione erano di fatto stranieri residenti. Il 1° dicembre 2003 il vice premier Olmert – su incarico di Sharon a quel tempo ammalato – pronunciò un discorso in onore di Ben Gurion.

In quella circostanza egli volle riprendere alcune parole del «padre della patria»: «Piuttosto che la totalità della terra (d’Israele) senza lo stato ebraico, noi abbiamo fatto la scelta dello stato ebraico senza tutta la terra». In queste vecchie parole del primo capo di governo israeliano si trova una delle principali ragioni che hanno indotto Sharon a perseguire, con incredibile tenacia, il progetto di abbandonare Gaza.

La linea di Sharon
Da quando assunse la carica di primo ministro (febbraio 2001; cf. Regno-att. 4,2001,118), quattro eventi hanno soprattutto colpito l’opinione pubblica internazionale: la durissima operazione in risposta alla seconda Intifada contro varie città palestinesi della Cisgiordania, conosciuta con il nome di «Scudo difensivo» (2002; cf. Regno-att. 8, 2002,217); gli assassini mirati dei capi di Hamas a Gaza (2003-2004); l’erezione del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania, che ridefinisce i confini della cosiddetta linea verde a vantaggio degli israeliani e a scapito dei palestinesi;1 lo sgombero di Gaza.

I primi tre avvenimenti sono stati letti come atti tipici di una destra nazionalista e propensa all’uso della forza, l’ultimo come una svolta repentina che ha scompaginato il quadro politico e ha reso Sharon campione della lotta contro i coloni in precedenza da lui sostenuti con vigore. Non si può negare, ovviamente, l’esistenza di un accentuato mutamento. A provarlo sono i prezzi stessi che Sharon si è dimostrato disposto a pagare pur di raggiungere il suo scopo. Oltre a quello personale di vivere in una condizione di perenne insicurezza – il pericolo di un attentato contro di lui è oggettivo – vi è quello politico che ha messo a repentaglio la sua leadership all’interno del Likud (la cui base ha respinto con un referendum interno il piano di evacuazione) e a ridefinire in profondità la compagine governativa.

La politica di Sharon ha attualmente l’appoggio della maggioranza della popolazione israeliana, ma è minoritaria all’interno del suo schieramento politico. È ormai probabile che la candidatura dell’ex ministro ed ex premier Netanyahu risulti vincente e che sia quest’ultimo il candidato del Likud alle prossime elezioni politiche.

Non meno pesanti sono state le frizioni con alcune componenti religiose anche istituzionali. Indubbi sono pure gli strascichi emotivi e potenzialmente politici provati dall’opinione pubblica israeliana davanti alle scene di ebrei che agivano in modo violento nei confronti di altri ebrei per scacciarli da quelle che, per molti anni, erano state le loro case, le loro sinagoghe e i loro cimiteri (le sepolture ebraiche sono, di norma, permanenti) o di altri ebrei che resistevano all’esercito israeliano. La metafora del lutto, esasperata nei coloni, è stata un’immagine ripresa ovunque. Va tuttavia registrato che la tenuta di Tsal (l’esercito) è stata maggiore di quanto paventato da parte di chi prevedeva un forte impatto dell’appello alla disobbedienza avanzato da alcuni esponenti religiosi.

Con tutto ciò è errato non vedere fili di continuità nella condotta dell’attuale premier. La sua scelta di fondo è riconducibile a una politica volta alla sicurezza della popolazione ebraico-israeliana, vale a dire in termini laico-nazionalisti. Questo motivo ispiratore è rimasto intatto in tutta la carriera militare e politica di Sharon.

Mutamenti, e non di poco conto, si sono invece registrati a proposito dei mezzi per conseguire l’obiettivo. Per il capo del governo israeliano quello ebraico non è il popolo della Torah o del diritto divino sulla totalità della terra d’Israele. Per lui l’avvicinamento a una delle due anime – tra loro tutt’altro che omogenee – della presenza politica dei religiosi è sempre stato solo tangenziale. Era quindi inevitabile che insorgessero scollature quando il vettore si è mosso in altra direzione. Sharon non ha improvvisamente mutato penne lasciando quelle del falco per rivestirsi di più morbide piume di colomba. La sua volontà resta quella di assicurare che il popolo ebraico-israeliano sia padrone del proprio destino, vale a dire sia maggioritario. Ciò può avvenire, secondo i casi, ridefinendo i confini a proprio favore e integrando territori (muro e politica adottata specie nell’area di Gerusalemme, cf. il progetto Ma’ale Adumim) oppure abbandonandoli (Gaza).

Il muro: una scelta strategica
Separazione e integrazione sono i tasti bianchi e neri suonati dal pianista Sharon. Alcuni autorevoli esponenti dell’amministrazione (cf. per es. il consigliere politico del premier, Dow Weisglass) hanno ribadito che il ritiro da Gaza e da un paio di colonie del nord della Cisgordiana è una tantum: non va visto come un prodromo a operazioni analoghe. Dal canto suo il presidente delle commissioni Sicurezza ed Esteri della Knesset, Yuval Shteinitz, ha sostenuto che «quello che avverrà dopo, se avverrà», dovrà essere ripreso nell’ambito di un discorso negoziale con l’ANP.2

Bisogna dunque chiedersi quali ripercussioni il disimpegno da Gaza e il concomitante mantenimento della volontà di portare a termine il muro (o barriera di separazione che dir si voglia) potranno avere su un’effettiva ripresa nel quadro delle trattative di pace bilaterali (formalmente la Roadmap è ancora in piedi).

L’erezione del muro è scelta strategica di lungo periodo che non può essere rimessa in discussione a breve. La ragione è semplice, basta guardare ad alcuni dei suoi scopi qualificanti: garantirsi un ampliamento territoriale, un controllo della popolazione palestinese e un modo per contenere la spinta che una popolazione povera sempre più numerosa fa nei confronti di una società più ricca. «Per quanto riguarda il divario economico, c’è da insistere sul fatto che il rapporto fra il PIL d’Israele e quello dei palestinesi è di 18:1! È il più alto differenziale al mondo tra due nazioni confinanti. Solo per fare alcuni paragoni, il divario economico tra USA e Messico è di 4,5:1; quello fra Germania e Polonia è di 3:1». Fin quando il «divario rimarrà così grande, Israele dovrà continuare a difendersi dall’infiltrazione di palestinesi poveri che cercheranno di migliorare la qualità della loro vita» (A. Soffer).3

Il futuro di Hamas
Partendo da questo punto di forza ogni eventuale negoziato con l’ANP corrisponderà sempre a trattative attuate fra vincitori e vinti. Esse andranno comunque condotte in accordo con gli Stati Uniti. Israele per mantenere il suo vantaggio strategico deve cioè contare sull’appoggio americano anche in vista di discorsi relativi ai confini e ai rifugiati palestinesi. In questo senso Sharon ha compiuto due concessioni rilevanti che hanno ottenuto il plauso degli USA i quali, per una volta, hanno potuto additare senza reticenze il fatto che Israele si era collocato dalla parte giusta. Esse sono, nell’ordine, il disimpegno da Gaza e una cauta apertura di credito compiuta nei confronti del successore di Arafat, Abu Mazen, appoggiato esplicitamente dall’America (a maggio Bush gli aveva concesso un prestito di 50 milioni di dollari).

Senza chiudere a priori su ipotetiche trattative future, Sharon si è posto sempre più in una situazione che, come si è detto, potrebbe al più condurre a questo esito: due popoli, uno stato, uno staterello.

Resta da vedere che avverrà nell’altro campo. Gaza sarà il primo territorio piccolo ma compatto amministrato interamente dai palestinesi. È l’area in cui Hamas è più forte e radicata. Attualmente questo movimento si trova per di più nelle condizioni di poter dichiarare, retoricamente e strumentalmente, che è stata la sua attiva intransigenza a costringere gli israeliani ad andarsene.

L’esito delle future elezioni legislative rinviate all’anno prossimo sarà decisivo per il destino politico di Abu Mazen, leader comunque non giovane e destinato, prima o poi, a lasciar il posto ad altri. Se Hamas sarà in qualche modo normalizzata facendole assumere responsabilità di governo, quasi certamente il «fronte del rifiuto» troverà altre espressioni e forme organizzative. L’ideologia islamista non durerà in eterno, le sue ombre però non si sono allungate ancora abbastanza per prevederne un rapido tramonto.

Il disimpegno israeliano da Gaza resta un evento di enorme portata di cui non sono ancora chiare le ripercussioni di lunga durata nei due campi. Da solo, però, non basta a garantire una ripresa concreta e positiva del processo di pace.

1 Cf. R. Cohen, «Il Muro: un recinto, un ghetto», in Nel Suo Nome. Conflitti, riconoscimento, convivenza delle religioni, EDB, Bologna 2005, 133-140.

2 U. De Giovannangeli, «Se Israele si riscopre mediorientale», in La potenza d’Israele. Limes (2005)3, 53.

3 A. Soffer, «A che serve la barriera», in Limes (2003)3, 28.


articolo tratto da Il Regno logo

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