Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Nella Magen Cassouto

L’altro come sé. Dal dolore riconosciuto al diritto alla vita

Fonte: "Il Regno" n. 4 del 2006

Per comprendere la complessità della situazione vissuta dagli ebrei e dai palestinesi – sia cittadini d’Israele sia residenti nei Territori occupati – occorre innanzitutto analizzare gli aspetti psicologici che accomunano i due gruppi.

Generalmente, quando due gruppi s’incontrano i rispettivi membri tendono a notare le similitudini e le differenze che intercorrono tra loro. Inoltre il singolo individuo sarà portato ad attribuire al proprio gruppo qualità positive e al contempo complesse e diversificate, mentre nell’altro vedrà piuttosto caratteristiche negative, semplici e abbastanza uniformi o prive di diversificazione. In questo modo egli sarà incline a considerare legittime le motivazioni del proprio gruppo e, al contrario, illegittime e ostili quelle dell’altro.

Nella realtà israeliana attuale questi processi di generalizzazione e di separazione vanno moltiplicandosi, rafforzando la tendenza a ritenere il proprio gruppo dalla parte del bene e della giustizia e a proiettare l’aggressione sull’altro. A loro volta questi processi servono a sfogare quei sentimenti di ansia, insicurezza, dolore e incoerenza che si annidano nel cuore degli uomini.

Lo stato di conflitto fa aumentare il bisogno collettivo di appartenenza a un gruppo, e nel gruppo, di fronte alla minaccia, si accentua un comportamento difensivo di riflesso. Questo comportamento esaspera il conflitto e si crea così un circolo vizioso sempre più violento.

Le reazioni a eventi politici e sociali, specialmente se concernenti la questione fondamentale dell’esistenza stessa di una nazione, sono molto emotive e quasi prive d’ogni elemento razionale. I sentimenti più comuni sono il patriottismo, l’odio per l’altro e l’invidia per i successi altrui.

La tendenza ad attribuire motivazioni positive ai nostri e motivazioni negative a loro accresce la diffidenza e la sfiducia tra i gruppi. In questo modo i palestinesi, cittadini d’Israele, sono spesso visti come «nemici dello stato», mentre i palestinesi stessi, diffidando della genuinità e della reale applicazione dei valori democratici nei loro confronti, considerano razzisti gli ebrei.

Il collettivismo è sia per la cultura araba sia per la cultura ebraica un valore d’importanza centrale. Entrambe comprendono l’individuo a partire dai parametri dell’identità e dell’affinità di gruppo. Questi parametri sono visti positivamente in relazione al proprio gruppo, e negativamente nel contesto del gruppo altrui. La visione stereotipata propone invece l’immagine di ebrei individualisti e di palestinesi collettivisti.

La storia dei due popoli è particolarmente indicativa per il presente: entrambi anelano a una patria, sia essa Sion o la Palestina, entrambi sono coinvolti in un processo di rinascita nazionale associato a un olocausto, all’esilio e all’espulsione.

Per molti anni ebrei e palestinesi non si sono riconosciuti reciprocamente il diritto a un’indipendenza nazionale. All’interno di ciascun gruppo la visione comune era che l’esistenza nazionale e le aspirazioni dell’altro gruppo non erano legittime. Questo giustificava una continua lotta. Nella vita quotidiana dei due gruppi, sul piano sia individuale sia collettivo, abbiamo assistito a uno scambio di ruoli tra il minacciato e colui che minaccia, tra l’oppressore e l’oppresso, il forte e il debole, l’aggressore e la vittima.

La società ebraica in Israele
La società israeliana ha promosso alcuni valori importanti su cui si fondano i principali diritti civili, come la libertà d’espressione, di coscienza e di fede, l’uguaglianza di fronte alla giustizia e l’uguaglianza di opportunità per tutti, la fraternità, il diritto all’autodeterminazione e a organizzarsi politicamente. Alcuni di questi diritti sono espressi nella dichiarazione d’indipendenza d’Israele.

Parlo dei valori sui quali si fonda l’investimento sui diritti sociali, il riconoscimento delle molteplici tipologie all’interno della società e la determinazione a mantenere lo stesso atteggiamento verso tutte le persone, la responsabilità collettiva, il riconoscimento dell’esistenza di conflitti tra i diversi gruppi e all’interno di essi e il possesso di mezzi ragionevoli per risolverli.

Questi diritti democratici non sono stati applicati in modo completo in Israele dall’indipendenza in poi, anche quando si diceva che ci sarebbe stata l’uguaglianza. Di fatto, le cose stanno diversamente: mancanza d’uguaglianza nello status del singolo cittadino e dei gruppi, disparità nelle opportunità di lavoro e così via. Dal 1967, e specialmente a partire dall’ultima sommossa quattro anni fa, i diritti del singolo cittadino palestinese e dei gruppi non sono affatto paritari e i sottogruppi si sono trovati svantaggiati e messi in disparte sul piano personale, etnico e nazionale (non prestano servizio militare né civile non solo perché non sono disposti a farlo, ma anche perché non sono invitati). A ciò si aggiunge la difficoltà crescente degli ebrei a far fronte alla sofferenza delle persone nei Territori occupati. La maggior parte della società israeliana sente la contraddizione tra il desiderio di valori umanistici e democratici e la loro assenza nella vita di tutti i giorni.

Da questa situazione dissonante non sono emersi mezzi efficaci per affrontarla. Parte del popolo ebraico ha iniziato ad avere sensi di colpa, o persino la tendenza a denigrarsi e a identificarsi con la sofferenza dell’altro, cioè del palestinese, e a idealizzarlo. Altri hanno provato molta rabbia e hanno incominciato a odiare o a intellettualizzare la questione, senza realmente volere entrare in contatto con la situazione quotidiana, e rimanendo su un piano piuttosto accademico. Nonostante ciò, alcuni si vengono incontro; certuni negano, ma altri cercano di non farlo.

La società ebraica in Israele è formata da molteplici gruppi etnici e la questione dell’appartenenza, dell’identificazione e dell’uguaglianza all’interno di una società eterogenea e pluralistica è complessa e molto problematica. I gruppi sono realmente polarizzati per via dell’eccessiva importanza data all’origine (ashkenazita o sefardita), all’anzianità in Israele (persone che sono nate qui, rispetto ai nuovi arrivati), all’orientamento dell’ortodossia (ortodossi secolarizzati o credenti), alle località e ai quartieri (città o periferie): tutto conduce alla disuguaglianza, appena moderata dall’educazione e dalla situazione economica. Le controversie riguardo all’appartenenza paritaria alla società ebraica non si sono ancora concluse. Alcuni sottogruppi sono stati oppressi culturalmente e socialmente durante il processo di assorbimento nella società israeliana.

Queste esperienze fanno emergere sentimenti di privazione e di tensione legati alla discriminazione e al disfattismo. Tali sentimenti si accentuano in special modo nei periodi di disoccupazione, quando l’economia è in crisi e si verificano problemi di sicurezza.

Nell’eterogenea società ebraica i sentimenti di discriminazione si manifestano in vari modi. Uno di questi è la tendenza a usare i palestinesi come capro espiatorio. I sentimenti negativi che si accumulano nei gruppi svantaggiati dal punto di vista sociale, economico e politico si scaricano sull’unico oggetto disponibile costituito dagli emarginati, i palestinesi, considerati inferiori.

È questo il canale per esternare le lotte interiori e scaricarle sul «male comune» – i palestinesi –, il nemico concordato.

Il nemico concordato
Più gli ebrei orientali hanno in comune con i palestinesi – l’aspetto, la lingua, il cibo, il valore della dignità, le reazioni e la mentalità – più desiderano essere separati da loro e differenziarsi, più sottolineano l’osservanza alla gerarchia.

Per lunghi periodi gli ebrei hanno vissuto nella diaspora e la loro dipendenza dai governi locali è stata totale. Da parte degli ebrei israeliani non c’è esperienza storica sufficiente per affrontare questa nuova situazione di nazione indipendente, e questo è il motivo per cui in essa affiorano sentimenti elementari di incertezza, paura, insicurezza e ansia. I 57 anni d’indipendenza d’Israele sono stati troppo brevi per riuscire a spostarsi da un’identità personale e di gruppo di minoranza perseguitata alla capacità d’interiorizzare la nuova situazione per identificarsi con uno stato indipendente.

La sensazione di minaccia continua dell’esistenza stessa di Israele e dello stato indipendente hanno portato al predominio di valori come il patriottismo e la sicurezza. In testa a tutto regna sempre il mito per cui «l’intero mondo è contro di noi» e di un piccolo stato circondato da un blocco di sette stati arabi che desiderano buttarlo a mare… Tutto ciò nutre i sentimenti di paura e insicurezza e rafforza l’isolamento. Se poi diamo credito alle parole del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che nell’ottobre scorso suggeriva di cancellare Israele dalla carta del mondo...

La risposta al destino del popolo ebraico fu lo Stato d’Israele, istituito commettendo un torto contro il popolo palestinese che viveva in questa terra. L’Olocausto è stato un grande catalizzatore nella ricerca di una soluzione per la nazione ebraica in Israele, ma i palestinesi non sono stati coinvolti in questo processo. L’aspetto psicologico che tale situazione fa emergere negli ebrei che sono consapevoli di questa realtà può tradursi in un senso di colpa collettivo per il prezzo che i palestinesi hanno dovuto pagare per il ritorno a Sion.

Israele è l’unico stato democratico non arabo in tutta la zona. Durante gli ultimi anni la prospettiva di una pan-Arabia è andata rafforzandosi sotto l’influenza di alcuni leader arabi. Al contempo Israele è l’unico stato in quell’area in cui una maggioranza ebrea governa una minoranza palestinese (essendo l’ambiente circostante arabo musulmano), specie dopo il 1967; una contraddizione che sottostà alla situazione della politica e della sicurezza nazionale.

Essere l’unico paese ebraico democratico del Medio Oriente, attaccato anche verbalmente dai paesi arabi circostanti, rende più arduo il desiderio di una vita normale fondata su compassione e uguaglianza. La contraddizione è insita nella situazione stessa.

La lotta fondamentale per l’esistenza stessa della nazione d’Israele come entità collettiva e dei singoli individui all’interno di essa risale all’indipendenza d’Israele nel 1948.

La battaglia che continua in questa regione contro i palestinesi, estremizzatasi durante l’ultima Intifada, e i problemi economici all’interno d’Israele connessi ai nuovi immigrati per i quali dobbiamo produrre posti di lavoro fanno salire nuove ondate di paure esistenziali, mentre una quantità crescente di mezzi economici fluisce sotto la voce sicurezza.

Aggressività verbale e violenza diventano un mezzo naturale per la risoluzione dei conflitti in ogni ambito quando una parte non riesce ad ascoltare l’altra e la reciproca comprensione è impossibile.

La pressione delle minoranze verso i margini rafforza i sentimenti di privazione e frustrazione. L’incapacità di contenere gruppi misti e complessi s’esprime nella negazione della possibilità che il singolo, il gruppo, il popolo sia al contempo buono, positivo, costruttivo come anche cattivo, iniquo, negativo e dannoso. L’inabilità di comprendere questa complessità si manifesta anche nel rafforzamento di sentimenti contraddittori, di ambivalenza, vaghezza e impotenza che mettono in pericolo il consolidamento dell’identità interiore.

Per questo motivo il nostro gruppo, il «Parent’s Circle» – forum delle famiglie, famiglie in lutto che sostengono la riconciliazione e la pace –, nel quale ciascuno ha tristemente perduto un membro della propria famiglia, ha deciso di esaminare se stesso per scoprire quali sono i nostri sentimenti autentici, i nostri desideri e le nostre capacità nei confronti dell’altro.

E attraverso l’apertura del nostro cuore verso la sofferenza altrui, formandoci un varco verso il suo sentimento e grazie alla naturale empatia per il dolore espresso, siamo giunti alla conclusione che per quanto dipende da noi, faremo tutto il possibile per fermare lo spargimento di sangue su entrambi i fronti. Ognuno di noi s’impegnerà al massimo per impedire alla sua gente di continuare a uccidere. Il dolore per un lutto è il dolore per un lutto, non importa quali siano le credenze e la nazionalità, e noi tutti ci sentiamo come un’unica famiglia.

* Intervento pronunciato a Milano il 28 gennaio 2006 nel corso del convegno «Vittime. Fabbrica di pace», Centro culturale S. Fedele, Sesta Opera, Dignitas.

articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)