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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

Ultime speranze di pace

"Il Regno" n. 8 del 2006

L’ANP spaccato, Israele tentato dall’isolamento.


I cinque anni della seconda Intifada (2000-2005), la morte di Arafat, le scelte del governo Sharon (muro divisorio, sgombero da Gaza), la fondazione di un nuovo partito, Kadima, da parte del primo ministro israeliano seguita dal suo irreversibile declino fisico hanno creato i presupposti perché tanto dal lato israeliano quanto da quello palestinese il quadro politico oggi sia del tutto diverso da quello di cinque anni fa.

Senza interlocutori

L’Autorità nazionale palestinese (ANP) è preda di una diarchia senza futuro. Due inequivocabili vittorie elettorali, quella di Abu Mazen alle elezioni presidenziali (2005) e quella di Hamas alle politiche (2006), hanno creato una situazione di blocco politico e istituzionale. E ciò vale sia sul piano interno sia su quello internazionale. Con quale esponente cercare un dialogo? Israele e il Quartetto (ONU, Stati Uniti, Russia, Unione Europea), concordi nell’attribuire al presidente palestinese il ruolo di interlocutore, appaiono indisponibili, con l’eccezione della Russia, a parlare con il primo ministro Ismail Haniyeh.

Di fronte a questo impasse si aprono varie linee di azione. Si possono, come nel caso dell’UE, compiere pressioni (tagli degli aiuti) su Hamas perché quest’ultimo modifichi la propria linea politica e accetti ufficialmente l’esistenza dello Stato d’Israele. Oppure si può optare, come sta avvenendo in Israele, per un rifiuto globale. In entrambi i casi la situazione è di stallo. Questa immobilità non è però neutra.

L’egemonia di Hamas presso i palestinesi può infatti consentire all’islam radicale di riportare la Palestina al centro della sua politica: è retoricamente molto diverso dichiarare di battersi per la causa palestinese quando il governo è nelle mani non più della corrotta al-Fatah bensì dell’islamista Hamas. L’Iran e la stessa al-Qaida hanno già dato chiari segnali in questa direzione. In particolare, il vuoto lasciato dal congelamento degli aiuti finanziari internazionali può rivelarsi nel lungo periodo terreno favorevole per una crescente presenza iraniana.

L’Occidente si trova quindi su una sottile linea di confine in cui le necessarie forme di pressione su Hamas non possono spingersi fino a provocare una rottura definitiva con il conseguente incubo del passaggio della Palestina nell’area dell’islamismo radicale.

La fallimentare e drammatica esperienza irachena ha dimostrato l’incapacità americana d’imporre un nuovo ordine al Medio Oriente manu militari. Il fatto che agli Stati Uniti sia praticamente precluso tanto di intervenire contro l’Iran quanto di riuscire a normalizzare autonomamente la situazione interna irachena ha reso possibile che l’America trovi, paradossalmente, nella sola Repubblica iraniana il soggetto con cui doversi accordare per poter uscire dall’Iraq. Questa situazione ha ripercussioni anche in Palestina.

In seno all’ANP vi sono stati preallarmi di una strisciante guerra civile palestinese. In particolare la sfasatura, patita da Abu Mazen quando era primo ministro, tra il controllo del governo e quello delle forze di sicurezza e dei servizi segreti si ripete oggi, a parti rovesciate, nei confronti di Hamas. Inoltre, eventi recentissimi lasciano intravedere la possibilità di uno spregiudicato uso politico degli attentati suicidi. Per quanto essi siano attuati da gruppi dipendenti da Hamas (che da parte sua ha finora rispettato la tregua proclamata un anno fa), la situazione è tale da far sì che l’attuale governo palestinese sia indotto a comprenderli o persino a giustificarli, mentre il presidente Abu Mazen non può che condannarli. La cauta reazione israeliana all’attentato di Tel Aviv del 17 aprile suggerisce l’esistenza di un contesto in cui non si sa più bene chi si deve colpire.

La tentazione dell’isolamento israeliano
Il momento esige da parte occidentale un’azione politico-diplomatica in grado di far sì che le irrinunciabili pressioni su Hamas siano commisurate alla concreta possibilità di una sua graduale accettazione di trattative politiche. La prospettiva di fondo resta l’esistenza di due stati. Pur nel grande mutamento di scenari, l’unica ipotesi politicamente percorribile resta quella, all’ordine del giorno ormai da decenni, espressa dalla formula «due popoli due stati». Perché ciò avvenga occorre il concorso di molte posizioni, di cui una è il superamento dell’attuale massima tentazione da parte israeliana: il ritiro unilaterale.

Olmert e il partito Kadima hanno vinto, ma il loro non è stato un trionfo. Netanyahu ha perso e la sua è stata una sconfitta pesantissima. I laburisti, sotto la guida di Peretz, si sono reinventati un loro spazio puntando quasi tutto su questioni sociali interne in risposta alla crisi economica. Questi ultimi temi hanno consentito la repentina comparsa di nuovi soggetti politici, ad esempio il partito dei pensionati (9 seggi su 120). Continua a crescere sia la presenza di partiti etnici (russi, sefarditi) sia la disaffezione a contribuire attivamente alla vita politica da parte dei cittadini: la partecipazione al voto è scesa al 63,2% (la più bassa dell’intera storia d’Israele). Questi dati riassumono gli esiti delle ultime elezioni politiche israeliane del 28 marzo.

A uscire definitivamente di scena è stata l’ipotesi della «grande Israele» coniugata in chiave sia religiosa sia nazionalistica. Solo frange esigue e politicamente insignificanti pensano ormai di poter annettere in pianta stabile la massima parte dei territori palestinesi. È ineluttabile che lo sgombero di Gaza abbia un seguito in Cisgiordania. I primi decenni di vita dello Stato d’Israele avevano un simbolo, i kibbutz; negli ultimi quarant’anni la destra tanto religiosa quanto nazionalistica gliene ha contrapposto un altro: i coloni. Entrambi i fenomeni erano stati visti come la primizia di future società ebraiche; gli ideali kibbutzistici sono tramontati da gran tempo, ora declinano in modo irreversibile anche quelli dei coloni. La sete di normalità e di sicurezza sociale sono i due fattori che hanno cooperato a far prevalere l’asse Kadima-laburisti.

Una rappresentanza non governante
Dopo aver rinunciato all’incoerente esperimento istituzionale che prevedeva l’elezione diretta del primo ministro senza garantirgli una maggioranza qualificata, il sistema israeliano resta contraddistinto dalla proliferazione di partiti frutto di una legge elettorale proporzionale priva di correttivi. In tale contesto le maggioranze rischiano sempre di essere esigue. Tali sono state nel corso di tutta la vita istituzionale d’Israele. Fanno eccezione i casi in cui si è giunti a governi a cui partecipavano tanto il Likud quanto i laburisti. Quest’ultima ipotesi non è più riproponibile. Il sistema politico che prevedeva governi di sinistra, di destra e, nei casi più difficili, di «grande coalizione» è stato frantumato dalla comparsa di Kadima. Il nuovo partito ha occupato il centro dello schieramento. Tuttavia il partito fondato da Sharon, anche se alleato con i laburisti, non gode della maggioranza parlamentare.

La compagine governativa capeggiata da Olmert sarà dunque esposta ai potenziali ricatti delle formazioni minori indispensabili per ottenere la maggioranza alla Knesset. Più che espressione dei tradizionali gruppi religiosi, esse sembrano rappresentare interessi di gruppi sociali, etnici, generazionali particolari. Anche all’interno dello stato ebraico la settorializzazione appare la strada consona a favorire la convivenza.

Unilateralismi deboli
Rispetto ai palestinesi Olmert è orientato a proseguire la politica del suo predecessore. Tutto lascia prevedere che, dopo aver definito, anche con il muro, un confine che garantisca il possesso di alcuni territori considerati irrinunciabili dagli israeliani, il primo ministro abbia in animo di attuare uno sgombero unilaterale della Cisgiordania. La stanchezza e il bisogno di normalità di gran parte della popolazione israeliana e la presenza tra i palestinesi di un governo guidato da Hamas convergono a rendere convincente l’ipotesi. Pare difficile contrastare questa linea. Per farlo occorrerebbero fortissime pressioni e garanzie politiche internazionali atte a convincere entrambi i possibili interlocutori che una pace bilaterale salvaguarda di più di una unilaterale. Resta fuori discussione che le forme di convincimento più efficaci passano per Washington anche se, dopo le guerra irachena, la teoria dell’unilateralismo di Bush non sembra più in grado di garantire nessuna evoluzione pacificatrice dei rapporti internazionali. Il ritorno della Russia sulla scena mondiale e il vuoto d’iniziativa europeo creano tensioni strumentali e assenza di mediazione. Molto dipende da quanto avverrà all’interno dell’intero scacchiere mediorientale, sempre più privo di un’ipotesi politica generale.

articolo tratto da Il Regno logo

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