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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

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Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Ilaria Alpi: ecco perchè è morta

Fonte: Famiglia cristiana





Ilaria Alpi


Tangenti, traffico d’armi e rifiuti tossici: l’ultima pista della giornalista Rai

Ecco perché è morta Ilaria

di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari

Diversi documenti e testimonianze affermano che la Alpi stava arrivando al cuore dei malaffari che legavano la Somalia all’Italia e ai Paesi dell’Est, dai quali provenivano gli armamenti, pagati col permesso di seppellire in loco le sostanze nocive.

Da anni custodisce i suoi segreti. Segreti di morte. Quale mistero nasconde Bosaso, piccola città del Nord-Est della Somalia affacciata sul golfo di Aden, ridotta a un ammasso di rovine da 10 anni di guerra civile? Quale mistero ha intravisto Ilaria Alpi, inquietante al punto da costarle la vita? Un fatto è certo: tra il 16 e il 20 marzo 1994 la Alpi lavorò a Bosaso con l’operatore Miran Hrovatin. Qualche ora dopo aver rimesso piede a Mogadiscio, i due giornalisti furono uccisi in un agguato condotto da sette killer. Cosa videro, esattamente? La domanda è senza risposta, perché da allora omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito ai familiari, e a tutti gli italiani, di sapere.

Nonostante ciò, sono molti gli indizi che meritano ulteriore attenzione e che potrebbero gettare luce sull’intera vicenda. Oltre due anni di lavoro permettono a Famiglia Cristiana di pubblicare elementi utili a squarciare il velo sui malaffari che hanno visto intrecciarsi a Bosaso traffici d’ogni genere: armi, rifiuti tossici, scorie radioattive, tangenti e riciclaggio di denaro sporco. In questo intricato scenario potrebbero nascondersi movente e mandanti del duplice omicidio.

Marzo 1994. Ilaria Alpi sta seguendo tracce di questi traffici illegali. Al processo celebratosi un anno fa contro Hashi Omar Hassan (accusato dell’omicidio, ma definito dalla seconda Corte d’assise di Roma "un capro espiatorio", e quindi assolto; a ottobre ci sarà l’appello), qualcuno ha sostenuto che Ilaria e Miran giunsero a Bosaso per caso. È invece vero il contrario. La loro, fu una scelta voluta.

«Ilaria intendeva da tempo recarsi a Bosaso», dichiara a Famiglia Cristiana Alberto Calvi, l’operatore Rai che la accompagnò in Somalia per ben quattro volte (la prima nel 1992, le rimanenti nel 1993): «Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c’era il rischio di lasciarci la pelle». Anche i genitori non hanno dubbi: «Che Ilaria volesse andare a Bosaso, lo provano gli appunti da lei scritti prima di partire per il suo ultimo viaggio e ritrovati in redazione, a Roma». Il suo caporedattore al Tg3, Massimo Loche, ha dal canto suo confermato in udienza che «sin dalla partenza da Roma Ilaria aveva intenzione di recarsi a Bosaso».

Di Bosaso, e del rilievo che assume in relazione a diversi affari illeciti, parla inoltre Guido Garelli, uno "007" abituato a muoversi con disinvoltura sullo scacchiere internazionale, uomo dal passato avventuroso. Garelli dichiara di aver lavorato soprattutto per l’intelligence dell’Autorità territoriale del Sahara (l’area che da anni punta a staccarsi dal Marocco, amministrata dal Fronte Polisario), ma è considerato da molti vicino anche ai servizi segreti statunitensi e italiani. Il 27 maggio 1999, in una lettera scritta a Famiglia Cristiana dal carcere in cui è attualmente detenuto, Garelli racconta che il 4 maggio 1994, nemmeno due mesi dopo il duplice omicidio, a Nicosia, nell’isola di Cipro, incontrò Ilija Fashoda, «un cittadino somalo, in possesso di passaporto jugoslavo», con il quale parlò del delitto.

«Lei ficcava il naso negli affari del sultano»

L’uomo gli disse: «Ero al Nord della Somalia mentre quella giornalista ficcava il naso negli affari di Bogor, il sultano di Bosaso, e immaginavo che l’avrebbero minacciata di non andare più in là di tanto. Quello che di sicuro le ha creato dei problemi è il fatto di aver "grattato" le questioni della cooperazione. Ho saputo con certezza», è sempre Fashoda che parla, «che la giornalista aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle "bande" di Bosaso: tu sai che origine avevano quelle armi, no?».

Garelli non dice se ha replicato. Alcune risposte si trovano invece nell’inchiesta condotta dalla Procura di Torre Annunziata, in provincia di Napoli (pm Paolo Fortuna), e dai Carabinieri di Vico Equense, al comando del maresciallo Vincenzo Vacchiano, i cui atti all’inizio del 1999 sono stati trasmessi alla Procura di Roma e consegnati al pm Franco Ionta, titolare delle indagini sulla morte dei due giornalisti.

«Siad Barre voleva armi ad alta tecnologia»

Diversi testimoni raccontano agli inquirenti un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano in parte conti neri o finivano in tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all’area socialista. Testimoni e faccendieri fanno ripetutamente i nomi di Paolo Pillitteri e di Pietro Bearzi, all’epoca rispettivamente presidente e segretario generale della Camera di commercio italo-somala, stretti collaboratori di Bettino Craxi, nonché i nomi di uomini dell’Intelligence dell’Italia e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata, sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale.

A indicare questa pista è soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde (servizio segreto civile italiano), ascoltato più volte nel giugno 1997. Corneli aggiunge dettagli inediti: sostiene che per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, chiese ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli «armamenti di alta tecnologia». Secondo Corneli, il Psi si accordò con il Pci, per aprire un canale di rifornimento con i Paesi del blocco orientale. «Allora e negli anni successivi», conclude Corneli, «armi provenienti dall’Europa dell’Est furono veicolate attraverso l’Italia con voli militari che giungevano in Somalia».

Il 7 agosto 1997 un altro testimone, Marco Zaganelli, dichiara: «Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia». Che Bosaso fosse importante non soltanto per il suo porto, ma anche perché vi potevano tranquillamente atterrare aerei militari da trasporto, ci è stato confermato di recente da Guido Garelli.

Armi, insomma. Dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel 1992, nel 1993 e anche nel 1994, sotto gli occhi della missione Onu. Ne parla diffusamente il collaboratore di giustizia Francesco Elmo, che ha lavorato nello studio di un avvocato svizzero, a Lugano, dai cui uffici transitavano documenti relativi a questi traffici (da lui spesso "intercettati") e alle relative operazioni bancarie. Francesco Elmo ha altresì precisato che le armi non finivano soltanto alle fazioni somale in lotta tra loro, ma pure ad altri Paesi («Eritrea, Yemen del Sud, Sudan»), oltreché ai guerriglieri palestinesi, irlandesi (Ira) e baschi (Eta).

Nel corso di indagini diverse, altri inquirenti avevano d’altronde acquisito un documento datato settembre 1992 che ricostruiva, traccia dopo traccia, una spedizione di componenti di carri armati Leopard 1 e Leopard 2 fabbricati da una ditta tedesca, partiti dal porto di La Spezia e arrivati a Mogadiscio (ma forse destinati a rifornire gli arsenali dell’Iran o dell’Irak).

Perfino il generale Carmine Fiore, comandante del contingente italiano in Somalia fra il 1993 e il 1994, in un interrogatorio a Torre Annunziata, il 3 dicembre 1997, ammette che «in quel periodo entravano senz’altro armi, specie dalla strada costiera che dal porto di Obbia arriva a Mogadiscio. Il traffico di armi avveniva con mezzi navali e anche con piccoli aerei che atterravano su una striscia di terra battuta ubicata a circa 40 chilometri a Nord-Est di Mogadiscio».

Che i loschi affari fossero in pieno svolgimento proprio nell’anno in cui vennero uccisi Ilaria e Miran, lo sostiene anche Francesco Elmo. Nel suo memoriale del 22 agosto 1997 dice: «Nel 1994 un gruppo di personaggi di area socialista erano posti alla regìa di una vendita di armamenti "libici" alla Somalia». Elmo fornisce pure dettagli circa la rotta della nave che li trasportava.

Armi, ma non solo. Nei giorni precedenti la sua partenza per Bosaso, Ilaria incontra Faduma Mohammed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, definita dai giudici della seconda Corte d’assise di Roma teste «attendibile e disinteressata». Nell’aula-bunker di Rebibbia, il 16 giugno 1999, Faduma racconta: «Ilaria mi aveva detto che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa... Era una questione delicata, di cui non dovevo parlare con nessuno, salvo con qualche persona che poteva aiutarci, di cui potevo fidarmi ciecamente... Lei si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste somale. Aveva appreso che erano stati scaricati rifiuti tossici; cose che noi sapevamo già. Ma eravamo impotenti, non potevamo farci niente».

«Io le ho detto», prosegue Faduma, «che dal 1988 le cose avevano cominciato ad andare alla deriva; non avevamo guardiacoste, non avevamo niente. Avevo sentito che in quasi tutto il litorale somalo, a Merca, a Mogadiscio, a Obbia, nel Moduk, in Migiurtinia (l’area di Bosaso, ndr) erano sepolti dei fusti di cui non si conosceva il contenuto. Ho inoltre fatto notare a Ilaria che erano comparse in Somalia delle malattie nuove, e che si erano registrate morie di pesci».

La deposizione di Faduma trova riscontro nelle informazioni rese agli investigatori da Marco Zaganelli il 7 agosto 1997: «Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo, prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellammare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati in un’area desertica nel Nord del Paese».

Il 24 marzo 1999, in una delle sue lettere inviate a Famiglia Cristiana, Guido Garelli accenna all’omicidio dei due giornalisti. «Ilaria Alpi», scrive, «aveva delle informazioni buone, forse molto buone. Ritengo che abbia avuto qualcuno che le ha dato la possibilità di vedere copie di rapporti... Bisognerebbe sentire con quali accordi si è giunti a concedere l’uso di parti del territorio somalo, etiopico ed eritreo per interrare rifiuti», operazioni che sono condotte, stando al Garelli, da «banditi vestiti con le divise più strane e variegate», insieme a «membri di organismi di informazione e sicurezza domestici e più in generale occidentali, operanti a mezzo servizio per conto di imprese pubbliche e private delle potenze industriali».

Più avanti, nel corso della stessa lettera, Guido Garelli annota: «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent’anni. La regìa di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi (servizio segreto militare italiano, ndr) e al Sisde; vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno "usato" vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

Il 30 aprile 1999, citando un rapporto da lui stesso stilato nel marzo 1994, poco dopo la tragedia, Garelli ricorda che ipotizzò sin da subito l’intervento dell’Intelligence italiana e somala nella vicenda, perché «era chiaro che Ilaria era capitata su uno dei punti sensibili che la Somalia cercava affannosamente di proteggere e che l’Italia aveva la necessità di coprire».

Nell’informativa, Garelli rammenta di aver messo in evidenza «il rapporto che esisteva tra il traffico di rifiuti e la fornitura d’armi».

Alpi, Li Causi, Rostagno: intrecci sospetti

Lugubre matrioska, la Somalia cela misteri nel mistero. Ci sono tre nomi, e altrettanti delitti, che si legano: Ilaria Alpi, Vincenzo Li Causi, Mauro Rostagno. La giornalista della Rai venne assassinata insieme all’operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio, il 20 marzo 1994. Vincenzo Li Causi, uomo del Sismi (servizio segreto militare italiano), per un certo tempo attivo presso la struttura di Gladio operante a Trapani (il centro Scorpione), fu ucciso a Balad, in Somalia pochi mesi prima: era il 12 novembre 1993. Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, giornalista e fondatore, insieme a Francesco Cardella, della comunità Saman per il recupero dei tossicodipendenti, venne trucidato nei pressi di Trapani il 26 settembre 1988.

Questi omicidi, apparentemente senza nesso tra loro, hanno un comune denominatore: la Somalia. Secondo quanto dichiarato ai magistrati da Carla Rostagno, sorella di Mauro, il fratello avrebbe visto e filmato l’arrivo a Trapani, in un aeroporto abbandonato (già usato da un gruppo di Gladio), di velivoli militari italiani da trasporto che scaricavano aiuti umanitari per imbarcare armi e ripartire. Rostagno avrebbe dato copia della registrazione a Francesco Cardella.

«Li stiamo armando invece di aiutarli»

Tutte queste circostanze sono state confermate da Sergio Di Cori, giornalista amico di Rostagno che ne raccolse le confidenze nell’88, prima che questi fosse ucciso. «Quelle armi vanno in Somalia», gli disse con sicurezza Rostagno: «Noi stiamo armando la Somalia mentre ufficialmente stiamo aiutando quei poveri cristi».

Dall’inchiesta Cheque to cheque, condotta dalla Procura di Torre Annunziata, è emerso che esistevano rapporti dei servizi segreti italiani sulla morte di Rostagno ordinati da Bettino Craxi. Copia di essi fu ritrovata durante una perquisizione della sede romana del gruppo craxiano Giovane Italia. Cardella conosceva l’ex segretario del Psi; Giuseppe Cammisa, stretto collaboratore di Cardella, era in Somalia nei giorni della morte della Alpi e di Hrovatin: Cardella l’aveva inviato perché si occupasse di aiuti umanitari e della costruzione di un ospedale a Bosaso.

Anche sulla morte di Vincenzo Li Causi non è stata fatta finora piena luce. Si sa che operò per Gladio a Trapani, che dal 1991 il Sismi lo aveva inviato ripetutamente in Somalia e che il 12 novembre 1993 morì in un agguato dalla dinamica strana, compiuto da "banditi" somali. Stando ad alcune testimonianze raccolte da inquirenti italiani, Li Causi si sarebbe interessato all’operazione Urano (un grosso progetto di smaltimento di rifiuti tossiconocivi e di scorie nucleari, in Somalia e in altri Paesi africani) e avrebbe manifestato una crescente inquietudine.

S’è confidato con Ilaria Alpi? Secondo il maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi, che prestò servizio presso il comando della missione Ibis in Somalia, i due si conoscevano. Che Ilaria avesse contatti professionali con un uomo del Sismi in Somalia l’hanno anche affermato, senza però specificarne il nome, l’operatore della Rai Alberto Calvi e Giancarlo Marocchino, un imprenditore italiano a lungo presente in Somalia dall’84 al ’99.

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