«Ciascuno di noi ha Dio dentro di sé e quel Dio è lo spirito che unisce tutta la vita e tutto ciò che c’è su questo pianeta».

Il marito chiese il divorzio nel 1980 dopo tre figli messi al mondo insieme. Niente melodrammi sentimentali, era una questione di ruoli. Lui era un uomo politico, presumibilmente intelligente ed evoluto. Però era esausto: «Troppo colta, troppo forte, troppo di successo, troppo testarda e difficile da controllare». Cioè pericolosa come moglie. Tutto il mondo è paese. Anche in Kenia una donna che si lascia alle spalle il focolare domestico e si trasforma in un personaggio pubblico diventa una non-moglie per un marito tradizionale. Wangari Maathai, premio Nobel per la pace 2004, racconta ridendo questa storia a chi le chiede come si chiuse il suo matrimonio, l’unico di una vita per il resto avventurosissima. Per focalizzare a dovere il personaggio, e intuire lo stato d’animo del marito, ecco come inchiodò al silenzio un parlamentare nel 2000 durante una polemica: «Non ne posso più di uomini ignoranti che si sentono in competizione perché le donne li stanno sfidando e quindi devono continuamente "controllare" i propri genitali per rassicurarsi. Non sono interessata a quelle parti anatomiche ma all’uso di ciò che sta sopra il collo. Se lì dentro lei non ha niente, chiudiamo qui il discorso».
Chi l’ha conosciuta bene, per esempio l’esponente verde italiana Grazia Francescato, descrive una personalità forte, libera, di gran temperamento, pronta alla battuta ironica e alla risata liberatoria, molto alta e imponente («statuaria», si legge spesso nelle introduzioni alle sue interviste), pelle nerissima, bocca carnosa e splendida dentatura, una folta capigliatura che da qualche tempo innalza un ciuffo candido sulla fronte, una passione tutta africana per le vesti dai colori sgargianti e indimenticabili, una voce che si impone sulle altre per timbro e volume.
L’ideale per un’icona contemporanea: Africa, femminismo, ecologia, impegno politico, maternità. E senso religioso: «Ciascuno di noi ha Dio dentro di sé e quel Dio è lo spirito che unisce tutta la vita e tutto ciò che c’è su questo pianeta». Proprio Grazia Francescato scrisse nel 1988 di lei su «Airone»: «Se Madre Terra avesse un volto, sarebbe quello di Maathai».
Wangari viene da una buona famiglia che le ha garantito ottimi studi, sfruttati col massimo profitto negli Stati Uniti: scuole superiori nel Kansas, università a Pittsburgh, quindi in Germania, a Monaco di Baviera. Dopo c’è una catena di record: prima donna a conseguire un dottorato di ricerca in Kenia, prima donna a diventare professoressa all’università di Nairobi, presidente del Consiglio nazionale delle donne del Kenia.
E soprattutto prima donna africana capace di sfidare, nel nome dell’ecologia e della difesa della natura, un intero regime, quello keniota di arap Moi. La chiamano Mama Mici, la madre degli alberi. Appellativo che in Kenia per anni ha avuto un significato politico. Il suo movimento, il Green Belt, la cintura verde, è stato l’incubo del presidente Moi, uscito di scena nel 2002 dopo 24 anni di potere: «Wangari Maathai? Una pazza, una minaccia all’ordine e alla sicurezza della patria», i suoi ministri rincaravano la dose («una donna ignorante, un pupazzo nelle mani di padroni stranieri»). Dal loro punto di vista di affaristi, avevano ragione. E’ stata Wangari, nel 1989, a bloccare una mega-speculazione nel cuore dell’Uhuru Park, unico residuo polmone verde nel cuore di una cementificatissima Nairobi. Il presidente arap Moi aveva dato il via alla costruzione di un grattacielo da sessanta piani per uffici, finanziato da un club di multinazionali. Lei riuscì a mobilitare le organizzazioni ecologiste di mezzo mondo, facendo leva sulle leggi contemporanee della comunicazione: chi era coinvolto nell’affare, per esempio negli Stati Uniti, si sentì accusato di voler massacrare una specie di Central Park africano. Non se ne fece nulla, l’Uhuru Park è ancora al suo posto.
Due anni dopo finì in prigione per le sue proteste mentre tentava di piantare giovani alberi nella foresta di Karura, sfigurata da una continua deforestazione, aperitivo di una grandiosa speculazione edilizia che costò l’abbattimento di migliaia di ettari di alberi ad alto fusto. Ci volle una campagna di Amnesty International per tirarla fuori dal carcere: con la testa mezza rotta perché la polizia l’aveva pestata a sangue, con altri ecologisti.
Nel nome di Wangari Maathai sono stati interrati in tutta l’Africa altri trenta milioni di alberi: i suoi seguaci durante le proteste si armano solo di zappette, concime, germogli. Sono soprattutto donne. Gli alberi da frutto piantati poi diventano uno strumento di autonomia economica, di sviluppo di realtà rurali. Ovviamente Wangari è una «scoperta» relativa, visto che già nel 1992, durante il vertice ecologista a Rio (alternativo a quello ufficiale dell’Onu sull’Ambiente) diventò un personaggio per gli addetti ai lavori. Il suo continente l’ha laureata nel 1991 col premio Africa per i Leader.
Ora il tempo dell’opposizione è finito per Wangari: arap Moi è sparito dalla scena e lei è viceministro dell’Ambiente. Il nuovo presidente keniota, Mwai Kibaki, le ha attribuito il titolo onorario di Saggia dalla spada bruciante. Dire perfetto è poco.



Paolo Conti
www.corriere.it
9.10.04