DIRITTI

Il freezer delle esistenze

Verso un’umanizzazione delle carceri. Perché non sia più “un luogo corrotto che corrompe”: a colloquio con Mark Montebello, frate domenicano.
Intervista a cura di Patrizia Morgante

Sono 20 i suicidi avvenuti dall’inizio del 2010 nelle carceri del nostro Paese, suddivisi tra italiani e stranieri. Si parla di emergenza e si cercano di individuare soluzioni: un nuovo indulto? Ampliare le carceri esistenti o costruirne di nuove? Ampliare le possibilità alternative alla detenzione per i reati minori? Questa rivista non conosce la soluzione migliore, ma sicuramente è preoccupata di questa situazione, come tutti coloro che operano per i diritti umani. Di “numeri intollerabili” parla l’Espresso (15.04.10) quando riporta i dati diffusi dal Dipartimento Amministrazione Penitenziari (Dap) a fine febbraio: totale di prigionieri tra imputati, condannati e internati è di 66.692 persone (italiani: 41.924; stranieri: 24.768), per una capienza massima dei nostri istituti pari a 44.153 posti (tollerabilità massima: 66.563). Per discutere del tema abbiamo incontrato Mark Montebello, che lavora da più di 15 nelle prigioni maltesi.

Da dove è nata la tua “passione” per il mondo carcerario?

Dopo gli studi sono andato a lavorare intorno al porto di Malta, un posto dove neanche gli angeli volevano andare. Un periodo di 15 anni lavorando con la gente in un centro di accoglienza diurna. Venivano da noi come ultima opzione, quando nessuno si poteva più occupare di loro. Avevamo volontari preparati ad aiutare gente di ogni età, tra gli altri molti profughi. Nel 1995 sono usciti due ex poliziotti che erano in prigione, dove avevano dato vita a un gruppo per aiutare i prigionieri e le famiglie, cosi hanno voluto continuare questo impegno anche fuori, e sono stato contattato. Prima andavo a fare delle visite ai prigionieri, ma non avevo nessun progetto in mente e non c’era niente di organizzato. Questa idea è nata dai prigionieri stessi, e mi sono detto che questo era un buon segno. Oggi la realtà carceraria è molto cambiata: ci sono moltissimi stranieri, la criminalità ha un volto più complesso, l’età media è sempre più bassa, ci sono reati complessi, persone che non hanno semplicemente problemi con la giustizia, ma con altri ambiti della propria vita e il carcere è solo uno di questi. 

Puoi descriverci il mondo carcerario a partire dalla tua esperienza? Quali sono i bisogni che emergono?

Ci sono vari tipi di prigionieri, non è un gruppo omogeneo; abbiamo un modello stereotipato, ma in realtà sono molto varie le categorie: ci sono le persone istituzionalizzate (che non saprebbero oggi vivere fuori), ci sono pochi che io chiamo criminali (perché pensano in modo criminale, fanno del male senza battere ciglio), fino agli innocenti. La maggior parte sono persone non sposate, giovani (18-35 anni), con figli, poca istruzione (elementare), povera nel senso che non ha mezzi per partecipare alla società. Il nostro lavoro inizia in modo standard, aiutando le persone a imparare a firmare, è un segno di indipendenza; oppure insegnare come aprire un conto in banca, come compilare un modulo, come presentarsi a un colloquio di lavoro. Cose piccole di cui queste persone sono prive, e questa mancanza diminuisce le loro opportunità di inserimento nella società. Non sono esclusi perché poveri, ma sono poveri perché esclusi. Noi cerchiamo di eliminare i motivi dell’esclusione. Usiamo la nostra credibilità morale per fare pressione sulle istituzioni, sui media, nei tribunali. Io spesso sono stato in piedi vicino a uno di loro in un ufficio e questo era sufficiente perché lo ascoltassero e gli dessero credibilità. È incredibile, basta solo stare al loro fianco. Le istituzioni a Malta mi conoscono, la mia lingua non è bella, se loro sbagliano io non ho problemi a denunciare e a parlare. Sono come una mina nascosta, se mi toccano divento pericoloso. Il mio lavoro è un semplice camminare accanto, come un amico, una forza, come un’autorità morale... non c’è differenza se uno è uno stupratore, un assassino, un pedofilo, un innocente. Per me non fa differenza.

Non provi mai rabbia pensando al male che hanno provocato?

No, per il prigioniero non provo mai rabbia. Non pretendo che facciano cose di cui non sono capaci. Sono, però, molto esigente con chi ha i mezzi per fare e non fa, come le autorità. Non posso accettare che chi ha un ruolo possa rubare e cercare di ingannare le persone. A me non interessa cosa hanno fatto. Io mi interesso solo alla persona, se non c’è un incontro di persone non può esserci il resto. Prima creiamo una relazione di amicizia e fiducia. La vita del prigioniero è nuda, la sua è un’umiliazione continua, è pubblicamente umiliato, tutta la sua vita è pubblica, ne parlano al processo, nei mezzi di comunicazione. Davanti alla loro nudità ci spogliamo anche noi. Non difendo il diritto alla mia privacy; se io so tutto di loro, loro hanno diritto di sapere di me. Loro sono nudi e io no? È li che ci incontriamo nella semplicità, senza formalismi e senza la mediazione legale. Questo è importante: l’autorità legale ti dà argine e copertura, tutto questo deve essere lasciato andare, perché ci incontriamo come persone, e non tra persone che hanno commesso reati e persone giuste. Dobbiamo poterci guardare negli occhi con semplicità. 

Questo ti espone molto emotivamente?

Si. Si vive un’esperienza vera di amore, perché credo che solo l’amore può cambiare le persone. Dobbiamo creare le condizioni perché le persone non abbiano paura di cambiare. L’approccio non può essere di tipo militare. A Malta abbiamo tantissime fortezze e muraglie, frutto dell’idea che c’è chi sta dentro e chi è fuori. Se io vado dentro con un atteggiamento autoritario e paternalista la gente si chiude, alza appunto una muraglia. Noi ci difendiamo continuamente e a queste persone succede ancora di più. Se la persona percepisce che l’altro viene da fuori con le armi del paternalismo, della sfida, del moralismo, del legalismo, del dogmatismo, si chiude a riccio e non c’è possibilità di nessun cambiamento. 

Questo accade a tutti: se ci sentiamo giudicati ci difendiamo...

Si ma in carcere le situazioni sono estremizzate, i prigionieri hanno subìto delle forti umiliazioni. Anche noi abbiamo le nostre vergogne, ma non è tutto pubblico, abbiamo delle finestre di verità, ma per loro tutta la vita è pubblica, sono interi campi di verità. Sono molto esposti...

Il carcere è lo specchio della società, ma tutto estremizzato e polarizzato. Per questo cammino a loro fianco con molto rispetto, sincerità, amore; si dialoga senza attaccare o giudicare. Non possiamo cambiare gli altri, posso cambiare solo me stesso. Ma posso facilitare il cambiamento dell’altro. Abbiamo sempre la pretesa di cambiare gli altri, spesso usiamo l’amore per far cambiare l’altro: ti amo di più se... Quando ho davanti un pedofilo, non penso “lui è capace di fare questo e invece io no... lui è capace di fare del male e io no...”. Io sono capace di fare tutto questo e molto di più, date alcune condizioni di vita. Se andiamo incontro alle persone con moralismo e psicologismo, diventa falso il rapporto. Questo lavoro non è per aiutare gente, è la gente che ti aiuta, sei hai la capacità di essere sincero e amare il malvagio. 

Accade che chi dovrebbe garantire la sicurezza dei carcerati diventa colui che viola i loro diritti e la loro dignità. Cosa ne pensi?

Il carcere non è luogo a parte, staccato dagli altri. È parte della società. È un luogo particolare, ma non separato dalla realtà. È un continuum con la società.

Quando si discute della giustizia penale ci sono sempre due direzioni: una è quella “restitutiva”, tu hai fatto questo e quindi meriti questo; non è una vendetta, ma un ribilanciamento. La seconda è quella che definirei “restaurativa” che sostiene l’aiuto alla persona, vede tutta la realtà delle persona. Si parla di tolleranza zero, di guerra alla criminalità: in tutta Europa il linguaggio è molto simile. Questo linguaggio risponde alle direzioni suddette. Io credo ci sia una terza possibilità, che è quella dei diritti umani, la sola religione internazionale e universale che l’umanità abbia mai avuto. Una religione sulla quale possiamo basare le altre e le leggi, sulla quale misurarci. Non crede in dogmi trascendenti, perché i diritti umani li abbiamo inventati noi e quindi sono validi come valori umani. 

Quando parliamo di abusi, non parliamo in termini di chi ti aiuta o di chi ti castiga, andiamo oltre: certo posso picchiarti per farti obbedire o per convincerti che devi cambiare, che non puoi molestare i bambini. Oppure usiamo belle parole come riabilitazione: ti cambio per farti diventare come me, io sono un riabilitato, tu no, io lavoro per farti cambiare e riabilitarti. Devi diventare come me, ma come? Onesto? Rispettoso della legge? No, solo socialmente accettabile, faccio del male ma non così tanto, o meglio lo faccio in un modo “socialmente accettabile”. In prigione non si insegna a non fare il male, ma a farlo in modo che la società lo consideri accettabile. Puoi rubare, ma come lo fa un avvocato o un politico o un sacerdote, non come lo hai fatto tu. Si può abusare di persone adulte, ma in un modo che possa essere accettato. Questo è un frutto di una cultura paternalistica, dogmatica, moralistica, psicologista, autoritaria (stabilisco chi è buono e chi non lo è). Non è frutto di una cultura dei diritti umani. 

Torniamo al tema del-l’abuso che abbiamo tralasciato...

Ogni relazione di dipendenza apre la porta allo sfruttamento: quando hai qualcuno che ha un po’ di autorità su qualcun altro e sulla sua vita, lì hai la possibilità dell’abuso. Vale in qualsiasi ambito: tendiamo ad abusare dell’autorità, tutti noi. Ovviamente l’abuso è in proporzione al potere: dove hai piena dipendenza, come in carcere (o in ospedale), la possibilità dell’abuso è al 100%. Se hai una pistola, oggi o domani sparerai. 

Ci vuole sorveglianza, attenzione. Questo è un problema classico nella filosofia, già ai tempi di Platone. Il livello superiore sorveglia quelli inferiori, ma chi sorveglia il più alto in grado? Chi controlla i controllori?

Le legge?

No. Quelli che non hanno investimento istituzionale in ciò che sorvegliano, come le ONG, le associazioni della società civile. Le istituzioni non amano le ONG, le tollerano. Le ONG hanno occhi e orecchie per osservare, ma non hanno gli obiettivi delle istituzioni, non hanno interessi diretti. Indiretti si: migliorare la società. Per i diritti umani, hanno un ruolo fondamentale le ONG. I movimenti non vanno tollerati, vanno incoraggiati e sostenuti (e finanziati!): hanno interesse per il benessere della società. Non possiamo avere un sorvegliante che abbia interessi in ciò che sta sorvegliando, diventa un circolo vizioso. Tanti dirigenti di istituzioni si circondano di persone che la pensano nello stesso modo: gente con la stessa mentalità crea cancri sociali. Lavorare con persone che ti dicono cose vere quando fai errori o sbagli nella gestione della cosa pubblica è importante. Ma molte istituzioni non amano la critica, e si continua ad andare in una direzione sbagliata e nessuno se ne accorge. Le ONG non devono solo denunciare gli abusi espliciti, ma anche sorvegliare l’abuso delle istituzioni verso i cittadini. Senza questo ruolo il sistema sociale si rovina, si corrompe, marcisce. Tutto questo è acutizzato in carcere: è un luogo corrotto che corrompe. 

Mentre ti sento parlare, mi accorgo che anche le mie domande sono frutto di una mentalità pregiudiziale... Quanto può essere educativa l’esperienza carceraria?

Io non credo che il carcere dovrebbe esistere, perché non si può aiutare la gente castigando. Oggi il carcere è un luogo di custodia e si basa sul concetto che l’educazione passa per la penitenza. Io penso che le carceri dovrebbero essere tutte smantellate e sostituite con due tipi di istituzioni, sufficienti per comprendere tutte le categorie oggi esistenti. L’unica eccezione sono gli istituzionalizzati: per loro è difficile trovare delle alternative, devono andare a scomparire con il tempo. Le due istituzioni per me sono: l’ospedale, per curare sintomatologie cliniche, e una scuola. Una istituzione terapeutica e una educativa. Oggi nel mondo abbiamo circa 9 milioni di prigionieri, e tutti potrebbero essere indirizzati a questi due tipi di istituzioni. In una scuola hai un progetto educativo, fai del bene rispettando le persone e le loro idee. Rispettando le persone, si aiuta la società. Oggi il carcere è come una freezer: sospende, congela la vita di una persona per un tempo, poi, quando esce è sicuramente una persona peggiore. Sarà più arrabbiata, più delusa, più furba perché avrà imparato che si può fare del male, ma solo in modo accettabile. 

Prima parlavi dei criminali che provano piacere a fare del male: come puoi lavorare con loro?

Se escludiamo dal nostro discorso le persone malate, clinicamente pazze, gli altri agiscono perché hanno un obiettivo, molto probabilmente legato alla loro felicità. I loro obiettivi spesso sono corretti, ma i mezzi che scelgono sono sbagliati. Le motivazioni del perché questo accade possono essere tante: il contesto in cui si cresce, ignoranza, si è costretti a farlo, perché è male-educata... Ci si deve concentrare non sull’effetto, ma sulla causa di queste azioni. La maggioranza dei carcerati hanno a che vedere con la droga. C’è una sovrarappresentanza di poveri, senza casa e immigrati nelle carceri. La criminalità non è una cosa in sé, ma l’effetto di alcune cause. Molti imparano a sopravvivere nella strada, dove bugie e ruberie sono la regola per non morire, e nessuno vuole morire. Tra qualche anno rideranno di noi perché mandiamo in prigione i tossicodipendenti, come noi oggi troviamo assurdo quando mandavano dentro gli omosessuali. 

Come ti ha cambiato questa esperienza in quanto persona di Chiesa?

Noi non parliamo mai di Chiesa o di Gesù. Lo facciamo solo quando il discorso va naturalmente verso tematiche religiose e spirituali. Ogni incontro con loro per me è una sfida a essere sincero, onesto, aperto all’amicizia e all’amore. Questa è come se fosse diventata una seconda natura. Li non puoi mentire, non puoi relazionarti con loro senza essere vero. Perché un prigioniero sa fare una cosa molto bene: leggere gli occhi. E capisce subito in che modo lo stai guardando... 

 

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15