ostiNATI per la PACE

I nostri 100 giorni (sotto) a Palazzo Chigi

Non sappiamo neppure bene come, ma 100 giorni di presidio per il ritiro delle truppe dall’Irak sono passati. Dal 22 settembre 2004 in realtà ne è passato qualcuno in più, ma siamo onesti con noi stessi/e, e non contiamo quei fine settimana invernali che ci siamo risparmiati/e.
19 gennaio 2005 - ART.11 - Sana e Rubusta COSTITUZIONE

Non sappiamo neppure bene come, ma 100 giorni di presidio per il ritiro delle
truppe dall’Irak sono passati. Dal 22 settembre 2004 in realtà ne è passato qualcuno in più, ma siamo onesti con noi stessi/e, e non contiamo quei fine settimana invernali che ci siamo risparmiati/e. Ci siamo arrivati/e interrogandoci infinite volte sul proseguire, o no, con queste tre ore serali di fronte a quel Palazzo, in quel recinto fatto di transenne (che chiamiamo ovile, nei giorni più pessimisti) che ogni sera trasformiamo con bandiere, cartelloni, tappeti, cartoni e striscioni in un accampamento improvvisato.
Quale era il nostro programma? Lo abbiamo raggiunto?
Se ci dovessimo fermare alle enunciazioni, potremmo dirci, sempre onestamente, che i risultati attesi sono ancora lontani: il ritiro delle truppe dall’Irak non e’ avvenuto neppure quando, nei primi giorni di gennaio, le “emergenze” di approvazione della legge finanziaria hanno fatto dimenticare di dare copertura alle spese che la loro permanenza all’estero comporta, così come alla condizione “istituzionale” nella quale i soldati italiani rischiano di essere uccisi o feriti, di uccidere o di ferire.
Se dovessimo svelare l’obiettivo secondario, neppure tanto nascosto, di essere un filo sempre visibile, tessuto di nonviolenza, di consapevolezza, di caparbietà e di urgenza, utilizzabile per legare insieme uomini e donne che agiscono per un altro mondo possibile, in modo meno subordinato ai tempi dei “Palazzi” e alle esigenze mediatiche, dovremmo ammettere, sempre onestamente, che anche in questo caso non sta andando proprio alla grande. La carsicità del “movimento”, per essere positivi, o la sua crisi, per essere meno positivi, ci sono state visibili ogni sera. La diffidenza e l’esitazione delle persone contattate con volantini, poesie, musiche o solo gesti e sorrisi ci è sembrata crescere ogni giorno di più, anche se, per nostra fortuna, non è stata tale da seppellirci. Il nostro agire in fondo modesto, non urlato, seppure costante e determinato, è anche sembrato, a qualcuno che pensavamo più simile a noi, una modalità inutile e “settaria”.
Ci hanno rincorso, e ci rincorrono, le domande: “Ma chi siete? Cosa pensate di ottenere?”.
Siamo un gruppo di persone, di provenienza associativa diversa, alcune senza quasi esperienza politica, alcune che si conoscevano e alcune conosciute lì, per strada. Chiunque voglia si può aggiungere a noi e le nostre riunioni si tengono davanti al Palazzo, davanti agli occhi di poliziotti e passanti, a portata delle loro orecchie.
Siamo un gruppo di persone che ha pensato di aggiungere questo gesto alle nostre vite quotidiane, proprio come la guerra precipita sulle vite dei più, distorcendole brutalmente, quando non finendole. Nei tempi di vita di ognuno di noi la guerra ha aggiunto questa presenza concreta, giornaliera, scomoda fatta di caldo e di freddo, di pioggia, di solitudine, di stanchezza e, ogni tanto, anche di avvilimento.
Abbiamo forse dato l’avvio a una impresa al di fuori della nostra portata? Forse, se avessimo pensato, anche per un solo momento, di essere soli. Non e’ stato così, in pochi forse, soli mai. Siamo stati insieme ad alcune persone del “movimento”, insieme ai passanti, a qualche musicista, a rare apparizioni di parlamentari e senatori e a tantissimi turisti e turiste, con cui abbiamo comunicato con il nostro gesto, con sorrisi e con maccheronici tentativi di inglese, francese, spagnolo. Siamo stati supportati dal calore e dalla solidarietà di Ubaldo, dall’aiuto logistico di alcune associazioni con sede lì vicino, dai dolci di Alberto Castagnola, dalle poesie di LibLab, dalla vicinanza dei mercoledì delle Donne in Nero a P.za Argentina. Anche la presenza della polizia, la più costante insieme a noi, ha assunto in alcune occasioni i toni dello scambio, del riconoscimento reciproco in quanto uomini e donne che non vedono nella guerra alcuna soluzione. Fare la guerra non può essere un sistema per guadagnare qualche soldo in più.
Stiamo continuando, anche se non sappiamo ancora per quanto. Perché continuare, ci chiediamo in qualche sera? Le risposte non sono difficili, anche se dure da digerire.
Perché anche le guerre continuano, con tutti i loro effetti, dopo che qualcuno ha dichiarato una pace inesistente, dopo che le televisioni smettono di riprenderle, dopo che ai fotografi viene impedito di rappresentarle, dopo che a tutti (giornalisti/e, operatori/trici umanitari/e, militari e popolazioni coinvolte) viene impedito di raccontarle.
Perche’ “c’e’ solo la strada” per riuscire ad emergere da questa asfissia securitaria in cui ci vogliono trattenere mentre vogliamo continuare il cammino nelle relazioni che costruiscono fiducia nell’altro/a, da dovunque provenga.
Perché il tentativo di trasformare la società civile in una società militare e di guerra e’ costante, insinuante, pervasivo come nell’ultima proposta di delegare al governo la riforma dei codici militari di pace e di guerra. Se la Camera approverà ciò che il Senato ha già approvato, le eccezioni e anomalie dei nostri interventi militari diverranno legalità e sarà così terminata la trasformazione del tempo di pace in tempo di guerra permanente e l’art. 11 della nostra Costituzione verrà implicitamente abrogato, senza tanto clamore e questioni di principio.
Perché non possediamo televisioni, radio o giornali ma tutte le sere chi passa di lì, chi lì lavora o chi ci governa può vedere, in diretta, che c’è un altro modo di affrontare le crisi che coinvolgono il nostro mondo, interrogandosi pubblicamente su come potrà essere l’abitare in un mondo dove la pace non sia una eccezione e su come potremmo arrivarci: un modo fatto anche di biciclette, di chiacchere e ragionamenti, di tempo da sottrarre a impegni frenetici per sostare un po’, senza finire per rodersi il fegato nel chiuso delle proprie stanze. Magari, capendo come cambiare uno dei tanti gesti della giornata con i quali, senza neppure riflettere, anche noi riproduciamo la cultura imperante di violenza e di morte.
Buona resistenza a tutti/e

Art.11 Sana e robusta costituzione
Dalle 19.30 alle 22.30, dal lunedi’ al venerdì, noi siamo sotto a Palazzo Chigi. Vi aspettiamo!