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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

      In evidenza

        Letizia Battaglia Un saggio e ragionevole vulcano

        Spensierato il nome, agguerrito il cognome: un miscuglio così. Una fotoreporter che non ama le tecnologie, i grandangolari, le "cose complicate" in generale, perchè ha un canale diretto fra la camera oscura e il cervello e il cuore. Una palermitana che ha vinto il massimo premio al mondo di fotografia (l’Eugenie Smith, nell’87) ed occupa nella storia dell’immagine un posto analogo a quello di Tomasi o Quasimodo nella storia della letteratura

        di Graziella Proto

        “Orlando? Molto bravo, molto mago… In Sicilia?… ognuno lotta da solo e da solo non si riescono a vincere le battaglie… i siciliani non siamo gente per bene, non vogliamo la correttezza, la disciplina, il rispetto, c’interessano poco le cose sociali… ci interessa solo la nostra casa. E’ orribile tutto ciò, ci sbatterò la testa fino alla morte... Le donne?… vestali di un dolore antico… energia positiva, una forza, una speranza…” Letizia Battaglia espone con calma e limpidezza le cose che pensa. Serena ma non rassegnata. Sa, che ha fatto delle cose importanti, che ne farà ancora se necessario.

        L’appuntamento è a casa sua. La stessa casa dove è andata appena sposata, dove sono arrivate le sue figlie. La casa che Letizia aveva abbandonato - perché era molto infelice – rinunciando a tutto, lasciandovi ogni cosa. Marito compreso. Si portò solo le sue figlie e se n’andò a vivere in miseria a Milano. Erano altri tempi, non tutte le donne avevano il coraggio di abbandonare una tranquillità economica per andare allo sbaraglio. Affrontare “i sussurri e i bisbigli che hanno perseguitato tutta la sua giovinezza”. Oggi, in quella stessa casa, i suoi nipoti vanno e vengono perché abitano a due passi. Pippo il suo cane la fa da padrone. La bellissima libreria di Ettore Sozzas un artista che adora, troneggia all’ingresso.

        “Io ho 72 anni” ripete in continuazione Letizia, fotografa di fama internazionale, e non si riesce a capire se lo dice per civetteria, perché dopo cinque minuti che le stai davanti, a chiacchierare amabilmente, bella e vivace com’è, pensi, che di anni, si e no potrebbe averne 40. Fresca. Moderna. Spontanea. Una donna senza tempo. Una folta zazzera bionda, la frangetta che le arriva sugli occhi che si socchiudono per scrutarti. Tanta curiosità, molta voglia di capire. Qualche sogno da realizzare. “La passione per la foto? – dice molto seriosa – Noo, la passione mi è venuta dopo, all’inizio l’ho fatto per guadagnare il pane; avevo rinunciato agli alimenti. La passione sottolinea - mi è venuta fotografando.” Già a Palermo collaborava con il giornale l’ORA, quando si stabilì a Milano, continuò a fare piccole collaborazioni e vendeva i servizi a varie testate, accortasi che accompagnare l’articolo con le foto era meglio, iniziò a farle da sé. Scoprì che fare la fotoreporter era appassionante; la coinvolgeva totalmente. Doveva correre da un capo all’altro della città. Aspettare il momento giusto per fissare un’emozione, una scena, entrare dentro le cose e i fatti. Il lavoro giusto per lei, irrequieto ed avventuroso.

        Una foto di Letizia Battaglia E meno male che questa bella passione le è venuta, perché alla fotografia Letizia Battaglia, deve la più grossa soddisfazione della sua vita. Nel 1987 a New York ha vinto il premio più importante del mondo l’Eugenie Smith, un riconoscimento grazie al quale rimarrà per sempre nella storia della fotografia. Un fatto che ha dato autorevolezza al suo lavoro e tanto orgoglio ai siciliani, in particolare a chi, la stima e l’ama da sempre. Un premio alla sua sensibilità, alla sua professionalità, alla sua passione e al suo amore per Palermo. Soprattutto al suo impegno contro la mafia, la sua sensibilità verso le altre donne, il rispetto per il loro dolore, la loro tragedia. Lei che non ama la tragedia, ha scelto di fotografarla. “… ora come fotografa godo di fama internazionale e di rispetto – racconta – a settembre andrò a ritirare un altro premio in Germania…” ma quando iniziò all’Ora, racconta spesso, i fotografi, nessuno li rispettava, anche se, in quegli anni a Palermo, fra i morti ammazzati, i processi gli arresti, la spazzatura, il calcio,in effetti, si lavorava da cani. "Una gran cosa questo premio Smith, – dice Letizia abbassando la voce, quasi lo sussurrasse a se stessa e andasse lontano col pensiero – ha restituito dignità al mio lavoro e riabilitato una categoria. Io, messa qui a Palermo, ero solo bistrattata, stanca, poverissima, eravamo proprio poveri, lo studio, “la tana” era privo di qualsiasi comodità, un freddo da morire in inverno, e, ad un tratto – conclude Letizia – avevo vinto questo premio…”.

        Tutto grazie ad un gallerista di Milano che a sua insaputa, pensò di inviare alcune delle sue fotografie a questo concorso. Una cosa fantastica. Un avvenimento che le diede tanta energia; da lì a poco si candiderà alle elezioni comunali e diventerà assessore nella giunta di Leoluca Orlando. A cinquant’anni, è una protagonista importante della Primavera di Palermo. “Uno dei periodi più felici, anzi il periodo più felice della mia vita. Io, potevo fare delle cose per la città. Ero viva, mi alzavo prestissimo, andavo con gli operai a mettere alberi, in giro per i mercati; oppure, andavo nelle scuole magari per mettere con i ragazzi solo un alberello… Sentivo che facevo parte di un progetto che era far capire che la politica non era solo schifo. Orlando – aggiunge – mi lasciava assolutamente libera di esprimere tutte le follie che volevo esprimere…” che poi erano follie d’amore per la sua città, cose che partivano da lei come persona e non come calcolo di partito. Tuttavia, la sua esperienza politica non è stata tutta felice, anzi per certi aspetti è stata dolorosa. Nel 1991 per esempio, quando fu eletta all’assemblea regionale. “Capii subito che era solo un gioco delle parti, eravamo all’opposizione, ma ciò non significava nulla, sentivo che non era lì che si decidevano le cose, erano state decise altrove. Poi le commissioni …per anni lottai per la legge sul diritto allo studio, ancora non si è fatta”. Una delusione continua racconta ancora, una specie di teatrino, lei si sentiva ammalata, e mentre gli altri parlavano, desiderava solo dormire. E i compagni di vita della politica? Letizia li trovava troppo pesanti, non belli, molto vanitosi. “Odio la vanità maschile, quella femminile è più semplice, legata alla propria bellezza, mentre la vanità maschile è pericolosissima – spiega”. Come darle torto? Chi ha i soldi per farsi eleggere? Fare feste? Sperperare denari per magliette, bandane, e regali vari? Sono solo uomini, salvo qualche eccezione. Solo loro sono così ambiziosi. “Io sono più ambiziosa di loro, se debbo essere eletta, debbo essere eletta perché riconoscono in me che c’è una persona che vuole fare delle cose per gli altri.”

        Un’ambizione sconosciuta oggigiorno, e lei una delle pochissime persone a possederla, non vuole più dedicarsi alla politica dei partiti. E’ sempre in pista, ma si sente “troppo vecchia per fare l’assessore, non posso più”. Per il momento si dedica alle pubblicazioni, alla poesia, a tenere in vita la rivista Mezzocielo fondata assieme ad altre compagne, ha girato un film... Un vulcano! Un sogno? “Mi piacerebbe fare una scuola di fotografia, sicuramente. Mi piacerebbe pure, costruire un luogo sacro. importante, dove si conserva la memoria di quello che è avvenuto negli anni in cui io ho documentato; un luogo dove ognuno di noi, consegna il proprio operato, perché tutto non vada perduto. Io posso lasciare le mie fotografie sulla mafia, sul dolore di quegli anni, sulle lotte che si sono fatte e poi perse; qualcun altro può lasciare la sua musica contro la mafia, qualcun altro i suoi scritti. Però non mi piace dire museo.” Ha ragione Letizia, museo è una parola che sa di vecchio.

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