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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

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        Vita di palazzo

        Catania: agonia e rivolta della città tradita

        In cassa non c’è più un soldo. Spese pazze e soldi al vento. Raddoppiano le bollette, si vendono i palazzi antichi. "Si manciarunu tuttu!" fa la gente nei bar. Aria di Sudamerica, fra i bei palazzi barocchi. E’ l’otto settembre di Catania, col buffo Scapagnino al posto del duce e i gerarchi che si preparano a dire "Io? Non l’ho mai conosciuto!". Se Catania fosse solo questa, sarebbe la fine (ingloriosa) della città di Bellini. Ma restano ancora dei giovani, a credere in questa città

        Copertina Casablanca

        Qualcuno si ricorda più dell’agente Raciti? Eppure, la città s’era commossa. S’erano commossi i politici, s’era commosso il governo, s’era commossa l’opposizione, s’era commosso l’arciescovo anche se non al punto di sospendere la festa annuale. E s’erano commossi i cittadini, specialmente i bancarellari - clientela dei notabili di destra - che, il mattino seguente a quella morte, sulle macchie di sangue avevano ordinatamente disposto le bancarelle consuete. Fra i pochi a non commuoversi, i giovani sotto i trent’anni; e quelle centinaia di catanesi - la società civile, come si suol dire - che ostinatamente, da anni, s’intestardiscono a credere in una città civile. Costoro, più che di commozione, sembravano percossi da un improvviso richiamo. "Questa città non è come le altre - diceva la voce interna - Com’è potuto accadere? Com’è ci si è arrivati? Cosa possiamo fare?". Questo si leggeva nei visi, e una determinazione ingenua ma non effimera a "far qualcosa".

        Così, pochi giorni dopo, avevano convocato la città: sperando, essendo giovani, che adesso la città avrebbe ascoltato. La città era Catania, la "Milano del sud" (mai definizione fu tanto profetica: nel senso che Milano ora somiglia effettivamente moltissimo alla sorella del sud); ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra grande città del meridione. Soldi parecchi, ma concentrati nel dieci per cento della popolazione; Bmw, Mercedes, satellitari; servizi pubblici infami, ma cemento metastatico dappertutto; palazzine barocche e casermoni infami; e una linea nettissima, più impervia del muro di Berlino, a dividere nettamente le due città. La Catania dei poveri, no-drain no-job no-money, e la Catania visibile, abbastanza simile, dall’esterno, alle altre città italiane. La prima odia e serve la seconda. La seconda ha paura. Vivono entrambe alla giornata, concentrate sul prossimo pasto o sul prossimo appalto.

        Non esiste politica: ci sono alcune lobby di notabili e, come fiore all’occhiello, un paio di centinaia di nobili cittadini-missionari puntualmente spernacchiati dai baroni. Si parla di partiti, ma nel senso in cui se ne può parlare in Ucraina o in Colombia. Si dibatte assai. Eppure c’è stato un momento, una ventina d’anni fa, in cui anche qui una politica era esistita. Due schieramenti nettissimi, quello degli imprenditori-mafiosi e quelli dell’antimafia giacobina: i Cavalieri, i Siciliani: nomi da fazioni trecentesche, da primordi della civiltà urbana. Persero gli uni e gli altri: quelli spiaccicati dalla hybris, questi dispersi da povertà e divisioni. Tutto tornò "normale".

        Vent’anni dopo, mentre città come Matera o Sassari. Foggia o Rovigo (molto più indietro di Catania, allora) sono tranquillamente progredite, la nostra, un passo dopo l’altro e senz’accorgersene, si ritrova all’ultimo posto nella classifica del buon vivere nazionale. Gl’intellettuali della città, fra i massimi esperti europei di sesso degli angeli, insorsero indignati; il giornale locale, il cui lettorato pro-capite è inferiore a quello di Istanbul, li pubblicò più indignato ancora; il sindaco protestò indignatissimo; il rettore, così come pure monsignor arcivescovo, non disse niente. Eppure era un segnale terribile, come se l’Etna improvvisamente si fosse messa a eruttare materie organiche sulla Pompei sottostante, sulla ignara ma non inconsapevole città. Che adesso, improvvisamente, sente l’odore e si sveglia. E’ la crisi.

        La crisi non è arrivata per i morti ammazzati. Poche città hanno una digestione cosìfacile, in fatto di morti ammazzati, come questa. Nè per questione morale (qui il catanese farebbe un sorriso fine). Neanche per la cementificazione, per l’acquisto totale finalmente operato dalle due famiglie egemoni - i Ciancio o i Virlinzi - sull’intera città (è sempre appartenuta a qualcuno). Dissensi, crisi politiche? Macché: qui si risolvono alla gattoparda, la sinistra di ieri diventa ragionevole e scopre, alla don Consalvo Uzeda, le virtù della moderazione. Mai qui c’è stato uno scontro vero (eccetto quello d’allora coi Cavalieri) fra due fazioni incompatibili, mors tua vita mea. E allora?

        La crisi è arrivata semplicemente perché sono finiti i soldi. I soldi per gl’intellettuali, strafinanziati in cambio di sviolinature. I soldi per i bancarellari, elemosine in cambio di clientela. I soldi per gl’impiegati comunali, venti onze a testa ("ve li dà il principino!") un mese prima delle elezioni. I soldi per il gazzettino locale (centomila scudi all’anno glieli regala solo l’università). I soldi per sant’Agata, per i viaggi "in missione", per le famiglie dei nobili comprese le non-ufficiali, per i palafrenieri, i vicari, i vigili, gli archibugieri, i vicerè, i messi dei vicerè e ogni altro criato. "Senores, faltan dineros": non c’è più una lira.

        Allora si videro scene mai viste prima. Si videro messi bancari che uscivano dal palazzo tutti ingrugnati ("Ma neanche se vi diamo castello Ursino in garanzia? Il convento barocco? Il culo?"). Si videro agrimensori e ingegneri che misuravano accuratamente i più inalienabili monumenti aviti ("Quetso potrebbe valere un cinquemila scudi") . Si videro vecchiette dei quartieri più miserabili che ripetevano all’impiegato "Ma che fu? E comu la pagu io tutta ’sta bolletta, da un jornu all’autru?". Si videro (veramente non avrebbero dovuto esser visti; ma la città è trasparente) baroni d’avversi partiti, angioni e aragonesi, incontrarsi in luoghi oscuri di notte, al lume delle fiaccole, bisbigliandosi accordi osceni a vicenda).

        Si videro i più feroci sostenitori del Vicerè dichiarar con passione, a chiunque li volesse ascoltare, che essi in realtà erano nemici mortali del viceregno, e non che vedevano l’ora d’appendere a una buona forca Sua Eccellenza. Che intanto, nel chiuso del suo salone vicereale, solo, con un fascio di gride da un canto e uno di protesti dall’altro, cogitava fra sè meditabondo se passare alla Francia, tornare a Napoli, fuggire la notte stessa in diligenza. Tutti rimedi plausibili, e tutti purtroppo tardivi. Vedete? Siamo riusciti a scrivere ben due pagine su Catania senza pronunciare (quasi) la parola mafia. Il fatto è che qui la mafia è solo una delle componenti del sistema, e neanche la principale: come i bravi di don Rodrigo o le camice nere dell’Impero (in cui Papa e Re, e Fiat, contavano non meno di Mussolini), è lei che fa paura ai parroci, ma i matrimoni non li decide o proibisce lei. E’ lei quella contro cui si fanno le gride, ma non è lei quella che paga gli azzeccagarbugli. Questo è il segreto pubblico, di cui è somma maleducazione far cenno, che permette la civile convivenza fra i vari baronaggi della città.

        La mafia non esiste, la mafia non esiste più, la mafia esisteva una volta, la mafia è un complesso fenomeno culturale, la mafia è colpevole della violenza, la mafia mantiene l’ordine, la mafia garantisce l’economia della città (questa è di un vero filosofo, tale Sgalambro): tutto ho sentito dire sulla mafia a Catania, meno il banale e semplice "La mafia è nostra, senza non potremmo comandare". Da questo mondo di cartapecora, secentesco e feudale (e che difatti non riesce a tenere il passo col mondo esterno, quello vero), ogni tanto si stacca una generazione.

        Perché non è facile crescere umani qui, fra la violenza diffusa e l’ipocrisia; accettare quel mondo - come sarebbe d’obbligo al compimento dell’età matura - non è umanamente facile, e molti vi si rifiutano istintivamente. Perciò, in questa che è una delle città più corrotte d’Italia, trovi spesso i movimenti giovanili più puliti e determinati. Probabilmente, uno di essi è in corso adesso. Mentre noi scriviamo queste non allegre e probabilmente inutili paginette, a poca distanza dei giovani stanno discutendo utilmente, e con allegria, sulle cose che debbono fare adesso. Manifesti, cortei, inchieste, associazioni: non hanno il minimo dubbio che tutto ciò sia possibile, e che debbano compiere proprio loro. E difatti lo fanno, a poco a poco, tentando, cascando per terra e riprovando.

        Per la seconda volta in questi decenni, così, Catania ha una sua altra possibile classe dirigente. Non è isolata: in diversi altri luoghi d’Italia la crisi dei poteri tradizionali sta dando luogo (specialmente fra i giovani, e per le stessse ragioni) a fenomeni più diluiti ma non meno coerenti di riappropriazione dell’impegno pubblico, di riaggregazione sociale. Succede in luoghi diversissimi - la ricca Vicenza e la misera Locri, fra i giovani "comunisti" e quelli delle parrocchie - e succede, spessissimo, attorno a un tema preciso: la lotta alla mafia. La mafia, il sistema mafioso - i giovani intuiscono - è infatti il potere più nitido, quello che serve e lubrifica tutti gli altri.

        Passa da Sigonella l’ultimo grande affare del cavaliere Mario Ciancio Sanfilippo. Si tratta del megaresidence per 6.800 cittadini Usa che dovrebbe sorgere nel territorio del comune di Lentini, 300 milioni di euro d’investimenti per 670 mila metri cubi di costruzioni. L’editore-costruttore-latifondista, acceso sostenitore dei piani di militarizzazione della Sicilia, è infatti il socio “ombra” del gruppo che ha ottenuto dall’amministrazione di centrosinistra di Lentini il pass per convertire ad alloggi, parcheggi e impianti sportivi, oltre 91 ettari di rigogliosi aranceti. Fondata il 3 novembre 2004, la Scirumi Srl ha sede a Catania in via XX Settembre 43 presso lo studio del professore Gaetano Siciliano, già presidente dell’ordine dei commercialisti ed odierno presidente del collegio dei revisori dei conti del Comune di Catania. La maggioranza delle quote sociali della Scirumi sono in mano alla Maltauro Costruzioni, l’impresa in gara per ottenere l’appalto per la nuova base di Vicenza. Un altro 10% delle quote sono in mano alla Cappellina Srl, posseduta in parti uguali dai cinque figli di Mario Ciancio: Angela (amministratrice di Telecolor e Rtp), Carla (membro del direttivo dell’Associazione Editori), Rosa Emanuela, Natalia e Domenico (segretario di redazione de "La Sicilia").

        E il cavaliere? A lui erano intestati una parte dei terreni di Lentini venduti alla Scirumi e destinati ad ospitare i militari della più grande base aeronavale degli Stati Uniti nel Mediterraneo. Una parte, perché gli altri fondi appartenevano alla Sater Società Agricola Turistica Etna Riviera, capitale sociale 1.300.320 euro, 777.600 euro nella disponibilità di Mario Ciancio ed il resto delle quote intestate a Valeria Guarnaccia (la moglie), e ad i figli Domenico e Rosa Emanuela.

        La Sater, che ha come indirizzo e-mail sater@lasicilia.it , condivide la stessa sede della Cappellina (via Pietro dell’Ova 51, Catania) e finanche l’amministratore, l’anziano avvocato Francesco Garozzo, presente in altre operazioni finanziarie del gruppo Ciancio. Uno dei figli del legale, Francesco Garozzo, è membro del Cda della Scirumi; altro Garozzo, l’ingegnere Rosario (direttore generale del Comune di Adrano), è invece uno dei progettisti del megaresidence per i militari di Sigonella. La Scirumi ha pure una “sorella”, la Nuova Scirumi Srl, costituita il 5 ottobre 2005 ed interamente posseduta dalla Sater. Formalmente “inattiva” con amministratore unico l’avvocato Garozzo, la Nuova Scirumi ha un oggetto sociale “fotocopia” a quelli della Scirumi e della Cappellina: “l’acquisto e/o la vendita di terreni agricoli e/o l’assunzione e la gestione della conduzione degli stessi, ecc. ecc.”.

        Niente realizzazioni di opere edilizie, dunque. Al sacco dell’area di Lentini sottoposta a vincoli ambientali, paesaggistici ed archeologici, ci penserà la Maltauro di Vicenza, la stessa che ha costruito il megacentro Etnapolis del signor Roberto Abate, incontrastato imprenditore nel settore della grande distribuzione commerciale nell’isola.

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