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      SanLibero in pillole

      • E' morto un prete

        27 gennaio 2008 - Riccardo Orioles

        E' morto un prete a Catania, che si chiamava padre Greco. Non è una notizia importante e fuori dal suo quartiere non l'ha saputo nessuno. Eppure, in giovinezza, era stato un uomo importante: uscito dal seminario (il migliore allievo) era “un giovane promettente” ed era rapidamente diventato coadiutore del vescovo. Io di carriere dei preti non me ne intendo ma dev'essere qualcosa del tipo segretario della Fgci, e poi segretario di federazione, comitato centrale, onorevole e infine, se tutto va bene, ministro. Comunque lui dopo un anno si ribellò. Che cazzo - disse a se stesso - io sono un prete. E il prete non sta in ufficio, sta fra la gente.

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        Jigeen, la donna Goorum, l’uomo Adduna, il mondo

        Aminata non porta una gonna ma un ser, non va in chiesa ma nella piccola moschea del quartiere. Ha diciannove anni e due figlie, la più piccola di sei mesi. Compra vestiti simil-griffati alla bancarella, guarda la soap alla tv, vive in una piccolissima casa. Le piace la moda moderna. Non ha lavoro. Una delle tante ragazze di uno dei tanti sud. Cronaca senza pretese di una giornata qualunque, una delle sue giornate, così tanto per

        di Vanessa Marchese

        Dal ser, il tessuto che le donne senegalesi si legano ai fianchi come una gonna, si intravedono i bin bin, una cintura di perline infilate dentro un elastico. Aminata ha diciannove anni e due figlie, Awa di tre anni e Adama di dieci mesi che ancora allatta al seno. Aminata. Aminata ha i seni piccoli, le gambe lunghe. Indossa una parrucca che si è cucita in testa da sola davanti allo specchio. I corti capelli sintetici, neri con le meches viola, le incorniciano il volto rotondo.“Guarda questa, è del battem di Adama” dice la ragazza indicando una foto che la ritrae dentro un abito bianco dal tessuto pregiato, che le scivola addosso come un lenzuolo. Ha le palpebre e le labbra truccate di bianco, i capelli acconciati in grosse trecce che formano un disegno sulla testa. Tiene in mano un album con una cinquantina di foto che si porta sempre dietro. Lei in posa da sola, con le amiche, i battem delle figlie. Nessuna traccia di marito o fidanzati.

        In Senegal i bambini nascono e non sai come chiamarli. Non hanno nome fino al giorno del battem, il battesimo musulmano. “Quel giorno è stato bellissimo - racconta Aminata - c’erano amici e parenti, abbiamo sacrificato un montone, i saggi della Moschea sono venuti a casa” si interrompe perché Adama piange. “Dafa mettit birbi”, le fa male la pancia. La piccola ha un’ernia ombelicale. Il rigonfiamento le solleva la magliettina, i crampi le fanno piegare le gambe, il pianto è a tratti acuto. La giovane la culla aspettando che le passi il dolore.

        Il medico dice che non serve perché l’ernia le passerà quando un adulto con lo stesso problema le soffierà sull’ombellico. Awa invece sta in silenzio e guarda sua madre. Sa già che tra un po’ se ne andrà e la lascerà lì dalla nonna. Aminata trascorre tre settimane da uno zio, un mese da una cugina. Va in giro per le case dei parenti per rompere la routine, per pesare di meno alla sua famiglia. Alla ricerca di un marito. Si, perché con il padre di Adama il matrimonio è durato poco.

        “L’ho lasciato un paio di mesi fa. Lui lavora in un’altra città, ci vedevamo poco e poi non era in grado di darmi soldi - racconta - con il papà di Awa invece non ero sposata”.Le statistiche dicono che in Senegal sono in aumento les maternitès hors mariages, le gravidanze fuori dal matrimonio e che le ragazze ricorrono spesso alle gravidanze per convolare all’antico e internazionale matrimonio riparatore. Il matrimonio è spesso solo una fonte di reddito, un modo per evitare di impiegarsi in lavori umili e male retribuiti.“I partiti migliori sono gli uomini che lavorano all’estero, che possono mantenere in euro o dollari la famiglia, che tornano a casa solo una volta ogni tanto” dice Aminata, ma Marem una sua amica sposata da sei anni con un senegalese che lavora in Francia, si arrabbia: ”Io vedo mio marito una volta l’anno se va bene, resta con noi un mese. Sto molto male, mi sento sola. Lui ci mantiene e non ci fa mancare quasi nulla, ma a me manca mio marito. Poi sicuramente lì lui qualcuna se l’è trovata. Io invece non posso andare neanche al cinema perché se tuo marito è fuori per lavoro qui ti osservano tutti, controllano ogni tuo passo, spettegolano”. La mancanza di lavoro ha creato un esercito di vedove bianche.

        Dall’altoparlante della moschea di quartiere, un piccolo edificio ben costruito, giunge la nenia dei versetti del Corano. Se c’è silenzio senti, prima o dopo, quella dei quartieri vicini. Ognuno ha un suo orario, un turno da rispettare. E’ l’ora della preghiera. Il canto rapisce. Aminata va in cortile per la purificazione. Si lava tre volte le mani per pulirle dalle cose sporche che ha toccato, tre volte la bocca per le cose cattive che ha detto, le orecchie per le cose non buone ascoltate… si copre il capo, sistema il tappetino in direzione della Mecca, porta le mani alla testa all’altezza delle orecchie ed inizia a recitare le sue preghiere.La casa in cui vive l’ha costruita suo nonno cinquant’anni fa, sulle pareti c’è ancora la stessa tempera azzurrina.

        Si entra da un cancello di ferro, al centro c’è un grande cortile di forma rettangolare circondato da edifici di un piano che formano una cintura. Ad ogni porta corrisponde una stanza, ad ogni stanza una famiglia. In disparte due casupole con il tetto in lamiera, una per lavarsi, una per i bisogni.La stanza di Aminata che è grande, è separata in due da una tenda. A terra un pavimento di plastica copre il suolo di cemento. All’ingresso in un salottino per accogliere gli ospiti e passare le giornate ci sono un divano, due poltrone e un mobile con un grande stereo regalo di nozze. Dietro la parete di stoffa, un letto di legno rosso lavorato artigianalmente, barocco. Poi i comodini, la cassettiera, un grande armadio e sparsi per la stanza creme, cucchiai, giocattoli, gli oggetti di uso quotidiano. Dal cortile arriva l’odore di cipolla e pesce fritto. Sulla cinquantina, fisico snello, occhi stanchi, la madre di Aminata cucina per cena. Con le mani rimescola i chicchi di riso in un po’ di acqua. Una donna china sulle ginocchia, con il sedere rasente il suolo, in un equilibrio perfetto, controlla la frittura su un piccolo e bombato cucinino, di quelli che in Italia si usano nei campeggi.

        In casa c’è il frigorifero, ognuno ha il suo stereo, e nella camera della madre c’è anche la televisione. La lavatrice non serve perché due donne, una volta ogni dieci giorni, fanno il bucato e stirano. Lavano i vestiti a mano con il sapone solido, poi li stendono e siccome fa caldo dopo un paio di ore possono già stirarli. Mentre una ritira i panni dal cortile, l’altra brucia il carbone che serve per il ferro da stiro. Prima di cena tutte le donne di casa corrono davanti alla televisione per guardare una soap opera, una delle cinque trasmesse quotidianamente dalla televisione di stato. Questa è argentina, si intitola Milagros. La storia è agrodolce e a volte grottesca. L’attenzione delle telespettatrici è puntata sui vestiti delle protagoniste e sulle scene d’amore mai troppo esplicite. I vestiti. Le donne senegalesi spendono tutto quello che possono in abiti. Le ragazze vanno a fare le cameriere pur di poter arricchire il loro guardaroba. L’industria tessile del paese è rinomata, produce tessuti colorati con motivi etnici.

        Alcuni tessuti sono trattati a mano con tinture e colla, poi battuti con dei legni.Aminata ha l’armadio stracolmo di abiti, tradizionali e non. Lei ama molto la moda occidentale, i pantaloni a vita bassa, le magliette aderenti che lasciano scoperto l’ombelico. In centro città ci sono delle piccole boutique che vendono solo abbigliamento occidentale a prezzi esosi, però poi nell‘etichette c‘è scritto made in China o Indonesia.

        I prodotti italiani sono oggetti di culto per uomini e donne. I falsi regnano per il mercato, sulle bancarelle o per terra sopra i lenzuoli degli ambulanti si trovano sandali in plastica simil pelle firmati Prada con una vernice poco resistente a duemila franchi CFA, tre euro circa, e vestiti di incerti e sconosciuti stilisti italiani come Robetto o Piazza di Espagna. La soap alla televisione è finita, Aminata sistema le ultime cose nel borsone per andare a casa di un cugino, si fascia Adama alla schiena con un largo pezzo di stoffa che si lega sopra il seno e attorno la pancia.

        “Non avviso, arrivo e basta. Da noi si usa così” racconta mentre ai lobi delle orecchie infila dei pendenti, una carrellata lunga cinque centimetri di gocce di plastica azzurra. Poi sistema i ciuffetti di Adama con degli elastici colorati ed esce senza salutare Awa che già piange da un po’, in silenzio.

        Il tacco da dieci centimetri di Aminata affoga nella sabbia rossa di Diourbel, uno dei dieci capoluoghi di regione del Senegal. La strada principale è asfaltata, i taxi passano veloci. Lei fa un gesto con la mano, il taxi si ferma. Saluta il taxista con due lunghi minuti di salamelecchi, gli dice dove vuole andare, contratta sul prezzo, sale. Il taxi è logoro, il parabrezza è rotto dal lato del passeggero. I sedili posteriori sono macchiati. Dalla radio accesa una voce nasale ripete alcuni versetti del Corano. Sul cruscotto un adesivo ritrae un profeta. La casa del cugino si trova in periferia, all’ingresso della città. La vettura lascia la strada asfaltata ed inizia a percorrere i sentieri aperti da altre automobili passate da lì prima di questa, tra i cespugli di erbaccia e i mattoni dei cantieri delle case in costruzione.

        Qui negli ultimi quindici anni si è registrato un boom edilizio mai visto in precedenza. E’ l’economia di rimessa, sono i soldi dei senegalesi che verso gli anni novanta sono andati a fare gli immigrati nel nord Africa o in Europa, che ora investono i loro risparmi in case per le famiglie che sono rimaste ad aspettarli.La strada è illuminata ogni cento metri da un lampione, non ci sono i contenitori per l’immondizia. I residenti mettono un secchio di plastica davanti casa e ci raccolgono la spazzatura nell’attesa che un uomo con un carretto trainato da un mulo stanco prima o poi passi a ritirarla. Le strade non sono asfaltate perché lo Stato non ha i soldi per le infrastrutture. La gente è povera e quindi niente tasse.

        Niente tasse, niente servizi. Le scuole pubbliche senza acqua, dagli ospedali se non paghi le medicine non ti dimettono.Chaire, il cugino di Aminata, è uno di quelli che hanno cambiato continente per cercare lavoro. E’ andato in Libia, poi cinque anni fa la madre gli telefona e gli dice: “Hai quarant’anni devi sposarti. Torna che ti ho trovato moglie”. Lui torna, si sposa una cugina di terzo grado, resta due settimane, affitta casa, compra il frigorifero, il fornetto da campeggio, la camera da letto, il salottino e riparte. Torna ogni due anni, si ferma due settimane. Ha risparmiato e si è costruito casa, mattone su mattone, sacco di cemento su sacco di cemento. La casa è quasi completa, manca la finestra nel salone, e bisogna fare il tetto sulle scale che portano in terrazzo. Ci vivono la madre, la moglie e qualche altro parente. Un emigrato riesce a spedire circa trecento euro al mese che servono per il mantenimento della casa, per il vitto e le spese essenziali quali acqua e luce. In una casa senegalese abitano in media tre famiglie.

        A casa di Chaire c’è Papa Nguer, un ragazzo di venticinque anni rimpatriato da Madrid a fine settembre. “Ho pagato cinquecentomila franchi CFA, circa settecento euro, ho rischiato la mia vita su una barcaccia di legno - racconta - ed appena arrivato sono stato rimpatriato”. Magro e alto, Papa porta dei pantaloni di tela verde di due misure più grandi che gli scivolano sulle natiche e lasciano vedere i boxer. “Ma io ci riprovo - continua a raccontare - perché qui che ci resto a fare”. Lui è il quinto di sette figli, ha studiato fino alle scuole superiori, poi ha dato una mano al fratello che fa il carpentiere ma non riusciva a guadagnare più di ventimila franchi al mese, trenta euro circa, lavorando otto ore al giorno.

        “Quando ho saputo che organizzavano un viaggio per la Spagna, ho fatto una colletta in famiglia per partire. Sono tornato con diecimila franchi, una bottiglia di acqua minerale ed un panino. Se qui avessi un lavoro con un salario normale io non mi sognerei mai di rischiare la mia vita per andare lontano dalla mia famiglia e dai miei amici”. Sul barcone erano in troppi, c’erano anche dei padri che tenevano i figli in braccio. “Al nostro governo va bene che lasciamo il nostro paese per la Mauritania o la Gambia dove la situazione è identica a qui. Invece non va bene se cerchiamo di andare in Spagna dove in alcune zone manca la mano d’opera ed il lavoro si trova a gogo” conclude. Aminata non è molto interessata alla conversazione, è distratta da un programma alla tivù che dura pochi minuti, sponsorizzato da una grossa fabbrica di Dakar che produce capelli sintetici e prodotti estetici. In uno studio ben illuminato sfilano delle modelle che mostrano delle nuove acconciature, ognuna con un nome di donna. Una parrucchiera ne descrive le particolarità proprio come alle sfilate di moda lo stilista descrive i suoi abiti. Adama si è addormentata attaccata al seno.

        Dopo pranzo, con ancora in bocca il sapore del ceebu yapp, il riso con la carne, ci si siede fuori in cortile sotto l’ombra di un albero di mango. Aisha è seduta su un basso sgabello di legno, tra le gambe aperte ha il fornello con sopra una piccola teiera di alluminio. A terra, su un rotondo vassoio di plastica, due piccoli bicchieri di vetro trasparente. “Ho conosciuto una donna francese in un sito di incontri, tra un paio di settimane arriverà a Dakar” Omar sorride raccontando la sua storia. Ha ventiquattro anni. Accompagna ogni parola con un gesto della mano.

        “Da sei mesi vado quasi tutti i giorni in un cyber cafè vicino casa perché ho saputo che è facile conoscere donne straniere” e quattro mesi fa ha conosciuto in una chat Marielle di quasi quarant’anni.“Non l’ho mai vista neanche in foto. Quando viene forse ci sposiamo, se le vado bene”. Omar è alto e magro, ha le narici larghe e il mento spigoloso. “Voglio sposarmi per poter andare via, il matrimonio è un mezzo per arrivare in Europa senza avere problemi di documenti. So che non è giusto, ma me ne voglio andare” dice mentre Aisha passa il te bollente da un bicchiere all’altro. “Molte donne tubab, donne bianche, vogliono l’uomo di colore - racconta Babacar che annuiva divertito al racconto dell’amico Omar - alcune vengono qua apposta per fare turismo sessuale.

        Sono donne mature che cercano giovani uomini prestanti. Io ho diversi amici che hanno iniziato relazioni con donne tubab conosciute su internet. Sono quasi tutte francesi, con loro è più facile. Con le italiane no, troppo complicate. Poi c’è anche il problema della lingua”. Babacar ha trentacinque anni, è sposato da due con Aisha. “Io ho vissuto in nord Italia per più di un anno, ho fatto l’operaio ma non ero messo in regola e così mi hanno rimpatriato. Troppo complicati i documenti, troppo pericoloso entrare di nascosto, è più facile sposarsi”. Tiene in braccio un bimbo di poco meno di un anno, il suo primo figlio, il terzo per la moglie. “In Italia, non ho conosciuto un senegalese che si è sposato con un’italiana e aveva i documenti apposto. Sarà un caso?”.Marielle tra due settimane arriverà in Senegal per conoscere Omar. Se il giovane candidato sarà promosso, la tubab andrà all‘Ambasciata francese di Dakar a fare le pubblicazioni per il matrimonio, poi potranno sposarsi in qualsiasi Comune senegalese. Ottenuto il certificato dovranno tornare in Ambasciata per registrarlo. Dopo qualche giorno torneranno in Ambasciata, ma stavolta all’Ufficio Visti. Da lì a poco potranno ripartire insieme per l’Europa. Aisha serve il te.

        Il suono dei tam tam è vicino, saranno due o tre tamburi percossi con forza. In un salone de coiffeure c’è una festa. E’ l’associazione dei parrucchieri che organizza feste itineranti presso i soci. Sul muro della bottega c’è il disegno di un viso di donna dai folti capelli, sulla porta c’è scritto il nome di un profeta cui è dedicata l’attività. Sulla strada, sedute su delle sedie di plastica, una decina di donne ben vestite e ingioiellate si godono lo spettacolo: due ragazzi battono sui loro tamburi, i muscoli delle braccia sono gonfi, le dita serrate eguono i movimenti dei polsi. Due ballerine danzano, muovono il ventre a ritmo dei colpi di tamburo.

        Indossano abiti etnici, ser blu elettrico e canotta viola che lasciano il seno un po’ scoperto. Sudate, sorridenti danzano la féthie, il ballo tradizionale senegalese. Aprono e chiudono le ginocchia tenendo le gambe divaricate, ancheggiano, scuotono la testa, ondeggiano le braccia. Saltano. Spingono in avanti il ventre. Saltano. I ragazzi suonano, battono sempre più velocemente, ad ogni colpo sul tamburo i muscoli del petto si gonfiano, il respiro ha un sussulto. Le spettatrici battono le mani, una si alza e inizia a danzare. Salta per tre minuti conseguitivi, le amiche la applaudono. E’esausta.

        Nella regione di Diourbel ci sono trentasette villaggi. Per arrivarci bisogna percorrere diversi chilometri su un furgoncino stipato di persone. Sul tetto del mezzo si posano i montoni, le pecore e il pollame dei passeggeri. Dal pavimento rinforzato da dei pezzi di legno, entra la sabbia della strada che ti si appiccica addosso, dentro le narici, le donne per riparasi si coprono con dei grossi foulard, gli uomini mettono un cappello. Il furgone si ferma al garage, il capolinea. Poi bisogna camminare per un po’, e chiedere in giro dell’uomo che ha il carretto.L’uomo abita in una baracca circondata da dei pezzi di bambù. Il carretto è di legno grezzo, per ruote ha dei pneumatici da autovettura di cilindrata media. Il cavallo che lo trascina è ossuto e porta a frustrate il suo peso. Qualche chilometro più avanti, tra la vegetazione desolata resa movimentata da piccoli eserciti di baobab, compare il villaggio.

        Il villaggio. E’quieto e pulito, non ci sono i pali della luce, l’acqua si prende dal pozzo. Le capanne si somigliano tutte, alcune hanno la struttura di mattoni, altre di canna. I tetti sono fatti con le foglie di palma secche.In uno di questi villaggi, nel mese di maggio una ragazza di sedici anni è costretta dalla famiglia a un matrimonio combinato con uno zio di quarantadue.In luglio la ragazza fugge. Il marito corre dalle autorità a denunciarla per abbandono di tetto coniugale. La polizia la rintraccia e l’arresta. Sta ancora scontando la sua pena di sei mesi di galera. Lei comunque preferisce la prigione. Le associazioni femminili stanno facendo una gran bagarre, ma il giudice si giustifica dicendo che è stata solo applicata la legge. Aminata racconta: “Mia zia che vive in un villaggio di un’altra regione si è sposata a dieci anni. Il suo è un matrimonio tranquillo, ha avuto otto figli”.

        Aminata è andata poco a scuola, quanto basta per leggere e scrivere e farsi i conti quando va al mercto. Fin da piccola aiutava in casa la madre e rassettava le stanze con la piccola scopa fatta di rami secchi legati con un pezzo di spago. Non legge i giornali, non sa che esistono città che si chiamano Tokyo o Roma.Aminata non sa nulla dei discorsi accorati che il presidente Wade fa al telegiornale su les mariages precoces, i matrimoni precoci cui giovanissime sono costrette dalla famiglia. Lui, presidente settantenne, definito vassallo degli americani da Le Monde, che con la voce rotta dalla rabbia dice ai suoi connazionali che il matrimonio combinato non da armonia, crea squilibrio nella coppia.

        Che i matrimoni precoci “Sono atti di violenza, atti che uomini viziosi cercano di rendere legali con il matrimonio, una pedofilia autorizzata” che le vittime devono denunciare, che la gente che sa deve denunciare ed impedire alle famiglie di commettere certe assurdità. Aminata non sa che l’articolo trecento del codice penale senegalese dice che per il matrimonio o l’atto sessuale sui minori di tredici anni sono previste pene restrittive che vanno dai cinque ai tredici anni.Ogni settimana la televisione fa tam tam su storie di cronaca in cui le protagoniste sono bambine di sette, dieci, tredici anni. Bambine che certe volte muoiono per gli abusi subiti. Bambine che partoriscono altri bambini. Piccole donne che si ammalano, che si rifiutano di vivere.

        E’ sabato mattina. Subito dopo essersi alzata, Aminata si è bucata il naso con un orecchino d’argento. Al primo colpo la punta dell’orecchino è entrata dentro, il secondo colpo ha oltrepassato la cartilagine. Le uscivano le lacrime dagli occhi, le colava il naso. Poi con una matita nera si è colorata le sopracciglia, ci ha disegnato sopra due spesse linee lunghe quasi fino alle tempie.Ha indossato un abito tradizionale giallo canarino tutto traforato. Ora lascerà Adama alla madre e andrà al garage per prendere un’auto di quelle familiari sulla quale il conducente, con un po’ di pazienza, farà entrare sette passeggeri.Con le gambe rannicchiate e il timore di maltrattare e sporcare il vestito, arriverà a Dakar. Ai Pompieres chiamerà un suo amico che la verrà a prendere con il motorino e l’accompagnerà dalla sua amica che oggi farà il battem al figlio nato una settimana fa.

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