Viaggio nel mondo dell'informazione "prima puntata"

Stefano Mencherini (regista RAI e giornalista indipendente)
Fonte: Avvenimenti n 36 del 2002

C’è il Paese reale e quello della propaganda politica. C’è un’Italia che è scesa in piazza per tentare di affermare che la legge deve essere uguale per tutti e che l’informazione deve essere libera, ce n’è una che si è fatta prendere le impronte digitali per sperare di riuscire a sopravvivere, ce n’è una che si dà fuoco perché non ha lavoro. E ce n’è un’altra che invece si sgola a dichiarare che tutto va bene. Anzi: meglio di sempre. Ma chi può provare a darci davvero il polso del Paese, magari attraverso l’elettrodomestico più usato dagli italiani? Chi, attraverso inchieste e reportage, riesce a mostrarcela in tivù l’Italia che stiamo vivendo? Che cosa pensano e come lavorano i televisionisti di casa nostra?
Tutto partendo da una piccola considerazione, cioè dalla quantità dell’ offerta di televisione generalista che da noi è altissima (l’America con più di 200 milioni di telespettatori ha solo tre network generalisti).
“La tivù non è mai stata così orrenda come oggi - attacca Mimmo Lombezzi giornalista e autore Mediaset – e la linea generale è quella di tacere sulla realtà nostrana”. Eppure ci sarebbe l’imbarazzo della scelta: la crisi economica, la precarizzazione del mercato del lavoro, la sanità pubblica in mano ai governatori regionali che tagliano servizi e aumentano i ticket… “E il dramma dell’immigrazione, il futuro della scuola, il grosso scontro in atto tra Chiesa e Lega e via così. Ma forse il perché è meglio chiederlo a Santoro.
Il Giornale fa una campagna sulla doppia pensione dei sindacalisti? Bene, al limite si aggiunga al palinsesto un Veneziani e si faccia un approfondimento. Invece…”. Invece Santoro col suo Sciuscià è andato “in onda” dalla festa romana di Liberazione. Lombezzi la scorsa stagione ha firmato con Sabina Fedeli due programmi: Link su Canale 5 e Mission, cartoline dall’inferno su Italia 1. Il primo, che ha ormai tre anni di vita, è nato come settimanale che indagava nel mondo di Internet. Poi è riuscito a crescere e lo scorso anno si sono viste cose interessanti sull’isolamento in Sicilia dei taglieggiati dal racket, sul lavoro nero, sul mobbing, sui deportati nei campi di sterminio nazisti.
Due milioni e mezzo di telespettatori a puntata il primo anno, si è ritrovato stritolato la scorsa stagione nel sabato televisivo contro Fiorello ed è calato a un milione e settecentomila. Ma nella guerra dei numeri per Canale 5 rimane un successo. Con una conferma: i pezzi più premiati dall’Auditel erano proprio quelli che raccontavano storie e vicende di casa nostra. Una su tutte: l’anniversario sulla tomba di Mussolini, a Predappio, con un bel gruppo di nuovi e vecchi fans. Link dura mezz’ora, impagina cinque o sei pezzi a puntata, ha un costo basso (meno di 40 mila euro a puntata) ma si vede sì e no tre mesi all’anno (ripartirà tra febbraio e marzo del 2003).
Mission, invece, da Italia 1 è stato cancellato del tutto: erano bei reportage dalle zone calde del pianeta, alcuni acquistati ed altri girati dagli autori. Così non solo Lombezzi e Fedeli lavorano a singhiozzo, ma non si intravvedono spiragli per far crescere l’immagine e soprattutto l’affezione del pubblico attraverso una seria e meno episodica programmazione.
“Il problema sono quelli che fanno i palinsesti – riflette Sandro Provvisionato, caporedattore del Tg5 e curatore insieme a Toni Capuozzo e Maddalena Labricciosa di Terra! – forse perché sono convinti, a torto, che il prodotto di basso profilo porti più telespettatori dietro al teleschermo. Non credo ci sia altro se non biechi interessi di cassetta”. Eppure la gente ha voglia di sapere, di capire, e forse ne ha anche il diritto.
I telegiornali bruciano le notizie in un minuto. Le inchieste se sono fatte bene aiutano invece ad aprire gli occhi, i reportage a conoscere realtà nuove, gli approfondimenti aiutano a pensare, ad alimentare o a sciogliere un dubbio. “Ma il futuro è sempre più fosco per questo genere di televisione”, chiosa Provvisionato. Terra!, settimanale del Tg5, ci prova a modo suo da tre anni con una formula interessante: un collagedi storie e realtà diverse inanellate sul filo dell’argomento contenuto nel titolo. Oppure con puntate monotematiche, come quella a un anno dal G 8 di Genova (un successo premiato con il 23 per cento di share) che ha visto alternarsi brani del censurato (dalla Rai) Bella ciao di Freccero e Giusti, spezzoni del film-intervista di Francesca Comencini alla mamma di Carlo Giuliani e un’ esclusiva al carabiniere Placanica accusato di averlo ammazzato.
Tutto con sette giornalisti, qualche episodico collaboratore freelance e un costo a puntata decisamente basso: meno di 50 mila euro per circa 50 minuti. A farne le spese in tema di ascolti è stato Tv7, lo storico settimanale del Tg1 che la domenica in seconda serata gli battagliava contro: il 14 per cento di share a Rai Uno e il 18 a Canale 5. Terra! ripartirà il 22 settembre dopo la pausa estiva. Già, perché il suo palinsesto, come tutti gli altri, chissà perché in estate cambia genere. Come se anche la vita chiudesse tre o quattro mesi per ferie.
Anche la rete salvata (per sua stessa ammissione) da Emilio Fede, ha un angolo per il reportage. E’ 2000, fatti e personaggi.
Oggi alla sua quarta stagione di vita, esordì su Canale 5 a firma di Giancarlo Scheri e Tamara Gregoretti e traslocò poi a Rete 4 di cui Scheri è tuttora direttore. Va in onda il venerdì in seconda serata per sei, sette mesi all’anno. Marina Dotti coordina una redazione fatta soprattutto di freelance. Gli ascolti sono buoni per la media della rete: “8/9 per cento di share con circa 1 milione e 200 mila telespettatori”, dice Maria Teresa Ceruti, produttore esecutivo Mediaset. Si cucinano storie italiane e spaccati di realtà oltreconfine: Afghanistan, Sud Africa, Russia… Il tutto miscelato da una post-produzione accattivante e sorretto da un buon ritmo televisivo, anche per colpa di Michele Mally (lo stesso regista di Link).
Siamo alla Rai. E si sente. Tra i tengofamiglia, i silenzi imbarazzati, i giochi di parole, i menefrego, al massimo puoi trovare qualcuno “molto preoccupato perché più che per i programmi ci distinguiamo per censure e epurazioni”. Intanto gli strateghi di Mimun hanno lavorato sulle novità. Tv7 va al posto di Frontiere e Frontiere, che si chiamerà Speciale Tg1 di cui viene riesumato il logo, va al posto di Tv7. Pronti via venerdì quattro ottobre e domenica sei, sempre in seconda serata. Il resto va tutto al Pontefice di Porta a Porta. “E Tv7 con i suoi venti inviati (sette sono a tempo determinato, ndr) starà molto sull’attualità, sul tema del giorno”, dice Fabrizio Ferragni, ex quirinalista poi alla Tgr Lazio e da tre mesi alla vicedirezione del Tg1.
Ed era l’altra “grande novità” che mancava. Il problema è che “l’attualità o il fatto del giorno” il giorno dopo, la settimana dopo, cadono nel dimenticatoio collettivo e l’informazione che dovrebbe essere di approfondimento o di inchiesta finisce per doppiare quella dei tigì. Al contrario Rai Due a fine ottobre per far dimenticare gli assenti metterà in scena la “Samarcanda di destra”. Affidata a Antonio Socci, editorialista del Giornale e del Foglio ed ora anche neovicedirettore di rete. Due ore in prima serata. Contenuti:”Un esempio: la tivù ha messo sotto i riflettori a lungo i partiti, secondo me doveva indagare sui sindacati, senza pregiudizi”.
Redazione:” Quindici persone con nuove sensibilità”. Conduzione:”Ogni volta una persona diversa che su quegli argomenti sia la più adatta per condurre un dibattito non ideologico o narcisistico”.
“L’azienda viene vista come luogo di censura. Ci considerano l’unico baluardo dell’informazione libera e democratica. E’ una responsabilità che non voglio avere perché vorrei fare solo il giornalista”. Maurizio Mannoni conduce da tre anni Primo piano la striscia quotidiana del Tg3. Un breve approfondimento, sempre sul fatto del giorno, che dura una ventina di minuti. Fa il 10 per cento di ascolto con 1 milione e 500 mila telespettatori di media, in linea con lo share della terza rete. Ed è l’unica testata che con i suoi tredici giornalisti è sopravvissuta agli strali bulgari del presidente del Consiglio ( “Biagi, Santoro, Luttazzi e Primo piano”, ricordate?).
Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera, ha una sua risposta sul perché:”Primo piano è un programma che sul piano politico non graffia, non lascia il segno”. Sempre su Rai Tre qualcuno che il segno lo lascia, o almeno ci prova, è Report di Milena Gabanelli. L’unico programma d’inchiesta su cui possa contare la tivù nostrana, guardacaso prodotto da una piccola squadra di nove videogiornalisti indipendenti (cioè non contrattualizzati dalla Rai). E’ anche l’unico a tenere botta tra prime e seconde serate nella casa delle libertà negate. Partirà alle nove di sera martedì 24 settembre con “Operazione ponte” di Stefania Rimini che indaga su un incubo italiano destinato a durare ancora a lungo, contrariamente ai proclami governativi, e dai contorni a dir poco nebulosi.
Ci aveva già provato Sciuscià circa un anno e mezzo fa a raccontare la novella del ponte sullo Stretto di Messina: fanno bene a tornarci su quelli di Report. A seguire, per altre cinque puntate, sarà il turno della pubblicità ingannevole, di
come finiscono i finanziamenti pubblici dati alle Organizzazioni non governative per i loro progetti umanitari in Kosovo come in Afghanistan o in Sierra Leone, delle sale Bingo che per non chiudere diventeranno piccoli casinò con slot machine e video poker anche a danno delle tombolate dei pensionati che nei circoli di quartiere saranno fuori legge. E via così, con un secondo appuntamento di otto puntate in seconda serata nella prossima primavera.
Tre mesi e mezzo in tutto di programmazione settimanale, un costo bassissimo a pezzo tra i 20 e i 30 mila euro di cui i free-lance anticipano persino le spese di produzione (e sono lavori che possono avere anche tre, quattro mesi di gestazione). Rimane il sogno bruciato de La7 che rivendica la pluralità “che non si possono permettere gli altri”. Tamara Gregoretti, vicedirettore con delega agli approfondimenti, sta mettendo in piedi l’ Otto e mezzo con Ferrara e Luca Sofri, due ore di prima serata del sabato con Lerner (da metà ottobre) e Omnibus, un dibattito alle otto e un quarto di mattina:” Mi pare che in giro non ci sia una gran voglia di fare informazione – ironizza – ma noi stiamo facendo i salti mortali”.
Con un budget risicatissimo, un bilancio che andrà in pareggio, se va bene, entro il 2005 e con un segnale che non copre ancora tutta Italia. Costretti a fare “un’informazione televisiva parlata”.
Ricapitolando: costi di produzione anche dieci o quindici volte inferiori a programmi di altro genere, ascolti alti e di conseguenza maggiori introiti pubblicitari, gradimento e più richiesta da parte del pubblico. Eppure meno delle briciole dell’ enorme offerta di tivù generalista vanno a chi fa o potrebbe fare il giornalista: cioè il testimone scomodo. Come scrive Santoro sull’ultimo MicroMega:”In una stagione che rappresenta per il governo la prova più difficile dal punto di vista sociale e da quello giudiziario”.
“Non metto in dubbio che possano esistere strategie e interessi politici ed economici -risponde Toni Capuozzo, uno dei migliori inviati in circolazione- e che questo clima possa favorire anche diverse forme di autocensura. Ma ci sono altri aspetti solo apparentemente minori”. Quali? “Persino l’ultimo contratto giornalistico ha sacrificato la figura dell’inviato. Poi c’è la febbre dei grandi avvenimenti e si ritiene poco meritorio lavorare su argomenti meno glamour. Questo mi pare il peccato originale del giornalismo di oggi. Sono processi che indeboliscono la curiosità di chi fa questo mestiere. Parlerei di involuzione, in fondo lo specchio di questa società”. Milena Gabanelli è ruvida e sintetica:” Per fare buone inchieste ci vuole molto tempo, un sacco di lavoro. Studio, verifiche continue, anche qualche rischio. Forse molti non hanno voglia di farsi il culo”. O di farselo fare.

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