Viaggio tra le produzioni indipendenti "fine"

Stefano Mencherini (regista RAI e giornalista indipendente)
Fonte: Avvenimenti n 39 del 2002

“I giornalisti non sono liberi. Non lo sono stati ieri e lo sono ancora meno oggi”. Parola di Daniele Segre, uno degli autori piu’ originali del nuovo cinema italiano che nei propri documentari scandaglia da anni la vita sociale del nostro Paese, le trasformazioni del mondo operaio e la crisi dell’occupazione. Perche’ “che si racconti la realta’ fa paura a tutti”, destra o sinistra che sia, e i condizionamenti subiti dagli editori li conoscono tutti. Anche per questo forse esistono autori, registi, produzioni e distribuzioni indipendenti che si dannano per raccontare e veicolare cio’ che altri non possono o non vogliono. Non hanno vita facile, e’ chiaro. Ma tengono duro.
Proviamo allora a fare un piccolo viaggio tra le loro idee e le loro fatiche, per capire se “dal basso” (inteso come mercato parallelo, di piu’ alta qualita’ ma infinitamente piu’ povero di quello televisivo) c’e’ voglia e possibilita’ di documentare la miriade di contraddizioni, le miserie, la pirateria politica e sociale che assediano la nostra quotidianita’.
Gianfranco Pannone e’ uno di quegli autori che all’estero conoscono molto piu’ che da noi (addetti ai lavori esclusi). Insegna come si realizzano i documentari alla nuova Universita’ del cinema di Roma e parla senza giri di parole:”Per raccontare davvero cio’ che sta accadendo bisogna avere il coraggio di entrare in casa del nemico, altrimenti si perde tempo”.
Lui lo ha fatto, dal suo punto di vista, con “Latina Littoria”, un lavoro sulla citta’ che fu modello non solo urbanistico di Mussolini, dove il sindaco si definisce “francamente fascista” e “mostrando nel suo ufficio un soldatino nazista ne fa l’apologia”. Ci sono anche un prete, uno scrittore operaio, un libraio frustrato e un consigliere comunale comunista nell’ultima fatica di Pannone, proprio perche’ per fare un buon lavoro “si deve tentare di far uscire le contraddizioni senza giudicare”. In quel caso gli e’ andata bene:”Mi e’ stato detto da piu’ parti –continua il documentarista- che oggi un lavoro come quello non avrei potuto farlo. Troppi attacchi a politici della stessa banda che sta al governo”.
“Latina Littoria” e’ stato visto nelle televisioni generaliste di mezza Europa, mentre da noi solo a pagamento su Tele+ che l’ha anche coprodotto insieme alla Fandango.
E siamo sempre –“purtroppo”- alla tivu’. L’unico mezzo in grado di girare ad un pubblico vasto il “prodotto” documentario e di conseguenza garantirgli migliore sopravvivenza. Doc/it, un’ associazione che con una formula intelligente raccoglie autori, registi e produttori indipendenti, ha monitorato che tra Rai e Mediaset la percentuale in ore di programmazione all’interno dei palinsesti e’ dello 0,70 per cento (e si tratta nella maggior parte di documentari naturalistici). Diversa sembra invece la situazione della tivu’ a pagamento.
Sembrera’ paradossale ma “il gradimento d’ascolto che Tele+ ha dal ’97 sui documentari e’ altissimo dice Fabrizio Grosoli che con Luca Pelusi dirige Doc, una linea di soli reportage- con picchi paragonabili a film di successo che vanno in onda sui nostri canali”. Questo ha portato Doc a presentare un documentario ogni martedi’, in prima serata, su Tele+Bianco. Circa 45 lavori ogni anno, di cui un terzo sono italiani e vengono preacquistati o coprodotti dalla stessa emittente. Il che significa per una parte di nostri autori e registi dare una certa visibilita’ al proprio lavoro e poter pensare di andare avanti su quella strada con nuovi progetti. Ma con l’arrivo di Murdoch a Tele+ tutto rimane sospeso.
Ancora Grosoli:” Per il momento siamo fermi e non abbiamo un budget approvato per il 2003”. C’e’ solo da sperare che non sia l’ennesima notte dei lunghi coltelli con la parola fine che scorre sui titoli di coda di un’esperienza unica e necessaria a detta di tutti, telespettatori e operatori indipendenti.
Mario Balsamo, regista che fa parte della “Fondazione cinema nel presente” coordinata da Citto Maselli, denuncia due tipi di censura:”Una del mercato e l’altra relativa alla visibilita’ e al posizionamento dei documentari”. Che detto in soldoni vuol dire: quasi nessuno ti da’ il denaro per produrre perche’ da noi il mercato non esiste e quando cio’ avviene si rischia di non andare in onda o di andarci in orari disumani.
Per questo anche “Il villaggio dei disobbedienti”, l’ultimo lavoro di Balsamo che racconta il nomadismo della protesta del popolo di Seattle da Genova a Porto Alegre, rimane dov’e’: su uno scaffale. Da sottolineare che l’esperienza di cui e’ capofila Citto Maselli (che e’ un pezzo della storia piu’ battagliera del nostro cinema), oltre ad essere una realta’ non profit si avvale di collaborazioni gratuite. Un’ ottima idea quella di chiedere a piu’ registi di lavorare sullo stesso documentario (33, piu’ o meno noti, erano per esempio quelli di “Un mondo diverso e’ possibile”) per rompere gli schemi, tentare di superare le censure e imporsi all’attenzione collettiva con temi volutamente ignorati o distorti dalla grande informazione che ha sempre grandi padroni.
C’e’ pero’ da augurarsi che per il futuro un’iniziativa cosi’ interessante possa, oltre che diventare scuola sul campo per giovani filmakers, uscire dalla logica del volontariato puro almeno verso quei registi che si impegnano per la Fondazione ma per sopravvivere fanno i salti mortali. Energie e idee, comunque, dentro i nostri confini non mancano. Un dato su tutti: al “Sunni side of the doc” di Marsiglia, l’unico festival europeo di soli documentari, lo scorso anno rispetto a quello precedente sono raddoppiati i partecipanti italiani. Ed anche nel nostro Paese si moltiplicano gli spazi che tentano di dare visibilita’ e piccoli riconoscimenti ai lavori dei nostri filmakers.
Basta cliccare su www.ildocumentario.it, il portale diretto da Stefano Missio (che e’ anche un autore), per rendersene conto. La vetrina piu’ importante pero’ rimane sempre quella del “Torino film festival” che anche quest’anno all’interno del concorso “Doc” scegliera’ tra circa 250 titoli il vincitore. Gianfranco Barberi che dirige la sezione con Chiara Andruetto parte da lontano:” Tra gli anni Sessanta e Settanta c’era la corsa ai premi ministeriali con una piccola mafietta di due o tre produttori che si accaparravano tutto. Poi il nulla. In piu’ c’e’ da dire che il nostro documentario non ha una grande storia, un retroterra importante. Forse anche perche’ e’ sempre stato vissuto dagli autori come l’anticamera per arrivare a fare cinema”.
Ma il problema di fondo e’ sempre lo stesso: prima riuscire a finanziare i progetti, poi distribuirli e farli conoscere al grande pubblico. E allora, visto che non si riesce a farne a meno, parliamo di soldi. Se l’ultimo documentario di Kusturica alla “Fandango” e’ costato mezzo milione di euro, per i nostri si parla di tutt’altre cifre: tra i 10 e i 20 mila euro i costi degli autori che producono se stessi (pratica molto diffusa vista la scarsita’ di riferimenti) e tra i 60 e i 100 mila euro le spese che affrontano produzioni piu’ ricche. Tutto dipende dai tempi di lavorazione che spesso durano anche piu’ di un anno, dalle esigenze degli autori e dalle tecnologie utilizzate, ma sono sempre e comunque costi piu’ bassi rispetto agli standard europei.
Il mercato che non c’e’ fa diventare tutti funamboli. Lo sa bene anche Giuseppe Petitto che gestisce la “Karousel films”, una delle tante giovani produzioni indipendenti:”Bisogna sempre avere la forza di proporre prodotti inappuntabili e superiori alla media, altrimenti chiudi bottega”. La Karousel ci sta riuscendo anche grazie a Fabrizio Lazzaretti e Alberto Vendemmiati che con alcuni lavori sull’Afghanistan, seguendo la trincea di Gino Strada e l’impegno di Emergency, hanno fatto razzia di premi in mezzo mondo e andanno presto in onda persino sulla blasonata Bbc con il loro ultimo “Afghanistan: danni collaterali”.
Altri titoli recenti, oltre ai numerosi progetti in fase di ideazione, “Sanpeet” (sulla storia di alcuni bambini tailandesi costretti a fare i pugili) e “Socialmente pericolosi” (sulla realta’ del manicomio criminale di Aversa, in provincia di Caserta).L’unica grossa casa di produzione italiana che ha un occhio di riguardo verso il cinema-documentario e si puo’ permettere budget medio alti e’ la “Fandango” di Domenico Procacci: oltre un milione di euro il fatturato dello scorso anno per la sola linea di documentari, sei lavori dati alla luce sempre nel 2001, sette in fase di sviluppo e l’85 per cento di tutto realizzato insieme a coproduttori esteri.
Da Londra, dove vive e lavora, Carlo Cresto-Dina che per la casa romana e’ responsabile del settore mette in luce un altro neo della situazione italiana:”Mi fa rabbia che non si riesca ad incrinare non una regola di mercato, ma una pessima abitudine. Quella di proiettare documentari nelle sale cinematografiche, magari anche piccole. Il pubblico non mancherebbe, i gestori farebbero piu’ soldi e il confronto con la sala sarebbe anche formativo per gli autori”. La certezza di Cresto-Dina arriva anche da un’esperienza diretta: quella romana del cinema “Il Politecnico Fandango”.
Ma qualcuno che del mercato e’ riuscito sempre a infischiarsene c’e’. Silvano Agosti e’ forse l’unico autore italiano che le proprie opere le autoproduce e le autodistribuisce dopo averle scritte, girate e montate.
Nel suo cinema, l’ “Azzurro Scipioni” di Roma, ha inventato ogni giovedi’ “l’ora di tutti” dove chiunque puo’ proiettare il proprio documentario “ma per il terrore che si sappia in giro nessuno dice nulla”, ironizza. Dai primi anni Sessanta Agosti ha sempre ficcato gli occhi dentro alla realta’: dai “Cinegiornali del movimento studentesco” a “La strage di Brescia”, da “Matti da slegare” a “30 anni d’oblio”. Adesso attacca “C’e’ in giro un servilismo totale. E i media ho capito come funzionano: la loro grande trovata e’ non far nulla. L’istituto Luce e’ gestito senza passione. I giovani sono numerosi, ma troppo spesso il loro lavoro sa di videoclip, figli come non potrebbero non essere della sottocultura televisiva”.
Parole meno dure verso il lavoro delle nuove leve le pronuncia Vittorio De Seta “perche’ quello che accade e’ anche colpa nostra”. Stiamo parlando del “grande vecchio” del documentario italiano, di uno che ha sacrificato tutto pur di portare avanti il proprio lavoro. Classe 1923 sta girando con l’entusiasmo e la curiosita’ di un ragazzino per raccontare storie di immigrati africani, per la prima volta sperimentandosi con telecamere e montaggi digitali:”Lavorare in questo campo e’ stato sempre molto difficile anche per me in tempi diversi da quelli odierni. Ma se si crede nel forte valore sociale del documentario si deve andare avanti. Cercando di non dimenticare una frase del Vangelo buona per tutti: raccontate la verita’ e cio’ vi rendera’ liberi”.

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