ANORESSIA

10 marzo 2001
Stefano Mencherini (regista RAI e giornalista indipendente)
Fonte: Specchio - supplemento de "La Stampa"

Sua nonna le accarezza i piedi. La madre le stringe una mano, quella libera dalla parenterale, la flebo dell’alimentazione forzata. Il nonno ha gli occhi bassi: sembra che non trovi il coraggio di alzarli. Tutti se ne stanno lì, in silenzio, accanto al letto, nella stanza che per pudore è stata lasciata vuota dalle altre due ricoverate e dal personale del reparto. Francesca ha sedici anni e pesa trentadue chili. Le stanno dicendo che suo padre, un agricoltore della bassa romagnola, stanotte si è sparato un colpo in testa con il fucile da caccia. Lui era un uomo sfinito dalla depressione perchè convinto di essere l’unico responsabile della malattia di quell’unica figlia. Mangiato dentro come lei, che di mangiare ha smesso da tempo e così ha scelto di lasciarsi morire.
Lo hanno deciso insieme agli psicologi che era meglio dirglielo subito a Francesca. Perchè per ordine del professor Franzoni, primario della neuropsichiatria infantile dell’ospedale S. Orsola-Malpighi di Bologna, da un po’ di tempo non si potevano più incontrare ma si sentivano telefonicamente almeno una volta al giorno.
“Fino a poco tempo fa Francesca era una ragazza normalissima: bella, brava, forse solo un po’ alternativa” racconta Paola Gualandi, la giovane psicologa che la segue personalmente da quando l’hanno ricoverata, circa due mesi fa. “Sentiva il peso di essere figlia unica e la fragilità del nucleo familiare. Si prendeva delle grandi responsabilità nei confronti dei suoi. Poi, l’anno scorso, da genitore ha voluto diventare finalmente figlia. Ma è stato troppo tardi”.
Da allora ha smesso di mangiare. E adesso le sono tutti accanto, in questa trincea dell’ospedale bolognese, per tentare di farla ricominciare ad alimentarsi, altrimenti “i suoi organi interni perdono funzionalità, la massa muscolare rischia l’atrofizzazione, lei si disidrata e ce la perdiamo”, dicono con un filo di voce.
Lavorano come pazzi nell’equipe di Giovanni Franzoni, un pioniere nella lotta ad anoressia e bulimia. Un uomo che da anni combatte contro il mondo per poter dare un’assistenza adeguata (in un ospedale pubblico) a queste ragazze e alle loro famiglie. Medici, psicologhe, dietiste,tirocinanti dell’università, assistenti sociali e volontari si dividono le emergenze quotidiane. Cercano di rispondere alle centinaia di richieste di aiuto che arrivano da tutta Italia.
Ma non possono fare miracoli: nel reparto hanno a disposizione cinque posti letto “sottratti” ai piccoli con problemi neurologici e nel day hospital soltanto una decina ritagliati in due stanzette di un altro angolo dell’ospedale. Lì stanno, dalla mattina alla sera, Valentina, Marina, Nunzia e le altre. Vengono dalla Calabria, dalla Campania, dalla Puglia, da Roma. E sono tutte inserite in un programma scandito da mille impegni giornalieri: la psicoterapia, i massaggi shiatsu, la danza per tentare di riappropriarsi del proprio corpo, la lavorazione del legno o della ceramica per comunicare senza bisogno di parlare. Ogni cosa ruota in punta di piedi attorno al momento più critico: quello del pranzo.
Maria mi fa dire solo che viene dall’Abruzzo. Sta con un piattino di plastica sulle ginocchia. Dentro, un pugno di riso scondito. Lo muove lentamente con un cucchiaino da caffè. Un po’ a destra, un po’ a sinistra. Centellina chicco per chicco. Muove quel cucchiaino come un chirurgo il bisturi. Sua madre, fuori dalla porta, spera. Spera come tutti gli altri genitori che queste figlie ce la possano fare. Dopo aver percorso una via crucis lastricata di strizzacervelli da trecentomila a seduta, di cliniche private a un milione al giorno o di fattucchiere pronte a togliere il malocchio dopo aver incassato un congruo assegno. Sono famiglie normali quelle di queste ragazze. Le mamme fanno le casalinghe o le impiegate.
Un papà fa l’ufficiale di Marina. Gli altri sono idraulici, meccanici o impiegati anche loro. La famiglia di Antonella ha speso “diciotto milioni per quindici inutili giorni di ricovero in una clinica privata dell’Aquila”. Quella di Margherita l’hanno convinta a mandarla in una clinica Svizzera a trenta milioni al mese dopo essersi indebitata fino al collo. Tutto inutile. “E’ molto difficile lavorare con queste ragazze –spiega Franzoni-. Hanno bisogno di un’assistenza continua da parte di numerosi specialisti. Devono ricominciare a credere in sé stesse e nella vita. I loro non sono problemi che si risolvono con un colpo di spugna, perché vengono da lontano”. Quanto da lontano lo dice Anna Andreoli, coordinatrice del pool di psicologi che affianca Franzoni:”Bisogna ribaltare completamente il discorso.
Smetterla di parlare soltanto di cibo e iniziare a discutere di difficoltà emotive e relazionali. E ricordarsi che quasi sempre alla base di tutto c’è la crisi della famiglia. Una famiglia non vuota di valori, ma affogata di responsabilità, di bisogni aggiunti. Dove troppi genitori credono di dover dare tutto ai propri figli esponendoli ad una grande fragilità”. Sono figli che crescono nell’incapacità più totale di combattere, continua la psicologa. E di fronte al primo no o al primo vero problema si arrendono e si chiudono in sé stessi.
Benina ha lo stesso nome della protagonista di un romanzo di Fogazzaro. Ha il corpo affogato in una tuta sei volte più grande di lei e il viso tirato da cui sporgono gli zigomi. Viene da Salerno.
“Questa malattia è come un cane che si morde la coda”, ti spiattella guardandoti fisso negli occhi. Racconta delle guerre con sua madre, dei rapporti difficili con i suoi quattro fratelli. Dice che lei ha iniziato con “una dieta per gioco”, anche se non ne aveva nessun bisogno. E rispolvera tutta l’ansia, tutta la rabbia che aveva accumulato dentro. Quando è arrivata qui pesava “meno di trenta chili”. Adesso ha già la forza di raccontarti tutto e di mostrare la sua incredibile magrezza.
Ma c’è qualcosa in tutto questo che probabilmente sfugge a ognuno di noi. E non è tanto la loro difficoltà di trovare un aiuto vero o quella di spezzare le catene dell’isolamento dalla vita reale, quanto la paura e la vergogna del mondo nei confronti della loro malattia.
Lo scopri solo chiacchierandoci un po’, ascoltando i loro genitori o qualche volontario della Fanep, un’associazione che sostiene anche economicamente l’operato dell’equipe del professore bolognese. Monica, ventisettenne brindisina che di anoressia e bulimia soffre da circa dieci anni, a causa della malattia è stata licenziata da un istituto di suore dove faceva assistenza agli anziani. Altre denunciano di esser state rifiutate da diverse case d’accoglienza bolognesi, dove cercavano una stanza per poter frequentare il day hospital, perché “questa è una malattia che si vede e ci trattano come appestate”. Andrea Cimino, ricercatore universitario e coordinatore dei volontari, stigmatizza invece il comportamento di molti familiari:”Da tutti queste patologie non vengono considerate come tali, ma soltanto un capriccio, un vezzo, un’invenzione.
Ecco perché poi le ragazze ci arrivano solo quando sono ridotte come larve umane, persone con cui diventa difficilissimo lavorare. Oppure si colpevolizzano, certi genitori. E la vergogna li fa convincere che sia meglio tentare di lavare i panni sporchi soltanto in famiglia”.
Giovanni Franzoni non si rassegna, nonostante tutto. Sta pensando persino di candidarsi con il terzo polo di D’Antoni che glielo ha chiesto qualche giorno fa, in un collegio dove “hai perso ancora prima di cominciare” e solo per uscire allo scoperto e “attirare l’attenzione su un problema che sta scoppiando in tutta la sua drammaticità nell’indifferenza generale”.
Come, lo sottolineano i risultati di una ricerca (autofinanziata) che in ambito regionale ha svolto l’associazione di familiari in collaborazione con il Provveditorato di Bologna. Su 17 mila studenti delle scuole superiori è emerso che il 15 per cento delle ragazze e il 2 per cento dei ragazzi sono a rischio di anoressia e bulimia. Ma c’è un altro dato a destare l’allarme di operatori e volontari: l’abbassamento dell’età. “Negli ultimi tempi abbiamo avuto bambini di otto o nove anni con chiari sintomi di queste patologie -dicono in reparto- compresi alcuni maschietti anoressici”.
Liquidi, sali minerali, proteine per via endovenosa anche oggi tengono appesa alla vita Francesca che negli ultimi tempi aveva smesso anche di bere.
Ci dicono che stanotte ha dormito e che sta, almeno “a caldo”, reagendo bene alla notizia del suicidio del padre. Vicino a lei adesso c’è uno scricciolo di tredici anni che fa fatica a tenersi in piedi. Nella corsia il solito trantran fatto di camici, corse, voci e pigiami. Cento metri più in là in linea d’aria, le ragazze del day hospital hanno finito di pranzare. Le hanno controllate Mara Stella Marino e Tatiana Manca, nutrizionista e tirocinante in psicologia: le anoressiche non mangiano, mentre le bulimiche al contrario “si abbuffano” e vomitano un attimo dopo. Nunzia per un po’ ce l’ha fatta. Poi ha chiesto di uscire a fumare ed è andata a vomitare tutto il fiele che aveva dentro. Quando torna ti guarda come se ti chiedesse di portarla via. Eppure qui sono convinti che ce la farà. Che tutte ce la possono fare.


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