Gente di Valona

Vita quotidiana nella quarta città d'Albania. In attesa di una via di fuga.
Stefano Mencherini (regista RAI e giornalista indipendente)
Fonte: Max
ottobre 2002

Sul tavolo di marmo dell'orbitorio di Valona, l'ennesima vittima dei viaggi della speranza.


Gente di Valona In attesa di una via di fuga.

La chiave fa due giri nella toppa della vecchia porta di legno. Con una mano piagata da una grossa bruciatura la donna la apre e spiana la strada a un nugolo di mosche. La segue un ragazzetto che avrà sì e no una quindicina d’anni. Addosso ha una maglietta con su scritto “New York New York”. Se la stropiccia con le mani sudate e appena dentro sputa per terra. Una, due volte, mentre la donna scopre il corpo di una ragazza bionda senza età e senza nome stesa su un baldacchino di cemento. Lo fa volutamente fin sotto i seni. E tirandosi indietro di alcuni passi alza lo sguardo fino a farlo sbattere col tuo. Come se volesse far sentire anche te colpevole di quella morte.
Il casermone che tra brande arrugginite e corsie improvvisate ospita i diciotto scampati dell’ennesimo naufragio sta a due passi dall’obitorio. E’ una piccola casbah dove si incrociano lamenti e cattivi odori. Questo è l’ospedale di Valona. I feriti di stanotte sono quasi tutti sotto i ventidue anni. Gjergji ne ha quattordici. Segue con gli occhi spiritati le mosse di un’infermiera. “Aveva finito la scuola da poco. In Italia andava dai fratelli!” grida la madre. Ma Gjergji se la caverà. E la paura più qualche punto di sutura non gli impediranno certo di ritentare la traversata. Lo fanno tutti prima o poi. Lo rifarà anche lui. L’altro che invece ci ha lasciato la pelle su quel gommone è Ilir Filo Idrizi, trentatrè anni, due figli, tre stanze in affitto a Babica, un villaggio che è quasi un quartiere in cima alla città.
I suoi lo hanno portato via all’alba, appena il tam tam delle voci è arrivato fino alla loro porta. E adesso lo piangono come vuole la tradizione. Con gli uomini in una stanza seduti sui tappeti a fumare e sgranare il Tespie, uno scacciapensieri simile ad un rosario, e le donne in nero in un’altra, accalcate sulla bara ancora aperta. Ancora sudore, mosche e lacrime per un uomo che faceva il direttore di una scuola nel villaggio di Mallkeq. Uno che il clandestino lo avrebbe fatto a casa di un cugino. Soltanto per una stagione, magari quella dei pomodori, per arrotondare quei 15 mila lek di salario statale, poco meno di 110 euro, che non potevano bastare alla sua famiglia.


“Siamo qui a piangere la nostra sorte e non sarà l’ultima volta”, chiosa un vecchio. ”Vogliamo sapere chi l’ha ucciso. Qua siamo 140 uomini armati di tutto, pronti a sparare contro i militari italiani”, sibila un giovane. E dall’altra stanza si levano ancora più alti canti e lamenti di parenti e prefiche. Il notiziario della sera di “Amantia tv”, una piccola televisione locale che si vede a sprazzi, sarà ancora più esplicito:”Gli italiani uccidono di nuovo. Sono anni che lo fanno in terra e in mare. Ci hanno fatto solo promesse. Ci hanno dato solo poliziotti e soldati.
Lo faranno ancora perché nessuno protesta, nessuno li ferma”. Gli uomini della Finanza di stanza a Saseno, un’isoletta strategica proprio di fronte alla baia di Valona, saranno chiamati da un magistrato albanese e ovviamente negheranno tutto: nessuno sparo ai motori del gommone durante un’ ordinaria missione di respingimento, nessuno speronamento volontario. Solo un incidente causato dalla follia degli scafisti. Uno dei tanti. Per due o tre giorni in mare cercheranno i dispersi che in situazioni del genere non mancano mai. Per due o tre giorni l’aria di Valona sarà un pò tesa. Per due o tre giorni. Poi tutti dimenticheranno tutto.
Ilir Mati, l’intellettuale che in questi giorni ci sta accompagnando nelle contraddizioni valonesi, guadagna l’uscita e fa puntare la piccola jeep verso la città. Al volo caccia una cassetta nello stereo, un Grundig che sta insieme con lo sputo. A tutto volume. “Lasciatemi sfogare”, dice torcendo lo sguardo. E il mare riappare dietro al fumo dell’immondizia che brucia sul ciglio della strada.
Da oltre un decennio Valona è un luogo in guerra con se stesso che vive e si crogiola delle sue contraddizioni. Lo è stato nei primi anni Novanta, quando ha iniziato a giocare con “Lamerica” che stava a quaranta miglia di mare. Lo è stato nel ’97 , quando ha guidato le prove generali di una guerra civile contro l’allora presidente Sali Berisha e la beffa delle finanziarie.
Così due anni dopo, quando per i “fratelli” kosovari i torpedoni salivano fino a Kukes e a suon di marchi pianificavano il viaggio di chi fuggiva dalla guerra, gommone compreso. 150 mila abitanti contro i tre milioni scarsi dell’intera Albania fanno di Valona la quarta città del Paese (ma i numeri da queste parti continuano a darli un tanto al chilo perché non c’è anagrafe o censimento minimamente attendibile). Solo quattro sono i deputati nel parlamento di Tirana. Circa la metà dei valonesi non paga un lek per luce e acqua che in questi mesi esce dai rubinetti solo per un’ora alle sei del mattino e alle sei del pomeriggio. Dicono, per colpa dei contatori che non ci sono. Ma malaffare e corruzione sembra che costituiscano ancora oggi ossa e muscoli della città dove i vecchi scafisti sono diventati piccoli imprenditori, i loro padroni ricchi possidenti con trame in mezzo mondo e i regolari, poveri sempre più poveri.
Anche oggi che il grosso del traffico di esseri umani si è spostato più a Sud tra Grecia e Turchia e che i gommonioperativi non sono più di una ventina contro i 220 degli anni d’oro, gli Abazi, i Brokaj, i Memuchi, i Panajoti, gli Shehu continuano a fatturare tra gli otto e i dieci milioni di euro all’anno. A famiglia. E gli articoli sono sempre i soliti: eroina, cocaina, marijuana e armi. Solo che adesso viaggiano in tir e container. Un mare di soldi che serve a cementare consensi, anche politici, a creare un indotto di posti di lavoro e apparente benessere, a comprarsi l’impunità. Tutta roba che dalle nostre parti tra mafia, ‘ndrangheta e camorra dovremmo ricordare bene. E’ così che cresce Valona, che si alzano gli scheletri di trenta palazzoni che visti da queste case basse sembrano grattacieli.
Con i vecchi Iveco dell’Atm di Milano o dell’Atc di Bologna che alzano nuvole di polvere sul vespaio di Mercedes e Audi e fiammanti fuoristrada giapponesi e vecchi muli al traino di improbabili carretti. Dentro a un film che a tratti pare la copia di una pellicola del neorealismo nostrano e un attimo dopo già sconfina nell’assurdo, drammaticamente e comicamente reale, di un lungometraggio di Kusturica.
“Ti mangerei un occhio” è l’equivalente albanese del nostro “mi piaci”. “Ti voglio, cagna”, la dichiarazione d’amore. Nonostante un alfabeto da 36 lettere qui non si riesce o non si vuole trovare di meglio. “Non ho fiducia in questi uomini, non sono innamorata, non voglio rischiare di fare la prostituta”. Elsa Vero ha ventiquattro anni e gli occhi neri.
Un bel viso e un corpo dritto e sensuale. Fa la kapò per 130 euro al mese nella ditta di Vittorio Giannetta , il più vecchio imprenditore italiano di Valona, che sforna biancheria intima per la Liabel e per la Ragno. Elsa controlla, striglia e perquisisce all’uscita almeno la metà delle 220 compagne di lavoro:” Prima mi odiavano, adesso lavorano e basta”. “Se fosse per loro se ne starebbero con le mani in mano dalla mattina alla sera –borbotta Gina, la moglie del principale- e poi parlano, parlano. E rubano, anche. Si nascondono slip e maglie di lana dappertutto! Noi preferiamo le piccole, tra i quindici e i sedici anni. A venti hanno già il cervello chiuso”. Per dirla tutta:”Vittorio a Valona è stato un padre Pio, ma vaglielo a far capire a queste qua”.
Intanto lui, Giannetta, il santo in salsa italoalbanese, ha sistemato anche la figlia con un’altra fabbrichetta di calze più a Nord. E continua a sgobbare per caricare un camion in partenza per Brescia. Ce l’ha con consolato e ambasciata “che continuano a lasciarci soli”. Con chi sta indagando su di lui per un presunto traffico di visti:“Proprio a me che ho sempre cercato solo di fare del bene”. E con chi tenta di vendere la città per ciò che non è:”Dal Novanta qui non è cambiato nulla, ci sono solo meno kalashnikov al vento. Il turismo? Gli alberghi? Tutte cattedrali nel deserto”. Per questo anche Elsa ha già messo da parte almeno la metà di quei 7 milioni di lek che le servono come garanzia bancaria per poter chiedere un visto e sperare di sbarcare a Modena dove suo fratello lavora già da qualche anno.
In fondo oggi Valona sembra proprio uno spaccato di provincia italiana, neppure troppo datato. Non solo perché ogni famiglia oltremare ha almeno un parente stretto che la finanzia con un mensile sicuro o perché nonostante tutto i rischi dell’emigrazione, legale o no, rimangono ancora il minore dei mali. Non solo perché il palazzo comunale è un edificio di mussoliniana fattura. Italiani sembrano i politici come Theodori Shia, segretario cittadino del partito socialista (quello che governa il Paese) che assume una postura da dibattito televisivo e blatera di città cosmopolita, di investimenti stranieri, di rilancio del turismo. Italiano sembra lo struscio dei giovani in ruga Skele, la strada del porto, tutti rigorosamente divisi tra maschi e femmine.
Senza un cinema però, o una discoteca dove incontrarsi la sera. Perché dopo le nove in giro trovi solo qualche scafista in pensione che si sfonda di rakì, la grappa albanese. Come Elton, che racconta di essersi riciclato in speaker di una sala Bingo e incensa Berlusconi e Fini “perché Prodi è comunist!”.
“Iniziative scientifiche dell’Ambasciata d’Italia: un piano nazionale di turismo alternativo e sostenibile. Il turismo verde e i parchi naturali” è lo strillo della locandina semistrappata sul palazzo della prefettura. Niku e i suoi amici sono turisti. Vengono dalla capitale, per un fine settimana, coi soldi dei genitori. Mangiano pannocchie sul lungomare e ridono coi denti anneriti dal mais abbrustolito. Si abbuffano di kosi, una salsa di yogurt e aglio.
La sera, in albergo, chiamano il numero che Amantia tv manda nello spot di una chat line e si fanno la signorotta di turno. “Ma se chiamate –suggeriscono premurosi- fate telefonare un albanese altrimenti vi chiedono tre volte tanto”. Altri turisti buoni per ogni stagione, sono quelli che trovi nel quartiere Muradie, accanto alla vecchia moschea. Vengono da tutta la regione e sostano di fronte al consolato italiano tre volte alla settimana. Colombo ha un contratto da muratore per un anno con una ditta di Milano dove lavorano i fratelli: aspetta il visto da quattro mesi. Bindi ha un contratto di sei mesi come agricoltore vicino a Vicenza: spera di farcela dopo tre mesi di attesa. Auron, quindici anni, sta col padre muratore a Firenze: ricongiungimentofamiliare, non ricorda quando sono iniziate le pratiche. E così via.
Lo scorso anno questo consolato ha concesso 12.700 visti. Ne erano stati richiesti quasi 80 mila.Lori Gjeci vuol fare l’attrice. Prova “I vermi” di Bukowsky nella Casa della cultura, un vecchio edificio del regime di Enver Hoxha con vecchi muri scrostati e tre vecchi custodi a veder crescere le erbacce. Lei in Italia non ci pensa nemmeno a tornarci:”C’è troppo razzismo verso di noi, meglio la Germania”. E dai suoi diciannove anni tenta un’analisi della sua gente: ” Semplice, vera. Il problema è la mentalità dei giovani. Sono schiavi del vecchio, non combattono”. E forse sono cresciuti troppo in fretta. Ano, diciassette anni, decanta le sue imprese da “bandito buono”.
Racconta di quella volta che è andato a Tirana e ha sparato alle gambe del malavitoso che a un suo amico aveva rapito la figlia di dieci anni. Di quando ha recuperato i soldi, rapinati a un avvocato, che servivano per tirar fuori dalla galera uno scafista. “Sei più furbo degli altri solo se sei povero”, dice. E ti mostra la mucca della sua famiglia insieme all’orto della zia che per arrotondare, tra mais e pomodori, tira su qualche pianta di marijuana.
Uno di quelli che si godono “il grasso accumulato” è Luan Toto. Per la giustizia italiana è un latitante con sette anni definitivi da scontare. Otto li ha passati su quei mostri di gomma tra gli undici e i tredici metri, con la chiglia in vetroresina e quattro motori da 250 cavalli ciascuno, a fare avanti e indietro con le coste salentine.
Anche col mare a forza sei. Dice di aver fatto almeno 500 viaggi. Lo hanno preso quattro volte e per quattro volte ha ripreso a schizzare a 50 nodi sul pelo dell’acqua con mezzo mondo sopra al gommone. 25 mila euro a botta, il 20 per cento in tasca sua. A sentir lui Gjergji sembra un alieno mentre in bilico su una trave, a sette metri d’altezza, con mazza e scalpello recupera pezzi di ferro dal cemento armato che venderà per una manciata di lek. La mattina riempie bombole di gas e ogni pomeriggio si arrampica in quello che era un gioiello dell’industria chimica del regime, dove anche i mattoni sono stati tolti uno a uno per costruire le case dei malok (“i montanari” scesi dal Nord in cerca di fortuna).
“Non c’ho culo per fare lavori sporchi perché ho due figli. Ho anche paura del mare. Ma se Gjergji poteva andare in Italia lavorava più di qualsiasi italiano”.
“Policia & Business” è il cartello che campeggia in uno stanzone del commissariato. L’occasione è la consegna di dieci computer che gli imprenditori valonesi donano alla polizia della città e non lo strillo di un’inchiesta dove si parla della corruzione nelle forze dell’ordine che i bene informati danno intorno all’85 per cento. Neritan Nallbati, da pochi mesi nuovo capo della polizia, vuol far dimenticare un suo predecessore, Sokol Kociu, in carcere per traffico internazionale di cocaina e i tanti ufficiali e agenti accusati di favoreggiamento e collusioni varie. E’ da lui che impariamo dell’ “operazione mietere il grano”.
Marijuana coltivata in zona in grande quantità: una pianta produce un chilo di erba, 650 mila le piante distrutte fino ad oggi, 15 mila euro all’anno gli “spiccioli” che vanno in tasca al contadino di turno. Appuntamento tra due giorni alle sette in punto. Alle otto e un quarto, dopo “il tempo per bere un caffè”, il piccolo convoglio si mette in marcia verso il villaggio di Peshkepi, quaranta minuti di buche nell’entroterra valonese. La prima sosta arriva circa dieci minuti dopo per il byrek, una cialda fritta farcita di carne o verdura. La seconda per strada, quando il traballante Wolksvagen degli agenti viene fermato da una Mercedes dove qualcuno grida a qualcun altro che domani è invitato al matrimonio del figlio.
Mjrteza che non ha ancora compiuto trent’anni è stato nove volte in Grecia e tre in Italia, sempre come clandestino. Ma gli è andata male ogni volta e alla fine ha fatto una domanda ed è entrato in polizia per 120 euro al mese. ”Mi avete sempre cacciato perché non ho scopato le vostre sorelle”, provoca. Poi, visto che non attacca, ridimensiona un pò:”Siete razzisti. Noi vogliamo solo poter venire da voi come voi venite qui, liberamente”. Il gruppo si ferma in mezzo alla strada. Una decina di agenti scendono e cominciano a parlottare tra loro con gli attrezzi da lavoro in mano. Bisognerebbe continuare a piedi. Ma qualcuno dice che ha piovuto, che la terra è troppo bagnata, che hanno addosso la divisa buona. Altri si lamentano perché stanotte hanno lavorato fino a tardi.
Altri ancora parlano di lek promessi appositamente “per la mietitura” e mai arrivati. E insieme improvvisano il primo sciopero del kos, il falcetto artigianale che avrebbero usato per tagliare un pò d’erba. Sono le nove e mezza: per oggi si chiude bottega. Mancano solo altre due notizie. La prima, ufficiosa, dice che i colombiani hanno appurato che da queste parti c’è il clima ideale per la coltivazione della coca. La seconda, ufficiale, la gracchia la radio di stato albanese: il parlamento di Tirana ha votato all’unanimità la partenza di un contingente di militari per l’Afghanistan.

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