I giornalisti RAI alzano schiena e voce ...

Allora dai, ragazzi.
Il sole è alto e la primavera dei diritti anche nell' informazione sta per arrivare. Dipende anche da voi, da tutti voi, che si senta forte e chiara la protesta civile
contro i soprusi di ogni genere che assediano la nostra umiliata professione.
Per una pace vera e duratura. Contro ogni guerra preventiva. Anche quelle dentro ai nostri confini. E contro ogni censura.
Per quello che ci riguarda come giornalisti salentini, pugliesi,
e come italiani che amano anche la propria bandiera, che non ha -ricordiamolo- un colore solo, si scenda in strada, nei vicoli, nelle piazze. Si occupino le redazioni con iniziative di protesta. Si chiedano garanzie ai propri editori e ai propri direttori. Si denuncino ricatti, marchette e soprusi che inquinano anche le intelligenze e le sensibilità di tanti colleghi che hanno meno forza di noi per alzare schiena e voce.
Con le istanze che ognuno ritiene prioritarie.
Ma lo si faccia subito, come chiedeva,commuovendosi,ieri sera a Mesagne padre Alex Zanotelli. Perchè non c'è più tempo.
s.m.

Riccardo Chartroux
Fonte: Articolo21

Cosa spinge un gruppo di giornalisti che lavorano in Rai a mettersi insieme, a darsi collettivamente un nome che è uno slogan, cosa c’è dietro quando all’idea di pochi si associano in tanti, famosi e sconosciuti, affermati e alle prime armi? Poche semplici cose.

Il disagio innanzitutto, il disagio che in tanti proviamo ogni giorno. Guardiamo i nostri programmi e i nostri telegiornali, ascoltiamo i nostri giornali radio e ci diciamo: così non va. Non è solo una questione di quanti secondi parlano il politico che ci piace e quello che ci piace meno. Il ruolo degli inviati vissuto sempre più con fastidio, l’utilizzo padronale di contratti a termine e colleghi ricattabili e ricattati, lo stravolgimento della gerarchia delle notizie, la sudditanza rispetto ai circuiti istituzionali delle notizie: agenzie, uffici stampa, soggetti forti capaci di imporre l’agenda del giorno e ancora le grandi agenzie internazionali che ormai fanno la gran parte delle nostre pagine esteri e ci impongono il loro racconto del mondo. Si potrebbe fare un convegno di parecchi giorni solo per descrivere la decadenza del nostro mestiere, e forse lo faremo.

Schiena dritta vuol dire quindi, per cominciare, alcuni semplici sì e no. Sì alle notizie, no alla loro manipolazione a fini personali e di parte. Sì al racconto dell’Italia e del mondo, no alle rappresentazioni di comodo, sì al mondo reale e no al pluralismo fatto di verità contrapposte che si legittimano solo per il potere cui fanno riferimento. I tecnici ci dicono che un giorno la grande rete integrata globale metterà tutti sullo stesso piano, e il racconto di Enzo Biagi varrà quanto quello di qualsiasi blog, e che la moltiplicazione delle voci ci darà il pluralismo e la libertà. Non credo che sia così, credo alla funzione sociale di una categoria professionale il cui lavoro è raccontare e garantire credibilità. E condizione essenziale perché questa categoria sopravviva è che sappia dimostrare, appunto, di avere la schiena dritta.

Ma schiena dritta è un’esortazione da rivolgere soprattutto a noi stessi. Perché se non ci sono più le inchieste, se le domande non si fanno quasi più, se non si raccontano il mondo vero e la vita vera la colpa è anche nostra: troppo spesso in passato siamo stati disattenti, e troppo spesso chi cercava di remare in direzione contraria restava isolato. La schiena non sempre, non tutti l’hanno tenuta dritta, e questo dobbiamo dircelo molto chiaramente. Allora metterci insieme in rete serve a tutti per riflettere e per sentirsi più forti, meno isolati: colleghi che vengono da diversi percorsi umani, culturali, professionali, e si ritrovano uniti, scoprendo di condividere lo stesso disagio. Ma serve anche per dire alla gente che ci paga lo stipendio: guardate che in Rai c’è tanta gente che tira la carretta e cerca di fare del suo meglio, serve per dire ai cittadini: questa roba per cui vi chiediamo il canone è vostra, è un patrimonio del Paese, e se non piace a voi, bè non piace nemmeno a molti di noi e qualcosa per cambiare si può fare.

Che cosa? Innanzi tutto partire da una considerazione: la televisione pubblica è un asset strategico per una democrazia europea avanzata. Lo dicono gli accordi europei di Amsterdam, che riconoscono la possibilità di finanziamento al servizio pubblico in eccezione parziale delle norme sulla concorrenza. Lo dicono ad esempio tre quarti dei cittadini britannici che, interpellati sulla riforma della BBC hanno detto: il canone (un canone molto più alto di quello italiano) vogliamo continuare a pagarlo, perché la BBC ci dà notizie affidabili, sostiene la nostra cultura in patria e all’estero, rappresenta con tutti i suoi limiti le tante anime del nostro Paese. Hanno potuto dirlo perché in occasione del rinnovo decennale della Royal Charter, lo statuto della BBC, il governo Blair ha promosso un grande dibattito nazionale sul futuro del servizio pubblico. Hanno partecipato i vertici dell’azienda e il governo, una commissione di esperti ma soprattutto il pubblico, consultato attraverso questionari online che hanno avuto migliaia di risposte da singoli individui come da associazioni e forze sociali, e anche attraverso assemblee nelle principali città.

Si può immaginare qualcosa del genere anche in Italia? Si può immaginare che, invece di restare chiuso nei convegni degli esperti o nelle segreterie dei partiti, il dibattito sul futuro del servizio pubblico radiotelevisivo coinvolga quelli che questo servizio pubblico lo pagano, i cittadini? Noi speriamo di sì e cercheremo di stimolare questo dibattito, di creare collegamenti con tutti quei corpi intermedi in cui si esprimono alcune delle istanze più vive della società italiana: dai sindacati alle ONG, dalle università alle associazioni dei lavoratori della radiotelevisione e dello spettacolo.

Noi per parte nostra partiamo da una considerazione semplice: l’ultima riforma del settore, la legge Gasparri, non ci piace. Perché non prepara la Rai a competere nel nuovo mercato che ormai si profila, e perché lega indissolubilmente la nomina dei vertici alle scelte del governo e dei partiti. Lungi da noi condurre una battaglia populista in nome dell’antipolitica. La tendenza a individuare la sola possibilità di garanzia nei corpi svincolati dal consenso popolare non fa avanzare la democrazia. Il Parlamento è l’organo in cui si incarna la sovranità popolare, spetta al Parlamento dettare gli indirizzi anche per quanto riguarda il servizio pubblico radiotelevisivo. Altra cosa è però la gestione diretta, che (come si è fatto in Gran Bretagna) deve essere separata dalle funzioni di controllo e indirizzo. I cittadini devono avere ben chiaro che non potranno avere un servizio pubblico degno di questo nome fin quando la carriera dei singoli dipendenti, dal direttore di rete e di tg fino all’usciere, le scelte editoriali, persino le scalette dei notiziari o i nomi degli ospiti dei talk show saranno decisi in base alla dialettica tra i partiti. Un servizio pubblico così governato non rende un buon servizio alla democrazia e nemmeno agli stessi partiti politici.

Ma perché la Rai diventi o torni a essere un servizio pubblico all’altezza dei suoi compiti ha bisogno di uno statuto di garanzia. Le soluzioni possibili sono tante, noi abbiamo scelto come battaglia simbolica quella per la cositituzionalizzazione del servizio pubblico, raccomandata in Francia con il rapporto Clément e di cui si parla da qualche tempo in Italia. Pensiamo a una sorta di articolo 21 bis, che dica: lo Stato garantisce e organizza con legge il servizio pubblico radiotelevisivo ispirato a criteri di pluralismo, libertà e indipendenza. Su questo noi dovremo trovare gli strumenti per chiamare a esprimersi gli esperti, ma soprattutto gli spettatori muti della riforma: il pubblico.

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