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Messina e la Folgore. “A chi l’Università?” “A noi!”

Due ricercatori dell'Università di Messina messi alla gogna da centinaia di parà per aver pubblicato una ricerca sociologica sulla formazione parafascista all'interno della Brigata "Folgore". Invece di essere difesi e sostenuti dai colleghi accademici, il Centro per cui operano li caccia via e oscura dal proprio sito web il loro lavoro.
24 febbraio 2013
Fonte: I Siciliani giovani - 21 febbraio 2013

All’Università degli Studi di Messina comandano pure quelli della Brigata Folgore. Anni addietro in tanti ci avevano messo gli artigli: massoni, ‘ndranghetisti e faccendieri, ordinovisti e avanguardisti, procacciatori di voti e clientele, le grandi aziende farmaceutiche e di costruzione, perfino le società arricchitesi con il mito del ponte sullo Stretto. Adesso arrivano pure i vecchi e i nuovi parà a dettar legge, imporre liste di proscrizione contro qualche docente e ordinare il disconoscimento e la rimozione delle ricerche scientifiche sgradite.

Casus belli la pubblicazione nel gennaio 2012 nei quaderni del “Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto, dell’Informazione e delle Istituzioni Giuridiche” (CIRSDIG) di un saggio dal titolo Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane. Autori i sociologi Charlie Barnao e Pietro Saitta che articolano la ricerca sulla base del racconto autobiografico sul servizio di leva che il Barnao stesso svolse dal settembre 1993 al settembre 1994 nella Brigata Paracadutisti Folgore (i primi due mesi nella Caserma addestrativa di Pisa e il restante periodo nel 186° Reggimento di Siena), arricchito da alcuni ritorni sul campo e interviste a testimoni privilegiati tra il 2000 e il 2009.

La ricerca ha inteso dimostrare come il processo addestrativo che si svolge nel Corpo dei parà sia concepito per formare “personalità autoritarie e semi-apertamente fasciste”. In particolare vengono analizzati rituali, pratiche e meccanismi adattativi tipici dell’organizzazione militare ma anche la modalità di riproduzione ed espansione del background culturale di coloro che transitano poi dalle file dell’esercito a quelle delle forze dell’ordine (polizia, carabinieri, ecc.) interagendo con la popolazione civile sia in scenari di routine (pattugliamento, assistenza, pronto intervento) che di ordine pubblico. Per Barnao e Saitta la professionalizzazione e la sostanziale commistione di ruoli, attitudini, pratiche e ideologie delle forze armate e di polizia rappresentano un grave pericolo per la tenuta della debole democrazia italiana e per i diritti di libertà dei cittadini. “E la Folgore costituisce un modello di riferimento per il dispositivo sicuritario nazionale, rivolto al fronte interno come a quello esterno”, spiegano i ricercatori.

Le pratiche quotidiane di formazione dei giovani parà, sin dal loro ingresso nell’istituzione, sono segnate da deliberati, ricorrenti e gravi episodi di violenza. “Si inizia con l’azzeramento delle abitudini acquisite, della cancellazione dell’orizzonte valoriale e normativo precedentemente appreso”, scrivono Barnao e Saitta. Lo scenario in caserma è quello magistralmente descritto nel film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick: ordini urlati, annullamento di qualunque individualità, azioni imposte dai superiori in modo apparentemente illogico e per ragioni incomprensibili, ecc. “L’appellativo più usato per indicare l’allievo paracadutista è quello di mostro. Si è mostri perché si è vestiti con taglie sbagliate, con baschi troppo grandi o troppo piccoli, con divise che deformano. Si entra in quella terra di nessuno in cui non si è né carne né pesce, né civili né militari, né fanti né paracadutisti”. A sancire e rinforzare il passaggio verso lo status di paracadutista c’è un rituale d’eccellenza: si tratta della cosiddetta “pompata”, una serie infinita di piegamenti sulle braccia, eseguita dai giovani su ordine diretto di un superiore. Per forgiare ed esaltare la forza bruta, muscolare, piegandosi con busto e braccia davanti all’autorità assoluta dei capi.

Ci sono poi le piccole e grandi tragedie della recente storia d’Italia, a partire dalle missioni di guerra in Corno d’Africa nei primi anni ’90. Il diario rivisitato di Charlie Barnao riporta alla primavera del 1994 quando nella Caserma Lamarmora di Siena i parà rientrati dalla Somalia erano soliti raccontare impunemente i crimini commessi contro la popolazione. “Si vantavano di avere sparato e ucciso a freddo un gran numero di somali e raccontavano di stupri e pestaggi fatti per rappresaglia. Gli abitanti erano solo sporchi negri”. Nei racconti dei reduci c’era l’esplicito riferimento al “forte permissivismo” dei comandi italiani per l’uso di hashish e marijuana, sostante notoriamente disinibenti. E Barnao ricorda pure la grande delusione provata dopo un colloquio con il cappellano militare, alla vigilia della partenza di un nuovo contingente per la Somalia. “Gli chiedemmo di parlare della morte o di che significa uccidere un uomo per la patria o per una missione umanitaria. Il sacerdote ci rispose che doveva attenersi strettamente alla circolare ricevuta: i punti della discussione dovevano essere il linguaggio volgare e l’uso esasperato dei giornaletti porno nelle camerate. Cioè le bestemmie e le masturbazioni”.

La pubblicazione online della ricerca sulla costruzione delle personalità fasciste nelle forze armate ha scatenato le proteste e le manifestazioni di dissenso di numerosissimi (ex) appartenenti alla Folgore. In pochi mesi la casella di posta del Centro universitario messinese è stata letteralmente bombardata da centinaia di e-mail che invocano la gogna per i due ricercatori. Oltre 500 parà hanno sottoscritto una petizione al Rettore dell’ateneo Francesco Tomasello e al CIRSDIG. Giù le mani dalla Folgore! il leitmotiv. “L’articolo millanta una qualche pretesa di scientificità”, scrivono i militari. “Anche ad una prima lettura da parte di non esperti nella sociologia, esso appare viziato da gravi difetti metodologici, da interpretazioni estreme, da una carenza totale di fonti oggettive e, più in generale, da manifesta superficialità nell’affrontare le varie tematiche e nel riportare fatti senza verifiche”.

Nei siti web che rilanciano la petizione imperversano le note di disprezzo a firma dei parà. Un lavoro mediocre finalizzato ad acquisire unicamente un titolo utile alla carriera universitaria, scrive uno. Per molti altri si tratta di fantascienza di serie C, collage di luoghi comuni e leggende da radio naja, abominio metodologico, squallide menzogne e calunnie, considerazioni scellerate, false, miserevoli e villanzone, chiacchere dei quaqquaraqquà” e, perfino di illecito grave e falso ideologico. C’è poi chi si spinge a etichettare il libello quale frutto della cultura egemone di stampo marxista, dottrina scientificamente orientata e programmata per la disinformazione e la mistificazione della realtà a fini politici. Ovviamente non mancano le bordate e le folgori contro i due ricercatori, affetti da vanagloria pseudoscientifica e che certamente si possono trovare tra i delinquenti che vanno alle manifestazioni in assetto di guerra. Per il comandante Vincenzo Arcobelli, presidente del Comitato tricolore per gli italiani nel mondo (sezione Nord America) Barnao e Saitta sembrano elementi del disciolto, per fallimento, KGB di sovietica memoria. Ma è soprattutto il sociologo ex parà a finire nel mirino. Rompere l’omertà significa tradire e rinnegare lo spirito di Corpo e il senso del cameratismo. I suoi istruttori di Lei non hanno fatto né un soldato né un uomo, si rammarica un ex militare.

La valanga d’insulti non ha però indignato né preoccupato gli accademici peloritani e i due ricercatori hanno atteso invano qualsivoglia espressione di solidarietà e vicinanza. A far precipitare gli eventi, giunge la pubblicazione il 7 dicembre del 2012 di un articolo su Il Giornale, dal titolo “L’università di Messina infanga la Folgore”, pieno di invettive contro il saggio e i suoi autori. Per inficiarne il rigore scientifico, il quotidiano berlusconiano si rivolge a Marco Orioles, insegnante di sociologia del giornalismo presso la Facoltà di lettere dell’Università di Verona, già tutor nel 2005 di un progetto-convenzione tra l’ateneo di Trieste e lo Stato Maggiore dell’Esercito. “Si tratta di una grande bufala teoricamente debole e metodologicamente azzardata, che denota un grandissimo velo ideologico”, accusa Orioles. Barnao e Saitta sperano in una replica dell’università a difesa della libertà di pensiero e di ricerca e invece il prof. Domenico Carzo, direttore dei Quaderni CIRSDIG, con una nota ufficiale prende le distanze dai due sociologi e rincara la dose. “Rammaricandomi dell’omissione della doverosa vigilanza, determinata da una mal riposta fiducia, rendo noto che il testo è stato pubblicato senza la mia autorizzazione ed a mia insaputa dal redattore dr. Pietro Saitta, che gestisce operativamente il sito”, scrive Carzo. “Il testo in questione, contrariamente alle regole dei Quaderni, non è stato preventivamente sottoposto alla procedura di referaggio anonimo, quindi è stato eliminato dal sito stesso. Informo, pertanto, di aver già provveduto a rimuovere dall’incarico il dr. Saitta, di concerto con il Comitato Scientifico”.

Il sociologo messinese fornisce però una versione dei fatti ben diversa. “L’articolo raccoglie i lavori di un seminario pubblico, tenuto nel dicembre del 2011 presso il Dipartimento “Pareto” dell’ateneo peloritano”, spiega Saitta. “Per posta elettronica il successivo 27 gennaio avvisai il direttore e tutti i colleghi del nuovo inserimento. A distanza di qualche giorno ricevetti la sua approvazione e pubblicai l’articolo sul sito. Il prof. Carzo pagò le stampe di alcune copie da depositare presso le biblioteche nazionali e regionali e pure le spese di spedizione”. Saitta spiega di essersi volontariamente dimesso dal CIRSDIG il 13 novembre 2012, prima cioè dell’articolo de Il Giornale, in ragione di alcuni “accesi dissapori” sulla linea editoriale. “Comunque è abbastanza curioso che un articolo capeggi nella pagina web di un’istituzione per un anno senza che il suo direttore se ne avveda. La vicenda dimostra che i nostri sono tempi molto tristi per la libertà accademica, non solo in ragione degli attacchi esterni, ma anche e sopratutto per l’incapacità di alcuni di saperla difendere”.

A più di 13 anni dalla prima pubblicazione del “diario” sull’esperienza militare di Charlie Barnao, l’intolleranza verso coloro che hanno l’ardire di analizzare valori, atteggiamenti e comportamenti all’interno delle forze armate è ancora la stessa. Guai poi a stigmatizzarne le ideologie pretoriane e parafasciste. Un certo spirito nostalgico per il Ventennio aleggia tra le caserme e i reparti della Folgore. Le sue radici storiche risalgono ai “Fanti dell’aria Libici”, voluti subito prima della seconda guerra mondiale da Italo Balbo, fedelissimo di Benito Mussolini, già Ministro dell’Aeronautica e Governatore generale della Libia.

Charlie Barnao ricorda che il comandante della sua compagnia aveva tatuato sul petto la testa del Duce e che “non erano rare” le svastiche impresse sulle braccia dei parà delle varie compagnie. Anche certi canti dei commilitoni rispecchiavano una simpatia diffusa per l’estrema destra. “La più importante delle canzoni, Avevo un camerata, coronava il rituale di congedo dei parà”, aggiunge il sociologo. “Pochi dei congedanti sapevano però che era la versione italiana di una delle più note canzoni cantate dai nazisti, Ich hatt’ einen Kameraden. Ideale per sancire la conclusione di un percorso educativo autoritario come quello della formazione di un giovane paracadutista”.

Un legame nero pluridecennale che a leggere alcuni commenti in calce alla petizione online contro Barnao e Saitta, sembra non essersi mai interrotto. “Romantici, idealisti, interventisti, Dannunziani? Se fedeltà, rispetto, onore e lealtà hanno questo significato, allora sì, possiamo considerarci tali”, scrive un ex ufficiale paracadutista. “Se poi amare il proprio Paese, la propria cultura e le proprie tradizioni significa essere fascisti, bene sia, piuttosto che rinnegare tutto a vantaggio dell’ipocrisia congenita in coloro che rinnegano l’amor di Patria”. E per epigrafe una velata minaccia. Ora sì, lasciamo pure che abbaino alla luna. Noi rimarremo qui, all’erta, sempre pronti alla difesa dei valori e dei principi in cui crediamo.

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