Diritti Animali

Uno dei primi manifesti del vegetarianesimo

I dispiaceri della carne secondo Porfirio

3 agosto 2005
Claudia Gualdana

Sul sarcofago di Plotino, l'effigie del grande filosofo delle Enneadi compare proprio accanto a quella del discepolo Porfirio. Sembra che i due stiano conversando. E del resto Porfirio, il fenicio che a trent'anni, verso il 263 dopo Cristo, da Tiro si trasferì a Roma per condurre vita di filosofo presso il più grande maestro del suo tempo, visse sei anni nella casa dell'ultimo grande pensatore pagano. Miracoli dell'ellenismo, fase di massima espansione di una civiltà che stava cedendo il passo al cristianesimo: il maestro pagano si circondava di sodali provenienti anche da altri paesi, in una Roma internazionale, fucina della civiltà del futuro. Per chi ama il mondo classico, è inevitabile provare nostalgia per quanto dev'essere accaduto tra quelle mura.

Porfirio, che di Plotino fu erede spirituale e successore a capo della scuola da lui fondata, dopo la morte del maestro si fece carico del delicato compito di ricomporre i suoi pensieri, riunendo le Enneadi secondo una struttura precisa. Si occupò anche di redigere una scarna Vita di Plotino, dalla quale, grazie a qualche digressione, scopriamo qualcosa in suo proposito. Porfirio racconta che Plotino non confidò a nessuno la sua data di nascita, né accettò mai di festeggiare il suo compleanno; in compenso, a ogni ricorrenza natalizia, nella sua casa si festeggiava in memoria di Socrate e Platone, con un banchetto e gli amici più bravi che declamavano un discorso. «A me poi era affezionato proprio come un fratello. Mi stimò degno di correggere i suoi scritti», scrive Porfirio, elencando i frequentatori del cenacolo plotiniano:critici, poeti, medici, senatori. E fu sempre Plotino, confida il fenicio, a fermarlo quando intuì che era dominato da pensieri di morte; gli disse che il suo «desiderio non proveniva da una decisione razionale, ma da morbosa melanconia». Gli consigliò di viaggiare, dunque Porfirio partì per la Sicilia, «così mi liberai del desiderio di morire, ma fui in tal modo impedito di rimaner con Plotino sino alla morte».

Se il maestro lo stimò al punto di trasmettergli la sua eredità spirituale, è indubbio che Porfirio disponesse di un'intelligenza e di una forza morale superiori. Tuttavia, il suo destino è stato a lungo quello dei migliori gregari: essere ricordato per la sua funzione, preziosissima ma secondaria, di testimone e aiutante. In molti manuali è descritto quale discepolo, privo però dell'originalità del maestro. Eppure Malcho – questo il suo vero nome, di origine siriaca, poi mutato in Porfirio proprio a Roma - ebbe notevole capacità dialettica e la forza delle idee. Fu scapolo per gran parte della vita – amava ricordare che il vivere secondo filosofia esclude le passioni terrene – tuttavia in tarda età sposò Marcella,
una vedova facoltosa. L'idillio durò solo dieci mesi, ma ne scaturì quello che è considerato un importante testamento morale del mondo antico, la Lettera a Marcella.

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La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne, sicché anche da questa potrebbe essere salvaguardata. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l'hanno danneggiato. E se molti non sono tali, la cosa non ci riguarda perché dell'amicizia e della benevolenza niente è certo e stabile tra la maggioranza degli uomini; questi non sono capaci di ricevere queste nozioni né la saggezza né briciole di saggezza aventi qualche importanza, né l'uomo comune è capace d'intendere l'utile, sia il suo sia quello generale, né è in grado di fare una distinzione tra consuetudini cattive e buone. Inoltre vi è nella maggioranza degli uomini, insolenza grande e piena d'intemperanza. Perciò non si deve temere che un giorno non ci siano coloro che mangeranno gli animali. Giustamente Epicuro era solito dire in generale che è necessario guardarsi da quei cibi di cui desideriamo godere e che ricerchiamo, ma che una volta consumati annoveriamo tra le cose spiacevoli. Tali sono tutti i cibi abbondanti e grassi. E questa sorte subiscono coloro che sono attratti da essi, incorrendo o in grandi spese o in malattie o in sazietà o in inattività. Perciò perfino per i cibi leggeri occorre guardarsi dalla sazietà e bisogna sempre considerare che cosa derivi dal loro godimento o possesso e quale sia la grandezza del piacere e da quale fastidio della carne o dell'anima liberi, perché a causa di una vana gioia non ne risulti una violenta tensione verso l'uno o l'altro cibo, come ne produce in genere la vita della maggioranza degli uomini. 2. Infatti non bisogna in nessun caso andare al di là dei limiti, ma in tali cose attenersi a confine certo e a misura e pensare che chi ha timore dell'astinenza dagli esseri animati, se si mette a mangiare carne per il piacere, teme la morte. Perché subito egli collega alla privazione degli alimenti la presenza di un fenomeno terribile e illimitato da cui deriva la morte. 3. Per queste e analoghe ragioni nasce anche l'insaziabile desiderio di vivere, di ricchezze, di beni, di fama, perché si crede di poter aumentare insieme con essi la propria felicità nel corso del tempo e perché si teme la morte come un male terribile senza fine. 4. Ma il piacere procurato dal lusso non arriva neppure vicino al piacere che viene dall'autosufficienza a chi di essa ha fatto esperienza: grande è infatti il piacere di riflettere di quanto poche cose si ha bisogno. Perché, tolto di mezzo il lusso, tolta di mezzo la passione erotica, l'ambizione per gli onori esteriori qual bisogno ci rimane di una ricchezza inutile, che non ci giova a niente e destinata soltanto ad opprimerci? Perché ne risulta una completa sazietà e puro è il piacere che deriva da questa sazietà. Ma bisogna anche, per quanto è possibile, disabituare il corpo dal piacere che deriva dalla sazietà, non di quella sazietà però che viene dall'eliminazione della fame,e bisogna mangiare per poter «in buone condizioni di salute» passare attraverso tutte le difficoltà e porsi come limite il necessario piuttosto che l'indefinito.

Porfirio è una figura di tutto rispetto, ma ebbe in sorte di essere il profeta di un mondo ormai al tramonto. Viveva in una cultura eclettica, composita, in fondo un po' come ai nostri tempi, e conobbe bene le correnti di pensiero della sua epoca: infatti da giovane fu cristiano, ma in seguito abiurò. Scelse, insomma, di rimanere saldamente ancorato alla filosofia pagana.

Astinenza dagli animali, oltre che un autentico evento editoriale (la traduzione di Angelo Sodano, purtroppo scomparso, è la prima assoluta in lingua italiana), è in fondo il suo testamento, nonché uno dei primi manifesti del vegetarianesimo (si pensi anche al Del mangiar carne di Plutarco uscito per Adelphi nel 2001). Un libro che può sembrare incredibile se diamo retta alla contemporanea presunzione secondo cui certe raffinatezze non potevano appartenere all'antichità. A ben guardare,
invece, il paganesimo, come testimonia anche il vegetarianesimo di Pitagora e di altri filosofi antichi, metteva contemporaneamente sulla scena cruenti riti arcaici e ascetico distacco. Forse la grandezza di Porfirio sta nella focalizzazione di un problema che pochi, dall'alba dei tempi, hanno scelto di affrontare in modo tanto diretto. Il rapporto, delicatissimo e fondamentale, dell'uomo con gli altri esseri viventi. E se tutti abbiamo letto almeno qualcosa dei grandi filosofi greci e conosciamo il significato del vocabolo «metempsicosi», pochi ricordano che i pitagorici osservavano una dieta del tutto vegetariana, e così fecero, oltre a Plotino, Empedocle, Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro. Pitagora visse nel VI secolo avanti Cristo e, pur stando dall'altra parte del mondo, condivideva il pensiero di un altro iniziato, suo contemporaneo, il Buddha. Del resto Bernardo Bertolucci, con notevole sensibilità, sul finire del film Il piccolo Buddha, pone sulle labbra di un monaco tibetano un frammento di Empedocle di Agrigento: «Sono stato un fanciullo e una fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare».

Porfirio dona ai moderni le motivazioni della privazione dalla carne: essa può essere consumata solo dall'uomo comune, poiché la sua esistenza è intrisa di passioni; il filosofo se ne deve astenere, poiché la vita contemplativa richiede frugalità. Soprattutto, Porfirio riconosce agli animali, anche se in un grado inferiore agli umani, una certa razionalità, nonché una capacità superiore a livello di sensi. Sopra ogni cosa,
essi provano dolore se li uccidiamo, senza contare che non conoscono «il tradimento di chi gli dimostra benevolenza, ma un affetto totale è sempre in loro». Attacca tutti coloro che immolano animali sugli altari, giustificandosi con la loro presunta mancanza di razionalità, ricordando loro che forse anche «gli Sciti che mangiano i loro genitori potrebbero dire che i genitori sono privi di ragione».

Oltre a essere una pietra miliare dell'animalismo, Astinenza dagli animali è un tributo alla grandezza della filosofia greca, un ultimo dono alla memoria di Plotino e dei suoi maestri. Porfirio morì nel 305. Tra le sue opere meritano di essere ricordate il trattato Contro i cristiani e il Vangelo di un pagano, a testimonianza di quanto la sua scelta, in materia di culto e filosofia, fosse decisa. Non seppe mai che il cristianesimo avrebbe fatto quel che non fu in suo potere: l'imperatore Teodosio, in tre editti datati tra il 391 e il 392, proibì per sempre i sacrifici pagani cruenti.

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