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Convegno "Mettere al bando le armi nucleari", Padova 8 agosto 2005

Al bando le armi nucleari

- Stati canaglia
- Armi nucleari e armi leggere
- Art. 11 e difesa senza guerra
- Difesa difensiva; difesa non armata e nonviolenta; transizione
10 gennaio 2006
Fonte: Convegno di "Beati i costruttori di pace", 8 agosto 2005

Padova 8 agosto 2005 - Al bando le armi nucleari
[seconda versione, dopo la pubblicazione in “La nonviolenza è in cammino” n.1018 del 10.08.05, nbawac@tin.it )

Nel quadro delle belle iniziative di “Beati i costruttori di pace” nel 60° anniversario di Hiroshima e Nagasaki, ho partecipato a Padova al convegno di lunedì 8 agosto “Mettere al bando le armi nucleari”. Auspico che vengano messi a disposizione i testi dei molti pregevoli interventi programmati e svolti.
Nel corso della discussione, ho fatto un intervento del quale fornisco qui gli appunti.

Il problema maggiore, riguardo alle armi nucleari, non è tanto di chi vuole averle, quanto di chi le ha, le ha usate, non le distrugge, non rispetta il TNP (Trattato di non proliferazione del 1970).
Gli “stati canaglia” sono tutti quelli che prevedono la morte-data come come uno degli strumenti della politica.
La politica è l’arte del vivere e del con-vivere, non dell’uccidere. La guerra, l’uccidere istituzionale, è l’anti-città, l’anti-politica. La politica è pace, o non è politica.
Come dice qui Massimo Toschi, l’uso voluto, programmato e procurato di vittime, contro qualche avversario, è la negazione della politica, prima ancora che della pace.
Tutte le armi sono di distruzione. Pesa la differenza quantitativa e sensibile tra uccidere uno e uccidere mille. Ma non c’è differenza qualitativa. Qui si è ricordato il detto comune alla tradizione ebraica e islamica: «Chi uccide una vita uccide l’umanità, chi salva una vita salva l’umanità», che è scritta anche qui fuori, nel Municipio di Padova, sotto la lapide in onore di Giorgio Perlasca. Uccidere una vita è tutta la “massa” possibile, per quella vita. Se è lecito uccidere uno, è lecito uccidere tutti. Per non uccidere tutti, bisogna non uccidere neppure uno.
Siamo contro le armi nucleari, certamente, ma altrettanto contro le armi leggere, dal kalashnikov al machete, che fanno ancora più vittime, e sono le vere armi di distruzione di massa.
Hiroshima non è una “esagerazione” nella guerra: è la “rivelazione” di ciò che la guerra è sempre stata dal suo inizio storico, come istituzione nella città-stato, nel crescendo della violenza legalizzata, che si dimostra incontenibile, una volta che è avviata.
Se la guerra è l’antipolitica, vogliamo la riaffermazione integra dell’art. 11 come primo punto di una programma politico che possa meritare il voto.
L’art. 11 non ripudia solo la guerra di offesa, ma la guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», perciò, in linea con la Carta dell’Onu, condanna la guerra come tale, e impegna a procedere verso il superamento anche della difesa militare, che è dare la morte, vivere di morte, che non è vivere.
È possibile la “difesa senza guerra” (abbondante bibliografia storica nel sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti). In Italia è chiamata Difesa Popolare Nonviolenta, in Europa c’è ancora la proposta di Alex Langer dei Corpi Civili di Pace.
La nonviolenza – idea non privativa, ma positiva e attiva, perciò da scrivere in parola unica – è assai più del pacifismo. Il pacifismo ripudia la guerra, ma la guerra è soltanto la forma più vistosa e ripugnante di violenza. Almeno altre due forme sono meno visibili, più accettate e subite, e ben più gravi. Si tratta della violenza strutturale (nelle leggi, nelle economie) e della violenza culturale (per esempio l’idea di superiorità di alcune culture, di “civiltà” e forme politiche da imporre agli altri, il razzismo di Oriana Fallaci e della Lega Nord).
La violenza delle idee, incarnata in strutture, è causa e giustificazione della violenza bellica. Il pacifismo coerente è ottima cosa, ma rimane in superficie se non diventa cultura e azione nonviolenta. Perciò è necessario che tutte le associazioni e movimenti pacifisti italiani sappiano arrivare, conservando ciascuno le sua caratteristiche, a formare una federazione nonviolenta nazionale, per esigere e imprimere nella politica il ripudio attivo di ogni violenza e la qualificazione nonviolenta dell’agire politico.
Certo, la nonviolenza intera, diceva Gandhi, è come la retta di Euclide, ma ciò che conta nei fatti è il movimento tenace che riduca ogni forma di violenza, tendenzialmente a zero, e sviluppi al massimo la cultura e l’etica nonviolenta, la smascheratura delle strutture violente, e le tecniche nonviolente e costruttive nella gestione dei conflitti.
Perciò, nostro obiettivo e volontà politica non può essere altro – in nome del realismo politico - che l’abolizione (o totale riconversione) degli eserciti.
Sappiamo che ciò non è attuabile ora, a causa delle culture politiche, sia a destra che a sinistra, ancora quasi totalmente, con poche preziose eccezioni, legate al mito irreale della guerra, e a causa dell’insufficiente cultura popolare di pace.
Alcune linee politiche che per altri versi possiamo condividere, ritengono la guerra, e la capacità di farla, e la dimostrazione di saperla fare – vedi la guerra alla Serbia fatta nel ’99 dal governo di centro-sinistra – come un elemento essenziale della capacità di governo. Ma il matrimonio politica-guerra va spezzato col ripudio solenne stabilito costituzionalmente dall’art. 11.
Dunque, cosa possiamo volere oggi dalla politica italiana, in progressione graduale ma orientata verso il disarmo dell’omicidio e verso la politica del conflitto nonviolento?
Tre punti, almeno:

1. Una politica di difesa, ancora militare, ma eslusivamente difensiva e non offensiva. Offensive sono ovviamente le armi nucleari, che l’Italia è forzata ad ospitare e anche a detenere in proprio in questa Regione; sono le portaeree, studiate per portare la guerra in casa altrui; sono le spedizioni militari al servizio degli invasori, come in Iraq. Offensivo è il concetto di difesa – difesa dichiarata dei privilegi, non dei diritti - proclamato nel 1991 nel Nuovo Modello di Difesa e messo in pratica da tutti i governi succedutisi da allora. Offensivo è legarsi ad una alleanza, la Nato, dalla strategia di dominio, espansiva, interventista. Un vero passo verso il disarmo è il “transarmo”: la trasformazione degli armamenti da offensivi a strettamente difensivi. Ciò assicura maggiore sicurezza, perché non minaccia l’eventuale avversario.
La difesa militare puramente difensiva si avvicina al concetto di polizia, che va accuratamente distinto dal concetto di esercito e di guerra. La polizia, quando agisce nel suo compito istituzionale (non come a Genova nel 2001), pur portando legittime armi leggere per il caso estremo, riduce la violenza e non l’accresce; l’esercito, fatto per la guerra, ha il compito istituzionale di accrescere la violenza, perché la guerra si fa per vincerla, e la vince soltanto il più armato, il più violento, il più crudele. Non c’entrano per nulla il diritto e la ragione: la guerra premia la violenza e ignora la ragione, essa è «l’antitesi del diritto» (come ha scritto più volte Bobbio).
La distinzione essenziale tra polizia ed esercito, tra azione di polizia e guerra, corrisponde alla differenza concettuale, altrettanto importante e decisiva nella pratica, tra forza e violenza. Nonostante la confusione verbale - sia quella voluta (parlare di Forze Armate, per dire l’esercito, serve a celare la natura violenta dell’esercito), sia quella innocente e pasticciona presente nell’uso linguistico (non poche volte anche nel linguaggio degli studiosi imprecisi) - è chiaro che la forza è una virtù, la violenza un vizio; la forza costruisce, la violenza distrugge; la forza difende, la violenza offende; la forza limitata e regolata serve alla giustizia (anche Gandhi ammetteva ancora con tristezza la necessità della polizia) e a resistere alla violenza, mentre la violenza non si autolimita e non è mai giusta.
La forza di polizia internazionale è il mezzo previsto nella Carta dell’Onu (ma mai attuato dalle potenze) quando gli altri mezzi non siano bastati a sventare le minacce alla pace, mentre la guerra è esclusa e condannata, fino dalle prime parole del Preambolo, in questo documento costituente della comunità dei popoli nella pace. Perciò l'Onu non può né fare né "autorizzare" alcuna guerra - come si è illegalmente preteso nell'ultimo quindicennio di nuove guerre - perchè è nata per abolire la guerra, come dichiara e impegna la Carta.
Anche degli eserciti è possibile una riconversione: se si attrezzano nella cultura, nell’educazione, nell’etica, nel reclutamento, nella strumentazione, in funzione puramente ed esclusivamente difensiva, privandosi di ogni capacità offensiva, si trasformano in istituzione con natura di polizia.

2. Spostare annualmente il 5% del bilancio militare alla alternativa «difesa non armata e nonviolenta» (Legge 230/98, art. 8-e). Se non si programma in termini finanziari e organizzativi la pace come metodo nella gestione dei conflitti, si resta nell’aria fritta della retorica della pace. Oggi stiamo andando ancora nel vecchio senso disastroso, tanto in Italia quanto nella UE, la quale dovrebbe scegliere la strada del transarmo e della neutralità attiva, disarmata, solidale e nonviolenta (vedi la precisa proposta di Lidia Menapace). Politicamente, questo significa riduzione programmata delle spese militari, riconversione dell’industria bellica e degli eserciti.
La difesa non armata e nonviolenta è una possibilità dei popoli, se sono istruiti e ne prendono coscienza. Ogni potere, anche il più violento, ha bisogno e dipende dall’obbedienza, pur passiva, dei dominati. Un popolo può smontare ogni potere ingiusto con la non-collaborazione coraggiosa, come la storia dimostra. Ciò può comportare anche vittime, ma sempre molte di meno della difesa armata, richiede sacrifici, ma assai più nobili, e evita il degrado morale che la violenza anche giustificabile sempre comporta. Un popolo ha diritto ad essere soggetto della propria difesa, e non oggetto da parte di un corpo separato e extra-democratico come è un esercito. Dalle minacce nucleari o terroristiche esterne ci può difendere solo una politica di amicizia e giustizia verso tutti i popoli, che è la maggior prevenzione possibile dell’odio violento suscitato e alimentato da ingiustizie e bellicismi.

3. Progettare la transizione dall’attuale modello di sviluppo ad alta intensità energetica e di potenza, centrato sulle risorse in esaurimento, prelevate con la guerra, che causano un impatto ambientale insostenibile, a un modello a bassa potenza, centrato sull’uso di fonti energetiche rinnovabili, sul risparmio e l’efficienza energetica e su uno stile di vita e consumi ispirato alla semplicità volontaria e alla maggior gioia di vivere che ne deriverebbe. Anche in questo caso, uscire dalla retorica significa programmare la riduzione annuale del 5% dei consumi di combustibili fossili e l’incremento, nella stessa percentuale, delle fonti alternative. Il recente lavoro di Hermann Scheer (Il solare e l’economia globale, Edizioni Ambiente, Milano 2004) è l’esempio più concreto di tale possibilità.
Queste tre essenziali proposte sono state inviate a Romano Prodi, leader dell’Unione, fino dal dicembre 2004.
Oggi, qui, il ricordo e la meditazione su Hiroshima e Nagasaki – crimini di lesa umanità, svolta storica inconfrontabile col tanto enfatizzato 11 settembre, crimine di lesa maestà – ci impegna a imparare di nuovo che la politica non può uccidere, perché la violenza è suicidio. Dare la morte per vivere è morire alla qualità umana.
In Aldo Capitini c’è il pensiero che la vita senza morte, sperata dalle religioni, comincia col non uccidere, col non aggiungere la morte artificiale, industriale, militare, alla morte naturale.
Questo è l’orizzonte irrinunciabile. Poi, la politica, arte del possibile, fa i passi che può. Ma se non sono passi ben orientati, ben diretti, sono passi perduti, passi rovinosi.
Enrico Peyretti
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