"Vent'anni nel braccio della morte La mia vita rubata dalla giustizia"
Curtis McCarty si trova a Roma in occasione della Giornata Mondiale delle Città contro la Pena di Morte, un'iniziativa lanciata dalla Comunità di S. Egidio cinque anni fa e che è arrivata a coinvolgere oggi quasi mille città di 71 paesi diversi.
E' qui per raccontare la sua storia, assieme ad altri innocenti condannati a morte che, alla fine di un lungo calvario, hanno riacquistato la libertà. La sua testimonianza è un j'accuse nei confronti del sistema giudiziario americano. Dietro agli occhi di un azzurro intenso si cela tutta la sofferenza e la rabbia di un essere umano che ha visto i migliori anni della propria vita sfuggirgli di mano.
"Ero un ragazzino ribelle, non ascoltavo i consigli della mia famiglia e dei leader della mia comunità. Ero un tossicodipendente e iniziai a commettere piccoli crimini sin dall'età di 15 anni. Tutto questo fornì la scusa perfetta alla polizia per arrestarmi per un crimine che non avevo commesso".
E' il 1985 quando Curtis viene condannato a morte per l'omicidio di Pamela Willis, una giovane donna di sua conoscenza. "Al momento della condanna mi sono sentito tradito. Cresci credendo in quello che ti viene detto sin da piccolo, che il sistema è dalla parte dei cittadini. Gli Stati Uniti dichiarano di essere una grande democrazia, mostrano un'enorme fiducia nei confronti delle proprie istituzioni, ritengono infallibile il sistema giudiziario. Ma è soltanto una grande montatura. Molto dipende dall'immagine e dalle condizioni economiche di chi affronta un processo: se sei ricco o povero, se sei integrato nel sistema o sei un outsider, se hai la possibilità o meno di rivolgerti a grandi avvocati. In base a tutto questo le possibilità di essere giudicato innocente o colpevole cambiano, e di molto.
Il problema è di fondo. Di fronte a un crimine e a una persona sospettata di averlo commesso, l'atteggiamento degli inquirenti è: "Abbiamo abbastanza prove per condannarlo?". La domanda, invece, dovrebbe essere: "E' stato lui?".
Vivere nel braccio della morte sapendo di essere vittima di un'enorme ingiustizia, gridare al mondo la propria innocenza senza essere ascoltati, è forse il peggiore supplizio che possa capitare a un essere umano. "Per i primi due anni provai una rabbia profonda, che via via si trasformò in frustrazione. Poi capii che dovevo reagire e iniziai a sfruttare tutte le possibilità che mi venivamo concesse per diventare una persona migliore, per istruirmi, per studiare, per fare qualcosa per gli altri. Mi resi conto che il mio caso non era un'eccezione, un'anomalia di un sistema perfetto, ma che anzi era abbastanza comune. Allora iniziai a insegnare a leggere e scrivere ai miei compagni che non sapevano farlo, a studiare legge e a condividere con gli altri ciò che imparavo".
Nel 2000, quindici anni dopo la condanna di McCarty, si scopre che il perito della polizia la cui testimonianza era stata determinante in tribunale aveva in realtà falsificato le prove. Ad una successiva perizia richiesta dagli avvocati della difesa quelle stesse prove non si trovano più.
Ma la cosa più incredibile è che, nonostante l'evidenza di un giudizio falsato, Curtis rimane in carcere ancora per sette anni: "Sono stati quelli gli anni più duri nel braccio della morte", ricorda. "Ero innocente, avevamo dimostrato che le prove a mio carico erano fasulle e continuavo a rimanere chiuso lì dentro. Il sistema non poteva ammettere di avere commesso un errore. Di avere condannato deliberatamente un innocente alla pena di morte".
Per fortuna, grazie all'impegno dell'associazione "Innocence Project" che riesce a far sottoporre McCarty alla prova del DNA, nel 2007 Curtis viene dichiarato innocente e rilasciato. La libertà però non è semplice da assaporare: "Dovevo essere felice e invece mi sentivo furioso. Mi hanno rubato la gioventù, sono diventato adulto nel braccio della morte". Solo dopo 18 mesi lontano dal carcere dell'Oklahoma in cui ha trascorso la sua gioventù Curtis McCarty inizia a guardare al proprio futuro con un pizzico di serenità: "Continuerò a raccontare la mia esperienza, a testimoniare quello che mi è accaduto, a parlare con le persone cercando di convincerle che il nostro sistema giudiziario va riformato radicalmente".
Lo sguardo rivolto in avanti coincide con una speranza: "Ho fiducia in Barack Obama. Non so quanto potrà fare, ma forse con lui potremo davvero dire addio alla pena di morte".
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