Il trionfo epocale di Barack Hussein Obama è un’utopia che fino a qualche anno fa sembrava impensabile e segna un punto di rottura che cambia per sempre la storia della prima nazione del mondo libero.

L'ultimo imperatore è nero

Il mandato di Obama dovrebbe segnare la fine dell’egemonia Usa nella gestione della politica internazionale. Un presidente transetnico sarebbe così il primo leader transnazionale con connotati non imperiali, per inverare la “svolta umanista” (Hugo Chavez) degli USA nei rapporti col resto del mondo.
12 dicembre 2008
Matteo Della Torre (Casa per la nonviolenza, associazione di ispirazione gandhiana.)

Barack Obama

In un’America con un passato di paese ex-schiavista in cui, fino a pochi decenni fa, era in vigore l’odio e la segregazione razziale, e nella quale molti problemi relativi al colore della pelle restano ancora aperti, il trionfo epocale di Barack Hussein Obama, primo afro-americano eletto Presidente degli Stati Uniti, è un’utopia che fino a qualche anno fa sembrava impensabile e segna un punto di rottura che cambia per sempre la storia della prima nazione del mondo libero.
Per secoli, nel paese a stelle e strisce, la popolazione di colore è stata oppressa dalle catene dell’ingiustizia. A partire dal 1616 furono deportati in America del Nord 15 milioni di “selvaggi africani”, stivati come merci sulle navi negriere, venduti al mercato come animali per essere sfruttati dalle élite terriere nei campi di cotone, marchiati con ferri roventi come bovini, linciati e mutilati dai proprietari di schiavi.
Nel 1865, durante la presidenza di Abraham Lincoln, fu ratificato il XIII emendamento alla Costituzione, che abolì la schiavitù. Ma la situazione materiale dei neri d’America, invece di migliorare, peggiorò ulteriormente. La schiavitù fu sì abolita ma non la segregazione razziale istituzionalizzata. In forza di una legge, fu applicata una severa divisione delle razze che proibiva i matrimoni interrazziali e prevedeva settori separati dedicati a “white” e “colored” per l’utilizzo di bagni, fontane, ascensori, scuole, chiese, locali pubblici ed autobus.
L’1 dicembre del 1955 accadde un evento che diede avvio al movimento nero per i diritti civili guidato dal reverendo battista Martin Luther King Junior. Una donna nera di Montgomery (Alabama), Rosa Parks, in un autobus pieno di passeggeri si rifiutò di cedere il suo posto, nel settore riservato ai neri, ad un bianco, in violazione del regolamento razziale dei mezzi pubblici. Fu subito arrestata. La comunità nera, stanca di umiliazioni e maltrattamenti, indisse un boicottaggio ad oltranza degli autobus di Montgomery. Martin L. King fu chiamato dalla comunità a guidare quella protesta. La nonviolenza del movimento si rivelò efficace. Il boicottaggio degli autobus dopo 381 giorni ottenne un pronunciamento della Corte Suprema, che dichiarò l’incostituzionalità della separazione razziale sui mezzi pubblici (4 giugno 1956). La nonviolenza di M. L. King aveva vinto.
Il movimento per i diritti civili dei neri allargò le sue richieste alla eliminazione della segregazione nei locali pubblici, con azioni di boicottaggio di negozi e grandi magazzini, sit-in, picchettaggi, marce... La reazione dei bianchi al potere alla disobbedienza civile dei neri fu molto dura. Nel 1936 a Birmingam i dimostranti neri furono spazzati via dagli idranti, azzannati dai cani e colpiti dai manganelli della polizia. L’azione nonviolenta del movimento per i diritti civili dei neri ottenne nel 1964, con l’appoggio del Presidente in carica John Fitzgerald Kennedy, la Civil Rights Act, che riconobbe e garantì uguali diritti e doveri, uguale accesso a servizi e strutture pubbliche e private a tutti i cittadini americani, senza discriminazioni legate al colore della loro pelle. Le rivendicazioni del movimento culminarono nella richiesta del diritto di voto per tutti i cittadini neri degli Stati Uniti, che fu accolta nel 1965 col Voting Rights Act.
“Il tamburino in marcia per la gustizia, la pace e la verità” (Arnulf Zitelmann), al termine della marcia su Washington (28 agosto 1963), davanti a 200 mila persone, tenne uno dei discorsi più famosi della storia dell’umanità: “I have a dream” (“Ho un sogno”). A 143 anni dall’abolizione della schiavitù, l’ora del sogno visionario di Martin Luther King può avviarsi a compimento. Anche se, oggi, negli Stati Uniti l’integrazione dei neri non è ancora compiuta, l’elezione di un Presidente meticcio, è un passo decisivo per chiudere la ferita razziale nella nazione e dimostra che i tempi sono cambiati, che le cose possono cambiare.
Gli americani tra Obama e McCain, tra un giovane politico emergente e uno vecchio, un nero e un bianco, tra l’audace speranza nel cambiamento e la paura, tra la rottura col passato e la continuità, hanno scelto chiaramente le sfide e le nuove opportunità rappresentate da un politico idealista come Obama. Un senatore dell’Illinois, quasi sconosciuto, è riuscito in pochi mesi a ritagliarsi prima un ruolo di outsider nel partito democratico, per poi prevalere alle primarie su Hillary Clinton, ed è divenuto un‘ icona del cambiamento vincendo la corsa alla presidenza con largo margine sullo sfidante repubblicano McCain.
La presidenza Obama potrebbe aprire nuovi orizzonti alla politica, al sogno di un cambiamento che si avvera. Sono alte le aspettative negli Stati Uniti e nel mondo intero verso un presidente il cui programma politico è incentrato sulla parola “cambiamento”. Lo slogan “Yes, we can!”, il mantra della campagna elettorale di Obama, potrebbe scandire un passaggio epocale nella storia del mondo. Da oggi, con Obama presidente, è permesso sognare, nulla è impossibile. L’incredibile diventa possibile.
E’ a tutti chiaro che gli Stati Uniti sono in forte difficoltà. L’America che eredita il neopresidente Obama non poteva essere peggiore: una crisi economica e finanziaria senza precedenti, due guerre e un’immagine internazionale ai più bassi livelli storici. La presidenza Obama dovrà dare risposte alle due emergenze, economica e climatica, ma anche alla questione della pace internazionale, con le guerre e i conflitti che insanguinano le aree calde del globo.
Proviamo a tracciare per sommi capi i punti prioritari che dovrebbero, a nostro avviso, caratterizzare l’agenda politica del neopresidente degli Stati Uniti.

Politica Internazionale

Nei rapporti internazionali, il mandato di Obama dovrebbe segnare la fine dell’egemonia Usa nella gestione della politica internazionale. Gli Stati Uniti, dopo 50 anni di sostanziale unilateralismo, segnato da 70 interventi militari nel mondo ed esacerbato in questi ultimi 7 anni di presidenza Bush dalle mire egemoniche dei neoconservatori delineate dal Project for the New American Century (PNAC), diverrebbero uno stato sovrano in un ordine mondiale multipolare. Un presidente transetnico sarebbe così il primo leader transnazionale con connotati non imperiali, per inverare la “svolta umanista” (Hugo Chavez) degli USA nei rapporti col resto del mondo.
Per Washington è urgente, in primo luogo, chiudere entro pochi mesi una guerra ottusa e disastrosa in Iraq che ha ucciso 88.947 iracheni e 4.193 soldati americani (dati nov. 2008). E’ evidente il fallimento della terribile illusione di esportare in Iraq la democrazia con l’uso delle armi, mentre l’unica soluzione possibile è quella della politica. Le fazioni in lotta (sunniti, sciiti, turcomanni e curdi) dopo la smobilitazione delle truppe occidentali dall’Iraq dovranno trovare una soluzione politica di pace per rendere sicuro il paese. Ma quale soluzione politica? Il prof. Johan Galtung (*) in merito afferma che “occorre abbandonare l’illusione occidentale di voler creare un Iraq ed un Afghanistan unitari. E’ un’idea impossibile. Sia l’Iraq che l’Afghanistan non esistono come stati unitari. E’ invece possibile un modello federale, perché in Afghanistan convivono almeno dodici nazioni differenti, in Iraq quattro”.
Contemporaneamente, si dovrà contrastare il fondamentalismo di Al-Qaeda con un “efficace e coordinato lavoro di intelligence” in Afghanistan e Pakistan, dove esso trova terreno fertile. La strategia più efficace per affrontare i conflitti futuri, isolare il terrorismo islamico e spuntarne le armi, risiede nella demilitarizzazione della lotta attraverso l’azione di una diplomazia determinata, alla costante ricerca del dialogo con tutti i paesi (anche coi cosiddetti “paesi canaglia”) e in un programma di aiuti economici ai paesi poveri, che proceda di pari passo con lo smantellamento delle 512 basi permanenti Usa presenti in territorio straniero.

Un altro cambiamento drastico rispetto alla politica di George W. Bush sarebbe chiudere il progetto Scudo Spaziale (US National Missile Defense System - Nmd), il sistema missilistico da installare in Polonia, con stazioni radar nella Repubblica Ceca. Esso “non serve a proteggere l'America, ma è uno strumento per il dominio globale" (Noam Chomsky) che sta riportando il mondo in un clima da guerra fredda con la Russia del duo Putin-Madvedev.
Obama sarà un grande presidente se saprà convincere la sua nazione, gli alleati e i paesi ex-sovietici a trovare una via d’uscita dall’assurdità della guerra termonucleare e della sua preparazione. Nel coraggio e nella capacità politica di “rimettere indietro le lancette della mezzanotte nucleare” si gioca gran parte della credibilità di Obama nel cambiamento che vuole offrire al mondo. E’ urgente un nuovo Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, a cui segua il progressivo smantellamento di tutte le 34 mila bombe atomiche strategiche e tattiche possedute dalle potenze nucleari.
La migliore politica per evitare il rischio di una nuova Hiroshima, e il rischio che una bomba nucleare finisca nelle mani dei terroristi, non è solo la messa in sicurezza di tutte le testate e di ogni grammo di uranio arricchito presenti nel mondo, ma soprattutto lo smantellamento degli arsenali atomici di tutte le potenze nucleari.
Un passo intermedio per il conseguimento di questi obiettivi ambiziosi sarebbe la costituzione di un Consiglio Nazionale per il Disarmo e la lotta alla povertà guidato dal prof. Johan Galtung. Questo nuovo organismo assolverebbe il delicato compito di delineare i contorni di una nuova leadership americana, non più come grande superpotenza imperiale, ma guida morale delle nazioni per affrontare le sfide politiche del disarmo, della lotta alla povertà e dell’inquinamento globale.
Un altro passo di pace storico sarebbe far cadere il “muro dei Caraibi”, “l’eticamente inaccettabile” embargo economico di Cuba, come richiesto nell’ottobre del 1995 da Giovanni Paolo II nel corso della sua visita pastorale negli Stati Uniti.

Diritti Umani

Sul tema dei diritti umani è tempo per gli Stati Uniti di voltare pagina. Dopo gli scandali di Abu Ghraib e Guantanamo, una politica di cambiamento impone agli USA il divieto categorico del ricorso alla tortura in ogni circostanza, senza eccezioni, anche in scenari di guerra, e la chiusura del campo di detenzione di Guantanamo, dove sono rinchiusi centinaia di sospettati di attività terroristiche, inaugurando un nuovo modo di combattere il terrore islamico.

Il 18 dicembre 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Moratoria della pena di morte. Per la prima volta nella storia, la maggioranza dell’umanità formalizza la sua contrarietà alla morte di stato. Gli Stati Uniti con Obama hanno l’opportunità di applicare la moratoria sulla pena di morte, in vista di una sua definitiva abolizione. Obama, nel discorso pronunciato a Springfield (10 feb. 2007), con cui annunciava la sua candidatura alla presidenza, ha affermato che il sistema della pena di morte non funziona. Con lui alla presidenza, c’è la speranza che la pena di morte sia cancellata dall’Ordinamento giuridico statunitense.
L’America di Obama, al contrario di quanto è successo con l’amministrazione Bush, potrebbe collegare la lotta alla povertà e alle malattie nel mondo direttamente agli interessi legati alla Sicurezza nazionale. L’obiettivo è di destinare quote sempre maggiori di risorse economiche (50 miliardi di dollari nel 2012) al sostegno dei bisogni fondamentali dei paesi poveri. L’aumento del benessere concreto della popolazione dei sessanta paesi più poveri del mondo può bloccare il diffondersi del rancore verso l’Occidente opulento e dell’estremismo che dall’odio trae nuova linfa.

Economia ed ecologia

La risposta alla drammatica crisi economica e finanzaria che sta investendo gli Stati Uniti è triplice:
Con l’abbandono delle proprie mire imperiali che la stanno lentamente dissanguando (la spesa militare americana è di 400 miliardi di dollari per anno) l’economia americana diventerebbe più forte.
Nel giro di 10 anni si dovrebbe costruire una nuova Bretton Woods (una conferenza mondiale economico-finanziaria per rifondare le basi del capitalismo) non più nata da una imposizione degli Stati Uniti, come nel luglio del 1944. Il nuovo sistema economico non vedrebbe un’America in posizione strategica centrale - come dominus della politica finanziaria ed economica mondiale, così come venne ad affermarsi dopo la seconda guerra mondiale - ma una nazione primus inter pares, che sappia aprirsi a rapporti multilaterali con le altre potenze economiche emergenti (Cina, India, Brasile e Sudafrica) per offrire una risposta globale ai problemi economici, energetici ed ambientali.
Rilanciare l’economia in crisi con un New Deal (nuovo corso) verde, perché un’economia che guarda al futuro non può che investire nelle energie alternative e nell’efficienza energetica. Gli investimenti verdi nelle energie del futuro evidenziano la differenza principale del green New Deal di Obama rispetto al New Deal di Roosevelt che investì risorse dello stato per finanziare l’industria bellica. Raccogliere l’enorme sfida rappresentata dai cambiamenti climatici è un obiettivo prioritario nel programma di Obama. Subito dopo la Cina, sono gli Stati Uniti i maggiori inquinatori del pianeta. Per avere un metro di paragone di quanto inquinano gli americani, uno strumento è quello dell’impronta ecologica, cioè la quantità di risorse naturali utilizzate in un anno da ogni singolo essere umano. Un americano ha un’impronta ecologica di 10 ettari, un italiano 4,2 ettati, mentre quella di un etiope è di soli 0,6 ettari. Nella Conferenza mondiale di Copenaghen del dicembre 2009 gli Stati Uniti dovrebbero finalmente ratificare gli obiettivi del Protocollo di Kyoto che Bush respinse nel 2001. Il programma di Obama sembra procedere decisamente verso l’obiettivo ambizioso di un taglio drastico delle emissioni di CO2 dell’80% entro il 2050. Nel programma è previsto un investimento di 150 miliardi di dollari in 10 anni nelle energie rinnovabili (impianti fotovoltaici, turbine eoliche, biomassa..), che creerebbero 5 milioni di posti di lavoro verdi nelle energie rinnovabili, risparmio ed efficienza energetica. Negli Stati Uniti si prospetta l’avvio di una nuova era energetica e di un nuovo concetto di benessere “leggero di risorse e capace di giustizia” (Wolfgang Sachs), per far uscire la nazione dalla crisi economica e dalla dipendenza da petrolio, carbone e gas che ha portato gli USA a scatenare guerre di aggressione per il controllo delle risorse mondiali e porterà in futuro a conflitti e guerre sempre più distruttive e costose.

Abbiamo sfogliato insieme il libro dei sogni per un futuro diverso, ma non siamo ingenui. Non tutti i grandi problemi che attendono una soluzione possono essere risolti da un presidente. C’è anche da chiedersi se le corporations che hanno permesso l’elezione di Obama e il complesso militar-industriale accetteranno una drastica rottura con la politica americana degli ultimi 50 anni. La storia degli Stati Uniti insegna che, in presenza di un presidente dalla politica illuminata ed innovatrice, è molto alto il rischio di un “colpo di stato fascista e reazionario per riaffermare l’impero” (Johan Galtung). Nel mondo tanti si augurano che “l’audacia della speranza” obamiana non sia solo un artificio retorico e che le grandi promesse di cambiamento della campagna elettorale non si dissolvano in una bolla fumosa di piccoli cambiamenti di facciata.
Tuttavia, Barack Obama potrebbe deludere solo coloro ne hanno fatto un eroe, un’icona o, ancor peggio, un messia. Chi invece, più realisticamente, vede in lui un nuovo Mikail Gorbaciov e attende una perestroika di un paese che finalmente rinuncia alle proprie pretese di egemonia imperiale per divenire un paese guida del progresso ecologicosociale del pianeta, può continuare a sperare. ❍

Matteo Della Torre

www.uomoplanetario.org

(*) Johan Galtung, Oslo 1930, fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institute, docente di Studi sulla Pace all’Università delle Hawaii, consulente ONU e direttore di Transcend, un programma delle Nazioni Unite per la trasformazione nonviolenta dei conflitti, Premio Nobel alternativo per la Pace 1987.

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