Benvenuto a te 2009!
L’espressione emblematica del 2008 è quel paio di scarpe roteanti lanciate contro l’impero USA in persona, che esprimevano disgusto e disprezzo. Quella per il 2009 è finora un fumetto in El Paìs della vigilia di Capodanno: un carrarmato, ovviamente israeliano, che irrompe dal portone dell’anno nuovo, Felice 2009!
22 febbraio 2009
Johan Galtung
Con un po’ di trepidazione. C’è quella storiella rumena, venata di pessimismo temperato dal realismo: sarà un anno medio. Medio? Sì, peggio del 2008, ma meglio del 2010.
L’espressione emblematica del 2008 è quel paio di scarpe roteanti lanciate contro l’impero USA in persona, che esprimevano disgusto e disprezzo. Quella per il 2009 è finora un fumetto in El Paìs della vigilia di Capodanno: un carrarmato, ovviamente israeliano, che irrompe dal portone dell’anno nuovo, Felice 2009! Quell’altro impero, quello regionale, nato da Isaia 2:3-4. Oh no, Gerusalemme, non sarà mai. Non avrai mai il comando.
Che cosa succederà? Un cessate-il-fuoco, ovviamente, per una sosta e qualche rifornimento, da USA e Iran, e poi via di nuovo. Ovviamente Israele ha ragione: nessun paese accetterebbe di essere bersaglio di missili. E ovviamente i palestinesi hanno ragione: nessuna nazione accetterebbe di essere occupata, parzialmente dal 1948, [di più] dal 1967 e poi ancora, e ancora. Due torti per Israele e uno per i palestinesi aggiudicano ai secondi la supremazia morale, così il mondo reagisce.
La conquista di territorio e un massiccio terrorismo di stato israeliani, con l’uccisione di donne e bambini, contro un terrorismo di disturbo non regge. Israele sta marciando a occhi bendati verso l’abisso, marcato da segnali come Intifada I, Intifada II, attentati suicidi, missili di Hamas da Gaza, missili di Hezbollah dal Libano. E naturalmente qualcosa di peggio è in arrivo, lungo per questa strada di morte, nient’altro che morte. E poi improvvisamente c’è stata quella rara luce di consapevolezza attuale e futura basata sul senno di poi: l’intervista di Ehud Olmert in Yedioth Ahronoth del 29 settembre 2008 (ripresa in New York Review of Books del 4 dicembre), riassunta nell’International Herald Tribune del 30 settembre e usata da Roger Cohen in “Olmert to Obama: Think Again [Olmert a Obama: ripensaci]” (IHT, 01.12.08). Così parla la colomba dentro il falco (dalla NYRB):
- Vorrei cercare un po’ d’anima per conto della nazione d’Israele.
- Abbiamo una finestra d’opportunità, un breve periodo prima di entrare in una situazione estremamente pericolosa. La decisione che dobbiamo prendere è quella che abbiamo rifiutato di guardare a occhi aperti per quarant’anni.
- Dobbiamo raggiungere un accordo con i palestinesi, che comporta il ritiro da tutti i territori [occupati]. Una percentuale di essi rimarrebbe in mano nostra, ma dobbiamo dare ai palestinesi la stessa percentuale [di territorio altrove] – senza di che non ci sarà pace. Inclusa Gerusalemme, con, immagino, accordi speciali per il Monte del Tempio e i siti sacri/storici.
- Per una parte importante di tutti questi anni non sono stato disposto a contemplare la profondità di questa realtà.
- Mi piacerebbe sapere se c’è una sola persona seria nello stato di Israele che creda che possiamo fare la pace con la Siria senza alla fine mollare le alture del Golan.
- Sono arrivato a questa conclusione quando ero ancora in grado di fare qualcosa, stabilendo contatti coi siriani ben prima che la polizia aprisse indagini su di me.
- Non dubito che li batteremmo [i siriani] sonoramente. Israele è il paese più forte nel Medio Oriente. Potremmo ingaggiare la lotta con qualunque nemico o anche tutti assieme, e vincere. Ma quello che mi chiedo è: che cosa succede allorché vinciamo? — I suoi sforzi [del primo ministro] sono diretti a fare la pace o a rendere il paese sempre più forte per vincere una guerra? - Per loro [i nostri generali] si tratta solo di mantenere questa o quest’altra collina. Ma queste cose non valgono nulla.
- Nostro obiettivo dovrebbe essere, per la prima volta, stabilire un confine definitivo ed esatto fra noi e i palestinesi – in modo che il mondo intero possa dire: questi sono i confini riconosciuti d’Israele, questi sono i confini riconosciuti della Palestina. - Si ha una sensazione di megalomania e di perdita di proporzioni in ciò che si dice qui [in Israele] a proposito dell’Iran. - Questo fenomeno [come quello di membri della Knesset che chiamano Sharon "gangster", "criminale", "schifoso", "ladro" per il disimpegno da Gaza nell’agosto 2005] non è nuovo. Iniziò alla vigilia dell’assassinio di Rabin e lo provocò. - Ma la vera lezione è che nelle guerre contemporanee il fronte interno è il fronte, è quello impegnato nella battaglia. Che si tratti delle parole di un ex, di un estromesso dal potere in cerca di rivalsa? Anche, ma questo è poco importante. Quello che conta è che tutto ciò è dentro di lui. Come in molti altri politici israeliani. Quel dubbio interiore, quel dialogo interiore, quella ricerca e quella lotta. Olmert merita credito per aver pronunciato il non pronunciabile a prescindere dalle circostanze, e se queste hanno comportato qualche arricchimento personale, che sia, sarebbe un prezzo modesto. Ovviamente questo ci ricorda gli ultimi anni del regime dell’apartheid. Quel che segue è un dialogo esterno, in segreto, a porte chiuse. Poi, le porte si aprono. E gli Stati Uniti, vale a dire Obama, vireranno anche di 180 gradi, tentando di precedere gli accadimenti per presentarsi come loro artefici. Gli stati clienti degli USA seguiranno. I massacri di adesso a Gaza ebbero anch’essi un parallelo nel Sud Africa occupato. Ogni parola di Olmert ha un sicuro alone di verità. C’è di che impararne qualcosa, ben nota a chi abbia esperienza di mediatore: dall’esterno la figura al vertice della piramide appare monolitica come la piramide stessa; approssimandosi, ci sono sfumature. Le giuste circostanze e domande possono innescare parole tabù bisognose di agire nello spazio pubblico. “Olmert a Obama: ripensaci”. E voi, palestinesi, abbiate pietà: non è facile ammettere errori giganteschi, come fa Olmert dicendo: “Fui il primo a voler mantenere il controllo israeliano suIl’intera città, lo ammetto; non sto cercando di giustificare in retrospettiva che cosa ho fatto gli ultimi trentacinque anni”. Naturalmente, non dobbiamo farci coinvolgere eccessivamente da tutto ciò. Ma se mai c’è stata una crepa nel muro di vergogna costruito sotto la supervisione di Olmert, eccola qui. Altrettanto naturalmente, la pace presuppone di più che un confine riconosciuto internazionalmente. Una fine ai conflitti sul territorio e sui numeri va bene, progetti di cooperazione che creino un po’ di armonia – come una Comunità del Medio Oriente – altrettanto bene, o meglio. Purché si interrompa la deriva, la rotta verso l’abisso. Si punisca Olmert se ha infranto la legge. E lo si faccia il portavoce israeliano. Sperando che rimanga in vita e non condivida la sorte del suo predecessore Rabin.
Johan Galtung
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
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