Musica


Stefania Buonaguidi
e' nata a Taranto nel 1977 e vive a Bologna dove si è laureata al DAMS (spettacolo).
Si interessa di cinema e di musica in tutte le sue manifestazioni:
dalla new wave all' indie rock, passando per il beat, l'easy listening e il funk. Adora Luigi Tenco e Lucio Battisti.
Scrive articoli per la rivista bolognese Zic, curando recensioni di dischi, concerti ed eventi musicali, film. Collabora inoltre con il sito www.rockshock.it.
Se avete qualcosa da dire sulle sue critiche, cliccate sul suo nome.

Valentina Dorme, ma non riesce a (farci) sognare.


Novelli portabandiera dell’indie rock nostrano, i Valentina Dorme sono in realtà dei veterani della scena. All’attivo sin dal lontano 1992, dopo una sudata gavetta fatta a suon di demotapes autoprodotti e concerti in giro per la penisola, nel 2002 arrivano a pubblicare il loro primo cd ufficiale, l’ottimo “Capelli Rame”, che li designa ad essere una delle migliori band scuola Marlene Kuntz.
Cantautorato che affonda le radici nella scrittura di Giorgio Gaber e Fabrizio De Andrè, supportato da scelte sonore molto vicine ai Sonic Youth meno “rumorosi” ed estremi ed al post-rock languido e malinconico di bands come Mogwai e Giardini di Mirò, oltre che al pop morbido dei Karate.
Il “Coraggio dei piuma”, album freschissimo di stampa, a mio modesto parere rappresenta un piccolo passo indietro rispetto alla loro opera prima.
La vena creativa del cantante-paroliere Mario Pigozzo Favero qui manca di quel mordente sensuale, fitto di mistero e contrasti che contraddistingueva la poesia di “Capelli Rame.”
Stavolta si ricerca una maggiore linearità nel narrare storie, stati emotivi e sentimenti gravitanti intorno alla fantomatica Valentina, ma si cade spesso nel didascalico, in descrizioni che rasentano la banalità pur volendola evitare, anche se è questa che, tutto sommato, si ha voglia di raccontare. Banalità del quotidiano che si lascia vivere, di storie d’amore di cui abbiamo sentito parlare milioni di volte, consumate e morbose, sofferte o insofferenti eppure indispensabili per salvarsi, essendo l’unico appiglio in grado di conferire coraggio e forza al peso piuma in lotta sul ring della vita. In “Capelli Rame” tutto questo era evocato con stile, profondità e audacia, qui sfortunatamente ci si concede in varie occasioni a frasi che non hanno né capo né coda, messe lì per creare un effetto –“io che vorrei descriverti con puntualità, e poi mi arrendo ai soliti torna e dormi qui” (da “L’amore a trent’anni”) - oppure talmente scialbe da risultare stucchevoli – “abbiamo altre storie o quasi, viviamo altri amori o quasi, in giorni senza troppa qualità o quasi”(da “Canzone della lontananza”) – “qui si aspetta soli e immobili che arrivi sera senza grandi probabilità che succeda davvero qualcosa sono quasi dico quasi al meglio di me”(da “Una vita normale”) - o ancor peggio “forse non mi ami più ma non ho che te per riempire questa vita immobile”(Teatro leggero).
Certo, alcuni episodi sono nettamente migliori rispetto al resto e ci fanno ancora sperare in una band capace non solo di spleen dozzinale ma anche di rendere con eleganza l’eterno rito carnale di un lungo bacio (“Dobermann”) o di giocare nuovamente con le parole come fossero colori di un’istantanea dove ritrovare i gesti della donna amata ormai persi nel tempo (“In Una Tempesta”). “Le tue vacanze in malesia”, nonostante lo spunto narrativo attinto dalle cronache degli incidenti aerei, pecca di un arrangiamento un po’ fiacco e non riesce a trasmettere appieno quello stato d’animo tra lo straziato e il “far finta che tutto sia uguale a prima”, ricadendo ancora una volta nei clichès e in quadretti poco credibili: “ io sogno il tuo ritorno e le nostre sere migliori tra insonnia e sonniferi per poi ricominciare a ondate l’invasione abituale di chemio e cibo in scatola l’attesa che rimane”.
Peccato, perché musicalmente i Valentina Dorme sono dei bravi artigiani nel saper valorizzare le sfumature mutevoli di un’emozione o di un’immagine mentale.
Bella e incisiva invece è la laconicità acustica di “Un Tuffatore”, pezzo guarda caso incluso in un ep edito l’anno scorso, (“Maledetti i pettirossi”) quasi un’antitesi del cattivo gusto de “Il giorno 303”, versione rimaneggiata in veste elettro-low-fi della “Canzone della lontananza”. Speriamo che in futuro la band veneta non si lasci tentare troppo da sinth e tastiere e ritrovi l’ispirazione primigenia, che, son sicura, ha solo bisogno di essere risvegliata da una musa forse troppo dormigliona negli ultimi tempi…

Valentina Dorme, Il coraggio dei piuma, (Fosbury/Audioglobe, 2005)
Prezzo:16euro
Link:www.valentinadorme.it

In Una Tempesta
è il vento a rovinare questa pioggia bella
a costringerla a precipitare in diagonale
impedire una caduta serena e normale
normale dalle nuvole
squarciate
dalle nuvole in battaglia a qui

è questo vento impietoso
che piega gli alberi la notte
ci fa sperare in una tempesta
e che arrivi a breve
ci fa tornare ai vestiti dell’inverno
nonostante sia da quasi quattordici giorni aprile

scene irraggiungibili
delle dita a pettine nervose
a proteggere la pettinatura
da umidità e intemperie

l’incanto irraggiungibile
delle dita a pettine nervose
a proteggere la pettinatura
da ostilità e intemperie

a colpi decisi
di mascara Corolle su ciglia scure
il trucco da ricostruire in un voilà
con mosse minuziose e mute

è la neve a cancellare i prati
e parte del raccolto
in questo mese di emozioni nella media
e parentesi
aperte e chiuse
prima e dopo il tuo nome
e tornare
a due milligrammi serali di Sereprile.





CCCP: Il mondo si sgretola, rotola via, succede, è successo, rotola e via.

Mi ritrovo a parlare di un album uscito - lo realizzo solo adesso - ben quindici anni fa, per almeno due motivi.
Innanzitutto perché il tempo non sembra averlo scalfito. Anzi, il passare delle esperienze e di altri ascolti non hanno intaccato minimamente la percezione di questo disco. Al limite, l’hanno resa più consapevole del suo valore fuori dal comune e dal tempo stesso, contingenze permettendo.
In secondo luogo, abbiamo a che fare con un disco storico per la musica italiana “alternativa”, l’ultimo disco dei CCCP.
Un testamento, un’opera di transizione, una creatura caleidoscopica, multiforme, insondabilmente viva.
In copertina, una stanza disadorna abitata dai soli strumenti: La musica, i suoni innanzitutto. All’interno, nei solchi del vinile, il resoconto di una visione durata quasi un decennio, attraverso la lente di una poetica fatta di Epica, etica, etnica e pathos.
Si potrebbe scrivere un saggio intero a proposito, ma ci accontenteremo di alcune fondamentali indicazioni e di qualche considerazione. Epica, etica, etnica, pathos, oltre a rappresentare il capitolo conclusivo della storia dei CCCP segna il preludio all’avventura targata CSI.
E’ la fotografia di un momento delicato, in cui la crisi del gruppo viene a coincidere con una fase storico-politica altrettanto cruciale, conseguente alla recentissima caduta del muro berlinese.
Reclutati Giovanni Maroccolo (basso) Ringo De Palma ( batteria) Francesco Magnelli (tastiere) e Giorgio Canali (chitarra) in sostituzione di Ignazio Orlando e Carlo Chiapparini, quest’album fu in realtà il risultato di una line-up provvisoria e d’eccezione, dalla quale subito dopo si stabilizzerà la formazione base dei CSI.
L’apporto dei nuovi elementi si sente in modo decisivo, si tratta infatti di nomi appartenenti ai Litfiba dei tempi d’oro, quelli di 17 re e Desaparecido per intenderci. Il cocktail è micidiale ed è il frutto di una sintonia irripetibile, complici le lunghe sessions in una casa di campagna: La versatilità e la tecnica creativa di Maroccolo & co sposano l’ecclettismo e il senso del grottesco di Ferretti e Zamboni, per dar vita a quindici episodi completamente diversi tra loro ma legati da un filo invisibile.
Le influenze, gli stili, i rimandi sono infatti tantissimi e sarebbe un’inutile perdita di tempo cercare di individuarli ed analizzarli tutti.
Ciò che preme sottolineare è che questa è un’opera che va fruita nella sua totalità per essere davvero amata, come un intrigante ragionamento che non può assolutamente essere interrotto per essere capito.
“Epica”, la prima sezione, ruota attorno a due ossessioni ferrettiane: l’alienazione (Aghia sophia) e il misticismo (Paxo de Gerusalem). La noia mortale che ammorbava l’Emilia Paranoica degli anni ottanta in Aghia Sophia cambia nome in “Tedio domenicale” su una partitura che alterna il tango al musicarello, la new wave all’operetta. Gli ingredienti del disco sono già tutti concentrati nella schizofrenia di questo pezzo, che sembra riprodurre in miniatura la schizofrenia dell’intero lavoro: la musica popolare contaminata dalla modernità; la solennità e la passione ribaltate dallo straniamento grottesco; la fermezza ideologica relativizzata dall’autoironia spietata e a tratti nichilista.
“Etica” è dominata dalla presenza di uno dei testi forse più enigmatici scritti da Ferretti e soci (Depressione Caspica); “Etnica” invece è una babele spiazzante di culture e idiomi mediterranei, tra cui spicca la teatralità grottesca di Amandoti.Voce impostata da viveur con sigaretta in bocca sulle scarne note di un tango per sola tastiera, ecco l’esemplificazione di un’arte fatta di contrasti (“Amarti m’affatica, mi svuota dentro, qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto”..)
Il climax però viene raggiunto nel cuore del capitolo dedicato al “Pathos” con Maciste contro tutti, summa mastodontica ed in parte autocelebrativa del CCCP pensiero, in cui profeticamente Ferretti avvertiva: “soffocherai tra gli stilisti, imprecherai tra i progressisti, maledirai la Fininvest, maledirai i credit cards”. “Annarella”, scritta da Lindo pensando invero a suo padre e non alla Giudici (la “benemerita soubrette”), è la quiete dopo una tempesta di tensione, ma è anche un addio impregnato d’amore ad una storia giunta definitivamente al capolinea per voltare pagina; fuor di metafora, la storia degli stessi CCCP; un collettivo di persone che definire semplicemente “band” è limitante, in quanto rappresenta tuttora un’esperienza unica nella storia del rock non solo italiano.
Che dire, non vi resta che ascoltarlo.

Annarella. (Ferretti, Zamboni, Magnelli, Maroccolo).

link: www.rudepravda.net

CCCP-Epica, etica, etnica, pathos (Virgin, 1990) prezzo: 13 euro

Letture: “Fedeli alla linea: Dai CCCP ai CSI.” Casa ed.Giunti, 1997.

“Il libretto rozzo dei CCCP e CSI” Bizzarre-Casa ed.Giunti, 1998.

Lasciami
Qui
Lasciami
Stare
Lasciami
Così
Non
Dire
Una
Parola
Che
Non
Sia
D’amore
Per
Me
Per
La
Mia
Vita
Che
È
Tutto
Quello
Che
Ho
È
Tutto
Quello
Che
Io
Ho
E
Non
È
Ancora
Finita.



La “pensante leggerezza” di Ivano Fossati.

Tappa d’arrivo di una trilogia live iniziata ben undici anni fa, questo Tour acustico rappresenta un’ottima occasione per avvicinare o ritrovare un cantautore che di sicuro non ha bisogno di presentazioni.
Non aspettatevi però un copia- incolla delle canzoni in studio. Dal vivo Ivano sceglie di intraprendere la via dell’essenzialità attraverso un approccio rigorosamente acustico, col risultato di un concerto particolarmente concentrato sull’intensità della voce e dell’interpretazione, dove la parola, lirica e riflessiva, emerge in primo piano, rafforzata dal contatto col pubblico.
Ci si trova così a tu per tu con un live in cui fondamentale è l’atto dell’ascoltare e dell’esser presenti. Nessuna concessione al sogno, all’evasione, molta alla poesia e all’impegno. Fossati è autore concreto, coerentemente partecipe ai suoi tempi e consapevole della necessità di viverli appieno e a mente lucida, adesso più che mai.
14 tracce che in ordine sparso percorrono una scaletta che va dal 1986 di Settecento giorni ai più recenti Lindberg e Macramè, fino ad arrivare a Lampo Viaggiatore, edito l’anno scorso.
Si incomincia nel segno della classica Treni a vapore, scritta per la voce della Mannoia, per poi trovare subito dopo Pane e coraggio, premio Amnesty International per la perspicacia e la finezza con cui affronta il tema dell’immigrazione clandestina, tanto da guadagnarsi un posto d’onore anche nella colonna sonora del documentario Mare Nostrum.
Il senso della dignità umana, la consapevolezza dell’ingiustizia da cui siamo ammorbati tradotta da Buarque de Hollanda (Ah che sarà), l’autobiografismo mai sfacciato ( L’uomo coi capelli da ragazzo), e, immancabile, l’amore per una donna e la natura stessa dell’amore (Il bacio sulla bocca, L’angelo e la pazienza) sono come sempre i temi cari attorno a cui vengono rifinite trame musicalmente nitide e sofisticate, pennelate da sfumature jazz od esotiche.
La “pensante leggerezza” di Fossati è qui percepibile più che altrove e tocca un apice nell’esecuzione della Pianta del the, orientaleggiante sermone sul concetto del “trovare e conservare”, nonché in quella Notte in Italia che ad ogni ascolto sa insegnarci quanto sia grande “la fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato”.
Inevitabile l’omaggio all’amico De Andrè, con cui condivide il brano scritto a quattro mani Smisurata Preghiera, atto d’accusa contro ogni potere incurante di chi difende ad alto prezzo la propria appartenenza a una minoranza, la sua preziosa diversità.
Dulcis in fundo, per consacrare il significato di una poetica singolare in quanto a spessore etico, Fossati saluta significativamente il pubblico con Il disertore. La voce nuda e sola risuona nell’auditorio rammentandoci attraverso le parole di Boris Vian quanto sia importante dire no al militarismo e ad ogni tentazione guerrafondaia. Riportiamo di seguito il testo:

In piena facoltà,
Egregio Presidente,
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest'altro lunedì.
Ma io non sono qui,
Egregio Presidente,
per ammazzar la gente
più o meno come me.
Io non ce l'ho con Lei,
sia detto per inciso,
ma sento che ho deciso
e che diserterò.

Ho avuto solo guai
da quando sono nato
e i figli che ho allevato
han pianto insieme a me.
Ma mamma e mio papà
ormai son sotto terra
e a loro della guerra
non gliene fregherà.
Quand'ero in prigionia
qualcuno m'ha rubato
mia moglie e il mio passato,
la mia migliore età.
Domani mi alzerò
e chiuderò la porta
sulla stagione morta
e mi incamminerò.

Vivrò di carità
sulle strade di Spagna,
di Francia e di Bretagna
e a tutti griderò
di non partire piú
e di non obbedire
per andare a morire
per non importa chi.
Per cui se servirà
del sangue ad ogni costo,
andate a dare il vostro,
se vi divertirà.
E dica pure ai suoi,
se vengono a cercarmi,
che possono spararmi,
io armi non ne ho.

Ivano Fossati, Tour Acustico-Dal vivo vol.3
Cd, Sony,2004-prezzo 20 euro
link: www.ivanofossati.net



Tetes de bois: storie d’amore e d’anarchia sul filo della memoria.

Ancor prima di essere una band, I Tetes de Bois incarnano un’ideologia, un modo di vivere, una visione della realtà che passa attraverso lo sguardo del disincanto e dell’ironia, della malinconia e dell’anarchia.
Le loro canzoni sono racconti che attingono dalle zone in cui la quotidianità diventa immagine poetica o spunto di riflessione sui grandi temi dell’uomo contemporaneo.
In questa operazione che vede indissolubilmente intrecciarsi ragione e sentimento, impegno ed intimismo, la memoria assume un ruolo fondamentale. La memoria storica naturalmente, ma anche quella che riguarda un intero aspetto della tradizione letteraria del ‘900 europeo, in cui includiamo a pieno titolo il filone cantautorale.
La poetica di Andrea Satta, voce e leader del sestetto, è infusa di questa tradizione, ne trae linfa vitale a piene mani. Le “teste di legno” cantano di amore, politica e morte con la stessa passione e coerenza che furono dei grandi artisti a cui amorevolmente si ispirano: De Andrè come Brassens, Baudelaire e Rimbaud come Dino Campana, e, su tutti, Leo Ferrè; ma fortunatamente nel loro caso non si tratta di vuoto citazionismo, di mero compiacimento intellettualoide .
I Tetes de bois provengono dalla strada, da un passato fatto di spettacoli su uno sgangherato camioncino Fiat e concerti improvvisati nello squallore delle metropolitane, delle fabbriche abbandonate e delle stazioni; i luoghi in cui la “Storia” si materializza nelle singole storie della gente che vi è transitata , trascinandosi dietro i suoi piccoli drammi e le sue piccole rivoluzioni, e a volte qualche tragedia.
I loro brani nascono dunque da un vissuto intenso e d’eccezione, destinato a incrociarsi con le parole e i pensieri dei maestri quasi per necessità, a causa di un’affinità intima e viscerale, provata e sentita sulla propria pelle.
In Pace e male questa affinità è riflessa sia in splendidi tributi (Quella ferita di Ferrè e Amore che vieni, amore che vai di De Andrè sono i più riusciti) che nella stessa scrittura poetica e musicale di Satta, all’interno di un’opera nell’insieme complessa, dall’impatto poco facile, in cui si spazia dal pop sofisticato al preziosismo di atmosfere jazzate e fumose, che hanno valso ai Tetes de bois l’indovinata definizione di “band d’autore”.

Tanti sono gli amici chiamati a dare il loro contributo, da Marco Paolini a Daniele Silvestri .Tra questi, Paolo Rossi incarna l’inarrendevole cretino di Io sono allegro, pop song ingannevolmente spensierata, inno all’idiozia intelligente di petroliniana memoria e all’”infanzia che ci aspetta”; Gianni Mura e Davide Cassani partecipano invece alla Canzone del ciclista, brano ispirato alla mitica figura di Fabio Casartelli, medaglia d’oro alle olimpiadi del 1992, morto fatalmente tre anni dopo per una caduta durante il Tour de france. La vicenda del campione diventa allegoria della gioia e della dignità di vivere e andare avanti nonostante la fatica delle “salite” che dobbiamo affrontare, anche a costo delle estreme conseguenze.
E poi ancora storie d’amore nate nei manicomi (Tute), storie di opportunisti trasformisti (Dott. De Rossi) e sfoghi estemporanei densi di rabbia e ironia (Vomito).
A complemento del primo cd ne troviamo un secondo intitolato Autoradio e autovideo, sezione-collage che ci riporta al tema della memoria.
Frammenti sparsi di canzoni cantate dal vivo, cronache di vecchi eventi sportivi e l’emozione di riascoltare la voce di Leo Ferrè in un intervista d’epoca, per non dimenticare chi ha avuto “il coraggio di parlare di fica, di vita, di morte e di infinito”.

Tetes de bois, Pace e male, ed.musicali Tetes de Bois/movimento s.r.l.,2004
Prezzo 15 euro
Link: www.tetedesbois.com
Artisti correlati: Leo Ferrè, Vinicio Capossela, Daniele Silvestri.



Il cerchio magico degli Anima

Avreste mai pensato di riconoscere il tema di “Friends” dei Led Zeppelin in un canto tradizionale salentino? O di ballare la pizzica circondati dalla scenografia dei balletti russi o in un bosco medievale?
Ebbene, la musica degli Anima è un cerchio magico in cui tutto può accadere.
Il combo diretto da Gianfranco Salvatore, musicista poliedrico, musicologo affermato nonché fondatore della Gas Tone records, si avventura con questo cd d’esordio in un esperimento crossover tanto eccentrico quanto ambizioso: affiancare gli strumenti classici e popolari (flauto, tamburello, armonica a bocca) a un set elettrico e digitale (chiatarra elettrica , tastiere, campionamenti ecc.), per dimostrare come la pizzica possa diventare il punto di partenza di un’esplorazione a tutto tondo di suggestioni, stili e suoni distanti nel tempo e nello spazio. Un lavoro complesso e appassionato, che vede all’opera musicisti d’eccezione quali Vito De Lorenzi ( collaboratore tra l’altro di Teresa De Sio) e Danilo Cherni ( autore di musiche per film, qui in veste di percussionista e tastierista).
Queste cinque lunghe tracce si addentrano nella visceralità dei canti dialettali attraverso modalità che attingono in particolare al progressive degli anni ’70 e al Jazz. Sorprende come le antiche filastrocche, cantate dalla voce mediterranea di Elisabetta Macchia, si rivelino in tutta la loro portata universale senza risultare snaturate dalle innumerevoli e “improbabili” contaminazioni.

In “Benedettu”, l’ottocento contadino del Salento va a braccetto con il Petrushka di Igor Stravinskij su una ritmica funky, sino a culminare in un intermezzo rappato dalla Macchia; mentre “Jean Pierre” cita Miles Davis affiancandolo alla melodia della primitiva “Riroralla”.
Ma è in “Inno Mutante” e “Pizzichiatria” che gli Anima riescono a dare il meglio della loro world music ecclettica e priva di pregiudizi. Come suggerisce il titolo, il primo è un’ unico tema che attraversa più trasfigurazioni: dalla psichedelia più eterea si passa a un tribalismo percussivo venato di chitarre e tastiere progressive, su cui spiccano un flauto esotico e un sax sensuale. “Pizzichiatria” invece è un vorticoso mix di pizzica tratto dal repertorio di Luigi Stifani, mitico musico guaritore delle tarantate.
Sonorità etniche, rock europeo e musica classica trovano così nell’atmosfera delle “Notti della Taranta” il filo conduttore che abbatte ogni confine tra culture e linguaggi. Una lezione di “fratellanza” degli stili e dei generi nel nome della tradizione popolare.

Anima-st (cd, Gas Tone Records, 2003)15 euro
Link:www.gianfrancosalvatore.it
Artisti correlati: Nidi d’arac, Daniele Sepe


Vietato morire, vietato non pensare

Da frontman del gruppo new wave fiorentino Moda a cantatautore raffinato e dalla sensibilità singolare, Andrea Chimenti è oggi una delle realtà più apprezzate nel panorama della musica italiana d’autore.
Vietato morire, questa sua ultima fatica generata nell’isolamento della campagna toscana, è un album che nasce dalla contemporaneità, da un’urgenza profonda di far udire la propria voce in tempi in cui, secondo le parole dello stesso autore, “stiamo vivendo una cultura della morte, soprattutto intellettuale e spirituale, dove tutto è appiattito, omologato e non credendo più in nulla non abbiamo più nulla da difendere”.

L’unico divieto, necessario e assoluto che ci si deve imporre è allora quello alla cultura della morte che ci circonda quotidianamente, per ritrovare la bellezza della vita a partire dalle piccole grandi cose, ovvero dalla basilarità del nostro incredibile stare al mondo, accettandone la fragilità e valorizzandone l’unicità.
Il discorso di Chimenti si nutre del suo personale amore per Ungaretti, di cui anni fa musicò Il porto sepolto. La sua è musica fatta di sfumature, da ascoltare in silenzio e con attenzione, come quando si legge una poesia.
Vietato morire è una ricerca personale che nasce dalle corde profonde dell’autore ma che in realtà potrebbe riguardare tutti noi . Ricco di immagini ungarettiane, dal deserto iniziale de La cattiva amante, alle origini ritrovate nella catarsi di Se tornassi alla fonte, l’album segue la struttura classica del viaggio interiore, dallo smarrimento al ritrovamento di sè nelle proprie radici, nel nucleo originario.
Il respiro della natura e del suo metafisico rapporto con l’uomo permea gli undici brani-tappa dell’album, tanto semplici quanto impeccabili dal punto di vista degli arrangiamenti, affidati anche a nomi prestigiosi quali Gianni Maroccolo e Alessandro Fiori.
Un album profondo, fatto di suoni intensi e parole forti. Dedicato a chi vuole pensare, oltre che ascoltare.

Andrea Chimenti-Vietato morire (cd, santeria-audioglobe, 2005) prezzo 15 euro

Link:www.andreachimenti.it

Artisti correlati: PGR, Ginevra di Marco, David Sylvian



Le stanze dell'hotel Tivoli

Il gusto dell'arrangiamento semplice eppure accattivante, come la capacità di creare un'epopea del quotidiano attraverso lo sguardo della poesia, sono peculiarità connaturate al modo italiano di concepire il pop di qualità.
Ciò che contraddistingue la nostra attuale musica d'autore nasce da qui, dal suo riconfluire inevitabilmente al grande fiume della tradizione lirica e melodica dei padri della canzone nazionale. Lo abbiamo visto con i La Crus, Morgan e gli ultimi Marlene kunz, tanto per fare qualche nome.
I Non voglio che Clara, più che ritornare a quella tradizione dopo aver seguito percorsi che se ne distanziavano, la prendono come punto di partenza. E' attraverso l'eredità di Tenco, Battisti e Paoli che arrivano a disegnare le sette "stanze" del loro Hotel Tivoli, con un occhio di riguardo al pop inglese più raffinato ( cui rendono omaggio nella copertina citando gli Smiths.)
Riflessioni intime, chiaroscurali, mai cedevoli all'ovvietà: si parla delle occasioni mancate, dei ricordi, delle incertezze e delle scelte di cui sono fatti i rapporti umani, in particolare quelli tra un uomo e una donna.
Non si tratta però di una vuota operazione-nostalgia o di mero gusto retrò. Qui sono in gioco sentimenti e situazioni universali che solo il lirismo e la sobrietà di un pianoforte, una chitarra, un sax ed un violino possono comunicare al meglio.
Ascoltate il jazz soffuso di Il nastro rosa (citazione non a caso battistiana), la delicatezza con cui affronta il tema della maternità prematura; o le insicurezze coraggiosamente svelate di fronte all'altro in Le paure, un testo che racconta di come è possibile decidere di cambiare, lasciandosi alle spalle tutti i timori.
Rifugio provvisorio degli amanti, zona neutra dove raccogliere i pensieri isolandosi dal proprio spazio-tempo quotidiano; luogo di transizione in cui ritrovare se stessi. Per continuare a viaggiare.

Non voglio che Clara: Hotel Tivoli (cd, Aiuola Records, 2004) 8 euro
Link: www.nonvogliocheclara.it
Artisti correlati: Baustelle, Marlene Kunz, Perturbazione.



Il battito della danza moderna

James Murphy è un trentacinquenne dall´aria timida e impacciata, l´uomo della porta accanto di un qualsiasi modesto appartamento newyorkese.
A vederlo insomma non gli dareste una cicca, eppure dietro quella faccia da americanotto introverso e un po´goffo si cela il produttore della DFA, la casa discografica balzata agli onori delle cronache grazie ai Rapture, nonché il dj che ha rinverdito gloriosamente i fasti della scena punk funk, almeno stando a quello che si mormora in giro.
Ridurre il fenomeno LCD Soundsystem (questa la sigla dietro cui il nostro incide il suo omonimo primo album) a un fenomeno revival è infatti, a mio parere, fortemente limitante.
Mr. Murphy, oltre ad essere un grande professionista e un attento osservatore di mode e costumi, è innanzitutto un uomo dalla vastissima cultura e passione musicale, per il quale è chiara l´inconsistenza del "fattore cool", implicito in ogni forma di revisionismo modaiolo: "Davvero non c´è bisogno che io mi agiti per cercare di essere figo, visto che si tratta di una condizione transitoria.

Le parole figo e buono sono molto diverse. E so di dover stare estremamente attento alla differenza tra i due vocaboli, ne va della mia vita... Se dai retta alle mode finisci per svenderti. Non intendo svendersi in senso convenzionale, ma in quello di produrre qualcosa che non è buono abbastanza".
Murphy sa il fatto suo e si sente. Sforna un disco sorprendente perche´
rimette in gioco e rielabora in profondità vent´anni di cultura dance.
Alchimista del suono, artigiano del dettaglio, Murphy ricama il pezzo con leggere variazioni su un unico ritmo (On Repeat ,Thrills) o lo fa esplodere in un´inaspettata isteria punk ( Movement).
Il disco funk dell´hit Daft punk is playing at my house va stretto a un album che si nutre di gioioso ecclettismo e omaggi spassionati .Cosi´ nel bel mezzo di synth geometrici (Tribulations) e indiavolati ritmi afro -hip hop ispirati ai migliori Talking Heads (Disco infiltrator) trova spazio anche una piccola gemma come Never as tired as when im waking up , malinconica pausa beatlesiana talmente perfetta da infischiarsene dei plagi e dell´incongruenza della sua presenza . Il finale di Great Release è un altro ossequio, commovente e sentito, a uno dei più grandi rivoluzionari della musica rock-pop di tutti i tempi: Brian Eno. Se tutto è stato già detto, l´importante è il modo in cui riutilizzare gli ingredienti.E Murphy senza dubbio ci mette quello più importante: il cuore.
(febbraio 2005)

LCD Soundsystem-st (EMI-DFA,2005) 15,90 euro
Link: www.dfarecords.com
Altri artisti correlati:
Daft Punk, Pop Group, P.I.L, A Certain Ratio.


Ritmi fratturati nel post-pop.
di Stefania Buonaguidi

All'attivo dal 1995, inglesi di provenienza, gli Hood si mostrano sin dal loro esordio ben lontani dalla leggerezza del pop britannico perseguendo un percorso che, valutato nell'arco dei suoi dieci anni, ben rappresenta l'evoluzione di molta musica indie dagli anni novanta ai giorni nostri.
Sono cresciuti inoltrandosi nei territori più delicati e psichedelici del post-rock, levigando le sonorità aspre e rumorose degli inizi in vista di uno sperimentalismo melodico aperto alle più impensate contaminazioni.
L'apice lo toccano in "Cold House", album del 2001
preceduto dal mini ep "Home is where it hurts", del 2000. E' soprattutto a partire da questi due lavori che l'aspetto psichedelico e quello post-rock si rivelano
principali nella poetica della band, emergendo in particolare su due livelli che si fondono magicamente creando atmosfere suggestive: quella melodica, distesa e malinconicamente elegante negli intrecci di chitarra, strumenti a fiato, pianoforte e archi; e quella elettronico, data dalle incursioni del sinth, dai ritmi fratturati della drum machine e dai campionamenti.

In "Outside Closer" gli Hood raffinano la loro formula divenendo i cantori del "paesaggio" post-pop per eccellenza. "Post-pop" in quanto, nonostante rimanga sempre in primo piano l'influenza di gruppi propriamente post-rock come Mogwai, Labradford, Bark psyhcosis o Sigur ros, gli Hood hanno la capacità di non disperdersi nella sperimentazione pura ma di contenersi nei territori di un pop raffinato di matrice anni ottanta, (Talk Talk), o anni Novanta (Notwist, Lali Puna, Arab Strap.) Inglesi e snob in "The Negatives", ammiccanti alle hit del momento in "The lost you". Ma "Outside Closer", pur nella varietà di suggestioni sonore derivanti da altri generi musicali (ambient,hip hop, dub, dark-folk) trova la sua unità di fondo in un unico sentimento riconducibile a una sensibilità onirica e crepuscolare, quasi "pittorica" nel tradurre le emozioni e gli stati d'animo, fino alla splendida "Closure". Decisamente consigliato l'ascolto solitario,magari al buio e al caldo delle coperte, per risvegliare l'immaginazione o addormentarsi dolcemente.

"Outside closer" Hood (Domino-2005) 19 euro

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