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Un dramma anche nostro

Il tragico sbarco a Gela di 160 clandestini
12 settembre 2005
Gennaro Matino (teologo)
Fonte: Il Mattino

Undici settembre 2005: tragico sbarco a Gela di 160 clandestini stipati su un barcone in cerca di speranza. L’ennesima illusione di povera gente che annega nei nostri mari, ma quegli undici corpi, trovati sulla spiaggia, questa volta fanno ancora più male. Solo una coincidenza, certo, eppure quegli undici corpi sembrano rendere ancora più profondo quel buco nero della civiltà venuto fuori, in maniera spietata, quell’11 settembre del 2001. Una data fatidica che, da quattro anni è sinonimo di paura, di terrore, di dolore, è ritornata quest’anno, in maniera meno eclatante ma non meno drammatica, a richiamare in causa le nostre coscienze.
Solo undici morti, una cifra insignificante se paragonata a quelle delle immani tragedie delle Torri Gemelle, dello tsunami, dell'ultimo uragano che ha colpito New Orleans o delle ultime terrificanti inondazione avvenute in India, ma un morto o mille non fa differenza perché quando sono gli innocenti, i deboli, i poveri, gli ultimi della terra a pagare con la vita il prezzo di un mondo lacerato dall'ingiustizia, ogni volta muore una parte di noi, quella dignità che ci rende uomini. Forse non ce ne rendiamo conto, ma ci stiamo abituando all'assurdo: fratelli muoiono nelle nostre strade, sulle nostre spiagge e sembra quasi che sia un fatto normale. Eppure faremmo bene a svegliarci, al di là dei patetici commenti che durano il tempo del ripescaggio dei corpi e la chiusura delle bare. Di chi è il problema, chi è in realtà a subire l'ingiustizia e il sopruso? Il dramma dei clandestini non è il dramma del nostro paese, non è nemmeno il dramma che arrovella la mente di chi ci governa, ma è il dramma dei disperati che tentano invano di sbarcare sui nostri lidi in cerca di pane. Ed è il dramma di ognuno di noi che, incapace di spezzare il pane con chi è affamato, si affanna a cercare magiche soluzioni o, peggio ancora, vorrebbe chiudere le frontiere per difendere il proprio posto di lavoro, il proprio spazio, la propria casa; vorrebbe chiudere gli occhi per non vedere, per non sapere che mentre in occidente mangiamo la nostra condanna, altrove c'è chi ogni giorno muore di fame. Il dramma dei clandestini, con l'inevitabile e oggettivo problema dell'accoglienza, ci piaccia o meno, è il dramma di un mondo diviso tra chi ha tutto e chi non ha niente. È il dramma di questo mondo che ha globalizzato il miraggio del benessere senza fare i conti con le risorse della terra, perché il benessere può sussistere in una parte del globo solo a patto di impoverire l'altra parte del pianeta. Non è chiudendo le frontiere, allora, che risolveremo il problema, né chiudendo il finestrino dell'auto ogni volta che si accosta un extracomunitario, che daremo risposta alla nostra coscienza. È aprendo la mente e il cuore all'impegno per un'equa distribuzione dei beni della terra, è lottando per l'azzeramento del debito pubblico dei paesi poveri, è investendo maggiori risorse nelle strutture pubbliche di accoglienza, è aprendoci al vero significato della parola solidarietà che eviteremo il collasso delle politiche nazionali e internazionali, sempre più incapaci di risolvere le emergenze e i conflitti che affliggono il mondo. Mentre ad Assisi si marciava per la pace, mi sono chiesto che senso avesse fare memoria dell'11 settembre se, proprio ieri, nello stesso giorno, undici corpi senza vita, senza nome, senza storia sono approdati sulle nostre spiagge a ricordarci che continuiamo a dimenticare che al di là del mare c'è chi ha bisogno di noi.


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