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Intervista alla vicepresidente della Banca Mondiale Gressani

Consigli usurati

Lotta alla corruzione e Africa rimangono due capisaldi dell’istituzione. «La Banca ha imparato che imporre la propria opinione a un governo non funziona. Diamo solo suggerimenti. Se non sono accettati, preferiamo non erogare prestiti».
10 settembre 2007
Gianni Ballarini
Fonte: Nigrizia
Settembre 2007

Gira una storiella legata alla Banca mondiale (Bm). Racconta di un abitante di un villaggio che si reca presso il saggio del luogo per chiedergli in prestito l’asino. Il saggio, mentendo, giura che il suo asino non si trova lì. Ma, proprio in quell’istante, l’animale raglia. Dopo un breve momento d’imbarazzo, il saggio chiede: «Ma tu a chi credi? A un saggio o a un asino?». I saggi della Bm insistono, ancora oggi, nel promuovere nei paesi in via di sviluppo la mitologia delle prescrizioni liberiste. Eppure, sono stati raccolti pacchi di prove sui danni provocati alle economie più povere da quelle politiche. «La sua è una visione ideologica. Ciò che proponiamo è figlio della nostra esperienza. Anche se abbiamo imparato che è un errore imporre a tutti i costi la nostra opinione».

Daniela Gressani, cinquantunenne di origini venete, porta in giro il verbo del libero mercato e dell’integrazione al commercio internazionale dal 1988, anno in cui è entrata nell’istituzione di Bretton Woods. Dal settembre 2006 ne è diventata vicepresidente, responsabile per il Medio Oriente e Nord Africa. Ad oggi, è l’italiana più alta in grado in un’organizzazione internazionale. A lei il falco neoconservatore Paul Wolfowitz, prima d’essere cacciato dal vertice della Banca per essere sostituito da Robert Zoellick, aveva affidato le operazioni della Bm in Iraq.

Dottoressa, non può negare, però, che la Bm, anche dopo le bufere nate con il caso Wolfowitz, sta vivendo una crisi di legittimità.

Si sbaglia. La Banca ha certamente vissuto una crisi di leadership, che però è stata superata. La sostituzione di Wolfowitz con Zoellick non ha minimamente incrinato la legittimità della missione della Bm. E anche nel momento più confuso della crisi, tutti noi abbiamo continuato a lavorare alacremente nei paesi, per rispettare la nostra mission, cioè la lotta alla povertà.

Tuttavia, metà dei 23 miliardi e spiccioli distribuiti dalla Bm nel 2006 è andata a paesi a medio reddito, come Messico e Cina.

Perché, “tuttavia”? Stiamo parlando di una vera e propria banca che emette titoli obbligazionari, riceve soldi dai mercati finanziari e presta questi soldi, come una banca cooperativa, a paesi a medio reddito. Sono paesi poveri, ma anche abbastanza ricchi da poter ripagare la Banca. Penso alla Cina, all’India, al Nord Africa... Poi ci sono i paesi in via di sviluppo (Pvs) a basso reddito: anche loro prendono soldi a prestito dalla Banca. Ma è prestito a tasso zero. Questi soldi ci vengono dati da amministrare dai donatori e noi li gestiamo attraverso una nostra struttura che si chiama Ida (International Development Association), l’Associazione internazionale per lo sviluppo.

I due capisaldi dell’amministrazione Wolfowitz avrebbero dovuto essere la lotta alla corruzione e la good governance…

La stoppo. In realtà, i suoi due capisaldi erano Africa e lotta alla corruzione.

Una gestione che non sembra, comunque, aver ottenuto grandi risultati, se non alimentare regimi autoritari fondamentalisti e l’ala radicale dei no global.

In realtà, stiamo facendo progressi. Ovvio che, in due anni, non si possano ottenere risultati strabilianti. Lo sviluppo prende tempo. Tuttavia, come non ritenere una buona risposta l’aver unificato il fronte contro la corruzione? Tutti i donatori hanno riconosciuto la lotta a quest’ultima come uno degli elementi fondamentali per abbattere la povertà. Tutti sono impegnati a chiedere conto ai paesi beneficiari su come sono utilizzate le risorse, affinché non finiscano in mille rivoli a favore di funzionari corrotti. Si è superata la fase in cui si pensava che la corruzione fosse un fenomeno isolato e di alto profilo. Ora c’è la consapevolezza che si tratta di una realtà molto più diffusa e molto più specifica. In alcuni paesi, essa colpisce il capo dello stato; in altri, gli insegnanti o i medici. E dobbiamo mettere in campo strumenti diversi, a seconda di come si manifesta il fenomeno corruttivo. C’è un altro risultato ottenuto in questi anni.

Quale?

Oggi è condivisa l’idea che non ci dobbiamo preoccupare solo di come si spendono i soldi dei donatori. Lotta alla corruzione significa, ormai, anche aiutare i governi a usare bene tutte le loro risorse. Quelle risorse che servono per pagare gli stipendi degli insegnanti, per pagare i ponti…

La Banca si fa vanto di aver accantonato la politica degli “aggiustamenti strutturali”. Invece, spesso, misure draconiane mettono tuttora in difficoltà i paesi. Non solo: in alcuni casi gli approcci discrezionali nel concedere o meno prestiti sono letti come un tentativo di favorire questo o quell’altro paese, in funzione di specifici interessi geopolitici. In particolare, quelli americani. È così?

I nostri consigli si basano sui fatti, che possono piacere oppure no, a seconda della visione politica dei diversi governi. Ma ciò che sosteniamo con forza è basato sulla nostra esperienza. Ad esempio, siamo convinti che l’integrazione nel commercio internazionale aiuta la lotta alla povertà. Una convinzione non ideologica, ma basata su fatti concreti. Prendiamo un paese come il Vietnam, a guida comunista: ha ottenuto grandi successi integrando la sua economia nel commercio mondiale. Considererei un atteggiamento irresponsabile dire a un paese: «Ah, non importa se non vuoi liberalizzare il tuo commercio estero», quando sappiamo bene che gli esempi positivi affermano il contrario. Siamo coscienti che la nostra posizione si scontra con posizioni ideologiche diverse. Quello che possiamo fare è limitarci a dare consigli.

Consigli o imposizioni?

La Banca ha imparato che imporre la propria opinione a un governo non funziona. Dare un prestito a condizioni che noi consideriamo giuste, ma che il governo non ritiene tali, non va bene. Questo è certo. Tentiamo, allora, la strada del dialogo con gli esecutivi. Se loro non sono in condizione di mettere in pratica i nostri suggerimenti – per motivi politici, economici o quant’altro –, preferiamo non erogare prestiti. Perché quello che abbiamo scoperto è che dare un prestito “condizionato” a un paese che non accetta le “condizioni” significa generare altro debito.

Alcuni paesi, come la Cina, finanziano i Pvs senza porre condizioni…

… o chiedono condizioni diverse, magari non di politica economica, ma che si basano sull’accesso a mercati o risorse.

Ok. Ma questa politica non delegittima il ruolo della Bm?

Delegittimare no. Certo, il nostro ruolo rischia di diventare secondario e l’intervento meno efficace. Tuttavia, la Bm è attiva nel lavorare con altri donatori per coordinarsi e per far sì che gli interventi non siano in conflitto tra loro. È un approccio indispensabile, perché non ci sono così tante risorse per lo sviluppo da poterle sprecare.

Problema di natura strutturale della Banca: la rappresentanza (un dollaro-un voto) è troppo legata alle capacità finanziarie degli stati membri. Così, i paesi beneficiari sono, di fatto, estromessi dalle stanze decisionali. L’Africa, ad esempio, è rappresentata solo per il 7%.

È la stessa istituzione che riconosce come un problema la scarsa rappresentatività dei Pvs nel cda della Banca. Sono in atto diversi tentativi per aumentare questa rappresentanza. Non c’è, tuttavia, l’accordo su come farlo. Vale la pena ricordare che la Bm è stata creata negli anni ’40 e rappresenta un assetto internazionale figlio di quella stagione. Ora serve un ripensamento più ampio.

Siete accusati anche di gigantismo tecnocratico. Uno studio dell’ex dirigente della Bm, De Tray, parla di 10mila professionisti che lavorano nell’istituzione e propone di tagliarne un 40%.

Siamo troppi? Dipende da che cosa si vuol far fare alla Banca. La mia opinione, visto quello che produciamo in fatto di prestiti e donazioni e in fatto di conoscenza poi distillata ai vari paesi, è che non siamo tanti. Penso, però, che si dovrebbe produrre di più certe cose rispetto ad altre.

Producete molti studi che sono poco realizzabili e realizzati. Vi accusano di essere troppo tecnocratici.

La lotta alla povertà richiede una riflessione indipendente, senza pregiudizi, non ideologica. Tecnica, appunto. Basata sui fatti. Il nostro compito non è diffondere un’ideologia, ma aiutare i paesi a uscire dallo stato di disagio economico. E questo si fa con conoscenze tecniche.

Efficienza, dice lei. Però un rapporto 2006 di Social Watch (che raggruppa più di 400 ong europee) afferma che la Bm riceve dai paesi del sud del mondo più fondi (compresi gli interessi) di quanti ne eroga annualmente a essi.

Questo rapporto non lo conosco. E non so da dove tragga certe conclusioni. Alla fine dell’anno la Bm ha come entrate – prendendola alla larga – i profitti di capitale e gli interessi dai prestiti. Come uscite, ha il bilancio amministrativo dell’istituzione (affitto, dipendenti…) e gli interessi che paga sulle obbligazioni. Da questa struttura finanziaria ci può essere, ogni anno, un profitto o una perdita. Normalmente, c’è un profitto netto. Quest’ultimo lo utilizziamo in due modi: una parte, come tutte le banche, lo mettiamo in riserve; il resto è impiegato per le donazioni ai Pvs e gestito dall’Ida, il cui fondo è integrato dai paesi donatori. Erogazioni ai Pvs a tasso zero. Non capisco, quindi, su cosa si basi l’affermazione che esiste un gap tra ciò che la Banca dà ai Pvs e ciò che riceve da loro.

Uno studio del Gruppo indipendente di valutazione (Gie) della Bm del 2006 afferma che è di fatto fallita la politica del condono del debito. Condivide questa posizione?

La politica del condono del debito ha fatto progressi. Ma è vero che da sola non basta. Senza l’apporto di nuovi aiuti per finanziare investimenti e servizi di base, il condono non può far molto.

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