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Nonviolenza(febbraio 2004)

Non uccidere per non morire

Nonviolenza nell'Islam - Da ogni guerra si torna o morti o assassini - Chi uccide muore più di chi è ucciso - Dalla tenaglia si esce con l'obiezione di coscienza, che oggi tocca ad ogni cittadino/a.
16 dicembre 2003
Fonte: Pubblicato su "il foglio" n. 309, febbraio 2004; www.ilfoglio.org

«Andare verso la morte, uccisi ed uccisori, vittime ed assassini, rovescia la ragione per cui si nasce e si cresce; gli atti quotidiani e le energie spese non sono più un arricchimento del patrimonio umano, ma il contrario; ed ancora di più quando questa scelta viene studiata e pianificata per uccidere cittadini inermi o sparare nel mucchio: qui non è persa solo la speranza nel presente, ma anche la speranza nel futuro, è la morte della speranza stessa anche quando può sembrare di vincere. Vincere che cosa, se perdi te stesso? La nonviolenza può rappresentare la conquista più alta che i progressisti democratici possono fare per motivi etici, perché nobilita non soltanto i loro atti politici, ma anche il loro modo di vedere e di pensare il mondo e l'essere umano nella sua centralità, dentro l'agire politico e le sue scelte fondamentali per il futuro».
Così scrive Alì Rashid, primo segretario della delegazione palestinese in Italia (in La nonviolenza è in cammino, nbawac@tin.it , n. 739, 23 novembre 2003), in risposta all’appello di Farid Adly, che comincia con queste parole: «Noi intellettuali arabi e musulmani, presenti in Italia e in Europa, non possiamo più esimerci dal prendere una posizione chiara ed esplicita di rifiuto del terrorismo» (ivi, n. 738, 23 novembre 2003).
Le prime parole del brano citato di Rashid ricordano un detto di Mohamed, il profeta dell’Islam: «Disse l'Inviato di Dio, il Profeta: "Quando due musulmani si affrontano, armati di spada, l'ucciso e l'uccisore andranno all'inferno". Allora gli chiese il discepolo Abu Bakrah "Questo per l'uccisore, o Inviato di Dio, ma perché per l'ucciso?". Rispose il Profeta: "Perché bramava uccidere il suo compagno"». (Detti e fatti del Profeta dell'Islam raccolti da al-Buhari, a cura di V. Vacca, S. Noja, M. Vallaro, Utet, Torino 1982, cap. II, La fede, pp. 83-94, n. 13; citato in Per un percorso etico tra culture, a cura di Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli, Ed. Carocci, Roma, 2a edizione, 2003, pp. 173-174). È evidente l’assonanza col vangelo: «Tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (Matteo 26, 52), dove non si tratta solo del perire fisico, ma del perire umano.
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Bisogna chiarire il famoso detto di Christa Wolf: tra l’uccidere e il morire l’alternativa è vivere. Il vivere, infatti, non sfugge al morire. Il dilemma da cui vogliamo uscire vivi è tra l’uccidere e l’essere uccisi. Questa è la tenaglia maledetta con cui la guerra, e ogni violenza, ti persuadono ad uccidere, rubandoti l’umanità per lasciarti la vita animale.
Da ogni guerra si torna o morti o assassini. Si salvano i disertori. Uccidere è morire ancor più che l’essere uccisi. Infatti, io morirò certamente, o per limite naturale, o per mano umana. Dal punto di vista della mia situazione (diverso è per chi mi uccide), il venire ucciso sarà soltanto un’anticipazione temporale rispetto al morire. Forse potrebbe essere addirittura meno doloroso e umiliante di una lunga decadenza e malattia. Non posso sapere se guadagno o perdo vita nel venire ucciso, come Socrate non lo sapeva del semplice morire. Perdo anni di vita, ma, come diciamo giustamente, conta di più dar vita agli anni che anni alla vita. Non è affatto detto che venire ammazzati sia il massimo male, da cui difenderci con ogni mezzo. Se mi uccidono mentre lotto per una causa giusta, muoio vivendo per un motivo umano, e non per mero esaurimento biologico.
Invece, se io uccido, anche per difendermi dall’essere ucciso – per questo atto (difesa legittima, omicidio legittimo, depenalizzato) la società non mi condanna - mi faccio autore di morte, la morte mi usa; divento rapinatore di una vita che devo guardare, anche quando è colpevole, con rispetto sacro e assoluto, se voglio sperare lo stesso rispetto. L’evoluzione umana non è ancora arrivata, nelle morali, nelle leggi, nelle stesse religioni, a saper superare la giustificazione dell’uccidere per evitare di essere uccisi. Anche le legge migliori (Costituzione italiana, Carta dell’Onu) giustificano ancora, entro molti limiti, la guerra di difesa. Ma le alternative a questi omicidi legittimati sono la necessaria direzione di ricerca, spirituale anzitutto, quindi pratica e politica.
Se io uccido una vita tolgo rispetto alla mia vita. Questo è il più serio fondamento possibile alla pena di morte: non la vendetta, ma la presunta perdita del diritto alla vita in chi toglie ad altri la vita, a cui hanno diritto. Eppure, la pena di morte va ugualmente condannata, perché bisogna evadere, come individui e come società, dal mimetismo riproduttivo del male, e trascenderlo. La legge contro il crimine non può somigliare al crimine.
Invece, se vengo ucciso, mi è tolta la vita fisica, ma diritto e dignità, indistruttibili, sono intatti, anzi risaltano, come afferma l’onore che rendiamo alle vittime. La dignità è inviolabile: «Non vi spaventate per quelli che possono uccidere il corpo ma non possono uccidere l’anima» (Matteo 10,28). Qui non si tratta di una sostanza immortale, come ha pensato una filosofia, ma del senso e valore imperdibile della vita offesa, che dunque non rimane perduta.
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L’obiezione di coscienza alla pena di morte, alle economie omicide, alla guerra, all’esercito, alla fabbricazione e commercio di armi, alle spese e alla cultura militare, alle politiche che includono tutto ciò nel catalogo dei propri mezzi; il rifiuto del reclutamento obbligatorio come di quello mercenario, la propaganda antimilitarista, la condanna delle culture e politiche di dominio; queste obiezioni oggi non spettano solo al soldato, ma al cittadino e alla cittadina qualunque, ribelli nonviolenti alla società violenta, che li vuole coinvolgere in mille modi. Tutto questo, unito all’impegno costruttivo di gestione nonviolenta dei conflitti, è l’atto restauratore di umanità, che afferma l’uscita in avanti, non di lato, dal dilemma bellico: uccidere o venire uccisi.
A questa tenaglia, in entrambi i casi mortale, sfugge anche l’obiettore, come Franz Jägerstätter, che paga con la vita, che non si sottrae al venire ucciso da quella stessa autorità dia-bolica (cioè, operatrice di divisione), che gli comandava di uccidere. E questa autorità non è solo il nazismo, ma ogni stato o potere che fa guerra e violenza, qualunque sia la ragione che adduce.
Sulla tomba di Jägerstätter, nel pellegrinaggio internazionale compiuto il 9 agosto, nel giorno del 60° anniversario del suo martirio-testimonianza, ho visto che un morto come questo – incatenato, decapitato, sotterrato, tacitato, annullato - agisce, parla, convoca, insegna, ammonisce, testimonia, riunisce, incoraggia, consola, guarisce, riconcilia, sprona, mette in cammino, costruisce politica e storia, trasmette uno spirito, dunque vive: è molto più vivo lui oggi di quanto era vivo e potente chi allora lo ha ucciso. É molto più vivo lui di noi che vivacchiamo nella paura e nell’incoscienza. Sperare si deve. Essere ucciso per la giustizia è vivere e produrre vita più del sopravvivere fisicamente. Uccidere è morire più di colui che è ucciso. In Capitini c’è questa idea: la vita senza morte comincia col non uccidere.
Perciò ogni causa giusta – come dice Alì Rashid - deve ripudiare attivamente l’uso della morte, che resterà il contrassegno delle cause ingiuste.

Enrico Peyretti (11 dicembre 2003)

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