In tantissimi, israeliani e palestinesi insieme, per dire “La pace ora”
Organizzato dalla It’s Time Coalition, alleanza di oltre 60 organizzazioni per la pace, la riconciliazione e la convivenza, è stata la più grande mobilitazione contro la guerra dal 7 ottobre: una due-giorni che si è inaugurata nel pomeriggio di giovedì 8 maggio, con un fitto programma di appuntamenti culturali in tutta la città: proiezioni di film, concerti, mostre d’arte di artisti ebrei e arabi, e naturalmente dibattiti e incontri (elenco delle iniziative qui: https://www.timeisnow.co.il/thursday-english).
Ma il piatto ‘forte’ era appunto ieri, venerdì, al Jerusalem International Convention Center, con la plenaria nella Main Hall la mattina e a seguire 12 sessioni simultanee. Oltre 5000 (secondo gli organizzatori) i partecipanti, tra cui parecchi militari israeliani contrari alla guerra in corso, molti familiari degli ostaggi, sopravvissuti agli attacchi terroristici, parenti in lutto per le vittime della guerra, residenti della regione di confine di Gaza, esperti legali, artisti, diplomatici, opinion leaders, sia ebrei che arabi: un bel campionario di società civile per niente rassegnata, anzi in movimento, unita dal forte e corale appello: “It’s now! È ora di porre fine alla guerra“.
“Siamo qui per ricostruire un forte campo di pace” ha esordito l’attore e conduttore israeliano Yossi Marshek inaugurando la sessione mattutina. È seguita la testimonianza del pilota che qualche settimane fa aveva promosso una lettera molto discussa (molto ripresa dalla stampa internazionale), firmata da centinaia di militari israeliani attualmente (e anche non più) in servizio, in cui denunciava l’inaccettabilità delle operazioni di guerra verso obiettivi per lo più civili, e sollecitava l’immediato cessate il fuoco.
Tantissimi gli spunti emersi nella sessione di apertura dal titolo “Ci sono partner e c’è una via”: troppi per essere riassunti in un unico articolo, ci sarà tempo in seguito, anche per un bilancio. Ma indubbiamente il focus tematico principale della mattinata è stato il dibattito circa le varie soluzioni sul tappeto, in vista di una soluzione politica al conflitto. E su questo punto si sono espressi l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, insieme all’ex ministro degli esteri palestinese Nasser al-Qidwa, che hanno presentato il ‘piano di pace’ che da tempo stanno promuovendo.
“La pace è essenziale ma dobbiamo offrire alla comunità internazionale e ai nostri due popoli un piano che possa dirsi fattibile e l’unico piano è la soluzione a due Stati” ha detto Olmert. “Ci sarebbero altre idee, come la soluzione ‘unico stato’ che non ci trova d’accordo, che riteniamo la miglior ricetta per l’infinito scontro fra i due popoli. Siamo per una soluzione che possa offrire un reale cambiamento nelle relazioni fra i due popoli, a cominciare dal diritto all’autodeterminazione, alla libertà di movimento e di voto a parità di condizioni, in condizioni di completa eguaglianza per tutti i cittadini di ciascun stato. E dunque il nostro piano prevede una soluzione a due Stati basata sui confini pre-1967 di Israele: quando il partito Likud entrò per la prima volta al governo, nessuno credeva che Menachem Begin avrebbe fatto pace con l’Egitto e che Israele si sarebbe ritirato dal Sinai, e invece è successo!”
“Questa conferenza è indubbiamente importante” ha aggiunto Nasser al-Qidwa intervenendo in videomessaggio. “Ma poiché l’establishment israeliano farà di tutto per boicottare questa soluzione, dipende da noi credere nella coesistenza, nella redistribuzione dei territori come unica garanzia di futuro comune. Ma senz’altro occorre mettere fine al colonialismo d’insediamento.
Occorre fare una scelta: o si pensa che la terra appartiene già tutta a Israele, che quindi ha diritto di colonizzarla ed espellere la gente che ci vive dalla Cisgiordania come da Gaza; oppure bisogna creare le condizioni di coesistenza per i due popoli, occorre credere nella divisione dei territori, senza escludere forme di cooperazione. (…) La prima cosa da risolvere però è Gaza, è urgente arrivare ad un accordo: per il rilascio degli ostaggi parallelamente al rilascio dei prigionieri palestinesi. E chiaramente la struttura governativa dovrà essere legata all’Autorità Nazionale Palestinese, cui delegare la responsabile per la ricostruzione di Gaza. (…)
Naturalmente sarà necessario negoziare tante cose: insediamenti, rifugiati, misure di sicurezza su entrambi i fronti ecc. Ma niente sarà possibile, se non creeremo una nuova cultura, tra israeliani e palestinesi. Oggi siamo qui per dire che insieme dobbiamo andare avanti e costruire un futuro. Solo così potremo contare.”
Solo pochi minuti prima il giornalista palestinese Mohammed Daraghmeh, presente di persona grazie ad un permesso ‘concesso’ proprio all’ultimo momento, aveva descritto una situazione in Cisgiordania già molto ‘israelizzata’: “Andando da Ramallah a Nablus per esempio c’è tutta una geografia e una quantità di infrastrutture – ponti, strade, segnaletica, aziende agricole, impianti per la produzione di energia solare – che sembra di essere in Israele. Israele ha usato la guerra a Gaza come copertura per annettere anche la Cisgiordania, che per il 60% è ormai soggetto a progetti d’insediamento secondo il ben noto piano di Bezalel (Ministro della Difesa Israeliano), che ha creato un dipartimento apposta per agevolare l’espansione dei coloni, rendendo le comunità palestinesi dei cantoni. (…)
Ma se Israele e Palestina vengono lasciati a loro stessi, non c’è speranza, è da 30 anni che negoziano senza successo, con Israele che ha continuato a mangiare la torta messa sul tavolo negoziale. Senza una forte pressione da fuori per fermare gli insediamenti dei coloni, non c’è futuro per lo Stato Palestinese. Agli israeliani vorrei dire però che l’espansione degli insediamenti sarebbe controproducente anche per loro, perché alla fine si ritroveranno con uno Stato unico, con i problemi che possiamo prevedere. (…) E dunque è importante che su questo problema intervenga anche la comunità internazionale, con sanzioni che scoraggino gli insediamenti, in modo da frenare questa espansione che rende sempre più difficile la soluzione a due stati.”
Sulla questione è intervenuta anche Rula Hardal alla co-direzione (insieme all’israeliana May Pundak) dell’organizzazione A Land for All: “Si parla di due Stati ma la realtà sviluppatasi sul terreno ormai da decenni non è quella della separazione. Siamo interconnessi e dobbiamo capire che occorre un altro piano per rispondere a questa situazione d’interdipendenza. Per questo proponiamo una soluzione confederativa, con istituzioni e soluzioni condivise, per esempio sul piano della salute, dell’ambiente, dell’educazione, cioè … della convivenza. Ci sono poi tematiche difficili che le due parti non hanno mai davvero affrontato, come il diritto al ritorno. Il 7 ottobre e la guerra genocida che ne è seguita sono stati momenti di non ritorno, sia per i palestinesi che per gli israeliani…”
Le ha fatto eco May Pundak: “Pensiamo anche alla crisi climatica, ai corsi d’acqua… dobbiamo capire che la segregazione non assicura a nessuna delle due parti un futuro di sicurezza. L’interdipendenza israelo-palestinese è il punto di partenza.”
In un videomessaggio da Ramallah, il presidente palestinese Mahmoud Abbas si è limitato a una dichiarazione di circostanza: “Attraverso la giustizia, possiamo garantire la sicurezza e un futuro a tutti i popoli della regione: la pace è possibile e dipenderà da tutti noi renderla possibile.”
E in rappresentanza della tanto evocata ‘comunità internazionale’ è intervenuto in video messaggio per ben 5 minuti il presidente francese Emmanuel Macron: “I nostri cuori sono sia con le famiglie Israeliane che con quelle Palestinesi. Sosteniamo con la più grande convinzione questo processo di pace che ha reso possibile queste due giornate a Gerusalemme, in coincidenza con le celebrazioni della fine della guerra 80 anni fa in Europa, e intendiamo essere al vostro fianco per qualsiasi futura iniziativa” e in particolare ha accennato a un molto prossimo tavolo negoziale, che dovrebbe avvenire in Arabia Saudita nel mese di giugno (YouTube qui (150) Macron – It’s time: my message to the People’s Peace Summit in Jerusalem. (09.05.25) – YouTube).
Tra i tanti interventi non potevano mancare quelli di coloro che la guerra ha colpito negli affetti: Maoz Inon (tra i principali organizzatori di questo evento) che ha perso entrambi i genitori amatissimi il 7 ottobre; Liat Atzili, il cui marito è stato ucciso nello stesso giorno; Sigalit Hilel, madre di Ori, ucciso al Nova Music Festival; Elana Kamin-Kaminka, madre di Yannai, ucciso anche lui il 7 ottobre. “E’ da oltre un secolo che siamo vittime di questo ciclo di violenza” ha detto Elana. “E’ ora di utilizzare tutte le nostre risorse di umanità e creatività per la soluzione di questo conflitto, lo dobbiamo ai nostri figli.”
Parole non diverse da quelle della palestinese Soumaya Bashir, dell’organizzazione Women Wage Peace: “Come donne, affermiamo la vita contro chi vuole solo morte e davastazione. Guai rifugiarsi nel silenzio e nel dolore, il momento di unirsi tutte e tutti nell’azione è adesso!” E da Makbula Nassar, giornalista e attivista, l’appello: “Ascoltiamo le grida dei bambini affamati di Gaza. Mettiamo fine alla crudeltà e ai crimini cui da troppo tempo assistiamo, perché non ci sarà ‘un giorno dopo’ per le nostre coscienze e tutti noi meritiamo di essere liberati da questa infinita oppressione. E solo con la pace, potremo esserlo.”
Entrambe le giornate sono state trasmesse in diretta streaming a decine di raduni di solidarietà in più di 20 città in tutto il mondo, tra cui Londra, Berlino, Sydney, New York e Boston. Per l’Italia ci sono state proiezioni collettive a Firenze, a cura della sezione fiorentina di “Sinistra per Israele” e presso l’Università di Udine.
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