Catena di Sanlibero

Catena di Sanlibero n. 1

25 ottobre 1999
Riccardo Orioles (Giornalista antimafia)

Termina qui la lotta al potere mafioso per questa generazione. Abbiamo ottenutodei risultati: Sindona, i cugini Salvo, i cavalieri catanesi. Siamo stati sconfitti su tutto il resto. Queste vittorie parziali ci consentono tuttavia di guadagnare del tempo, di allontanare di qualche anno il pieno radicamento del sistema. L'esito finale è comunque, probabilmente, quello russo: marginalizzazione dei meccanismi democratici, istituzionalizzazione dei poteri di fatto, pubblica assunzione dei poteri da parte delle yakuza.
Le lotte di questi quindici anni - Borsellino, Falcone, la primavera di Palermo, Robertino Antiochia, i Siciliani, Chinnici, i giudici ragazzini morti e vivi - sono servite semplicemente ad allontanare di alcuni anni questo esito. Che è tuttavia il più realistico, nel giro di alcuni anni. La componente Berlusconi è stata ormai pacificamente accolta, a livello tanto istituzionale quanto culturale, nel sistema politico italiano. Ora, ci sono dei problemi tecnici - come trapassare stabilmente da D'Annunzio-Salandra a Mussolini? come far convivere il vecchio Senato del Regno con la moderna Camera dei Fasci e delle Corporazioni? - ma sono problemi tecnici, per l'appunto.
Da siciliani, non riusciamo a respingere un qualche (inutile) orgoglio per il fatto che stavolta, a differenza degli anni Sessanta, non è stata la Sicilia a cedere, ma il rimanente del Paese. Così anche potremmo credere (con lo stesso irrazionale campanilismo) che questa piccola terra, da tanti apparentemente inutili dolori, sortisca almeno - e se non subito, con gli anni - una diversa coscienza di sé, una mitopoiesis alimentata dalle vite versate. Ma stiamo divagando.
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Siamo stati, così hanno detto, una sinistra giacobina. La verità è che lo siamo stati per troppo poco tempo e troppo poco. Siamo stati sconfitti perché, avendo appena sfiorato il "giacobinismo" (la democrazia di massa, la libertà, la coincidenza fra "politica" e vita quotidiana) siamo rapidamente rifluiti nel buon senso tradizionale - girondino. Non ci bastava l'Ottantanove, non ci fidavamo dei citoyens: avevamo bisogno di un Napoleone. E dunque, coerentemente, abbiamo puntato tutto su una battaglia convenzionale. Waterloo.
I liceali palermitani dell'Ottantatré. I giovani della Fgci di Battiati, l'anno dopo - i primi a presentarsi, nel giorno della battaglia, ai Siciliani. I duecento ragazzi che hanno lavorato in Sicilia, fra l'84 e l'85, con SicilianiGiovani. Antonio che ora fa l'operaio a Bologna, ed era una colonna del Coordinamento Antimafia di Palermo; Fabio, che ora insegna in una qualche scuola di provincia, e le sue inchieste sui quartieri palermitani, riprese dalla stampa francese ma non da quella italiana. E Il Cocipa, e il Centro Impastato, e Città per l'Uomo, e Città Insieme, e i Siciliani: povere e vittoriose armate sanculotte, guardate con degnazione dai generali perbene.
Pochissimi, di quei giovani, sono politicamente sopravvissuti. I più, emarginati senz'altro dopo il novantatré; i meno, avaramente cooptati nella sinistra ufficiale; ma a condizione di lasciar perdere fraternité e liberté e camice rosse, bardati con galloni inutili, non più da baionetta ma da parata. Tenenti garibaldini, a Calatafimi e Milazzo; colonnelli sabaudi, a Custoza.
È allora, negli anni dell'Occasione Perduta, che la sinistra si è suicidata. Non c'entrano la Russia e il comunismo, è stato un suicidio tutto italiano. O c'entrano, se c'entrano, molto alla lontana. Nata nel ferro e piombo della guerra mondiale, cresciuta fra le barbarie degli anni Trenta, costretta - per sopravvivere - a svilupparsi come esercito gerarchizzato, la sinistra italiana ha nel suo Dna la divisione fra una base combattiva e vivace, legata alla società civile e spesso sua diretta espressione, e un apparato dapprima aristocratico e poi oligarchico, aperto nelle tattiche ma chiuso alle strategìe; abile nelle battaglie regolari ma impacciato nella guerra a largo raggio. Questa divisione le ha permesso di sopravvivere di fronte alle repressioni di Scelba e di Mussolini. Le ha impedito di vincere, o anche solo di comprendere fino in fondo che cosa la società le chiedesse, negli anni dell'antimafia e nel Sessantotto.
La lotta ai poteri mafiosi, quando ricomincerà, dovrà affrontare tutto questo. Il torto della mia generazione è stato di avere rimosso tutto questo, di aver preteso - per nostro poco coraggio intellettuale - di lottare per la democrazia senza prima risolvere i problemi profondi di democrazia nella nostra cultura e al nostro interno. La prossima generazione - perché è solo ad essa che possiamo rivolgerci ora - terrà conto, se vorrà vincere, di questa feroce lezione. Non c'è antimafia, e non c'è sinistra, senza i liceali di Palermo. Non c'è antimafia, e non c'è sinistra, con le cerimonie "unitarie" al chiuso.
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La vecchia mafia - il vecchio potere mafioso - operava in un quadro internazionale "repubblicano", avente per referente degli stati nazionali. L'America della guerra fredda, l'Italia con la sua appendice meridionale, la stabilità di forze e schieramenti i cui movimenti erano limitati dal sostanziale stato di guerra. Adesso, è tutto più fluido e più veloce. L'America, come soggetto unitario, forse esiste già poco; l'Italia, come ogni altra nazione del vecchio mondo, ha una densità politica forse superiore a quella del Belgio ma certo inferiore a quella di una multinazionale. In questo nuovo quadro, un potere mafioso rischia di essere già ora - ma molto di più fra qualche anno - non più una patologia parassitaria, sia pur pesante, ma proprio una delle forme fisiologiche dell'organizzazione del pianeta. Dopo Badalamenti, Eltsin; non i corleonesi. La Sony, la Coca Cola, e Cosa Nostra. La cultura mafiosa si smafiosizzerà, ma sarà pervasiva.
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Adesso, per fare colore, c'è Cossiga. L'uomo, di poco peso sul piano degli sviluppi reali, è tuttavia interessantissimo - direi, sul piano estetico, affascinante - per l'autobiografia culturale del Paese. Non tanto per la battaglia sfrenata contro i giudici (che mai avrebbe da aggiungere, qui, dopo il regalo fatto a Livatino?) quanto per quel di scespiriano e d'introspettivo che s'intravvede nel tono delle sue concioni. C'è un rancore verso se stesso, ci sembra, un astio da heautontimoroumenos, che nasconde - a lui stesso prima che agli altri - qualche cosa. Azzardiamo che questo qualche cosa possa essere la discrepanza - la crudele discrepanza, in una psicologia siffatta - fra la statura che egli si attribuisce di difensore dell'Occidente e castigatore del comunismo, e le circostanze concrete in cui questa statura ha solo potuto storicamente esercitarsi: non di combattente a viso aperto ma di agente dello straniero, di organizzatore clandestino, di uomo d'ombra. Ad altri è toccato invece, con intollerabile ingiustizia secondo lui, il ruolo dello statista, del politico popolare, del divo; ed egli sa che per sanare quest'ingiustizia è troppo tardi, e che non gli rimarrà - ars longa, vita brevis - che subirla, e di venir consegnato alla storia con quella medesima maschera che per cinquant'anni ha indocilmente e "provvisoriamente" portato. Questo dolore e, diciamo pure, quest'invidia è quello che, in momenti come questi, lo fa parlare.
Non è pericoloso, del resto. Il cuneo dell'offensiva contro di noi, nella strategia del potere mafioso, non è collocato di certo negli inaciditi risentimenti d'un vecchio. È nella campagna "contro la microcriminalità" (morte agli scippatori, libertà ai mafiosi), che oggi è possibile sviluppare con estrema lucidità ed efficienza grazie alla compattezza raggiunta dallo strumento che una volta si poteva ancora denominare sistema dell'informazione.
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Non so su che mezzo stai leggendo, in questo momento, queste righe. Al momento in cui scrivo, non so se esse verranno pubblicate da un giornale, e da quale, o se le diffonderò tramite Internet, o se mi stai leggendo grazie a una stampante laser a 300 dpi - o su un volantino. Faccio il giornalista antimafia da vent'anni, e al ventunesimo anno non sono affatto sicuro di potermi far leggere da te con mezzi "regolari". Probabilmente, questo ha qualcosa a che fare con le faccende di cui sopra.
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