Latina

Molti i punti a favore del presidente, ma su agronegozio, dighe e miniere ha aperto alle multinazionali

Ecuador: Rafael Correa favorito nella corsa presidenziale del 17 febbraio

La sinistra unita con Alberto Acosta e l’Unidad Plurinacional de las Izquierdas
11 febbraio 2013
David Lifodi

 

internet Le elezioni in Ecuador si avvicinano: il prossimo 17 febbraio sapremo quale sarà il nuovo inquilino di Palacio de Carondelet, ma tutto lascia presagire una facile affermazione di Rafael Correa, che si confermerebbe così alla guida del paese andino.

Gli ultimi sondaggi hanno confermato un quadro già abbastanza chiaro. Il candidato di Alianza País viaggia tra il 50% accreditatogli dall’istituto Market e il 63% rilevato da Perfiles de Opinión. Staccatissimi tutti i  candidati di destra, quello con percentuali appena sufficienti è Guillermo Lasso, ex presidente del Banco de Guayaquil in corsa per Creo (Creando Oportunidades): tra il 9% e il 18% le intenzioni di voto. Andranno poco lontano anche Lucio Gutiérrez, l’ex presidente che nel 2005 fu costretto alle dimissioni dopo la rivolta dei forajidos, e Álvaro Noboa, imprenditore miliardario del settore bananiero: entrambi non dovrebbero superare il 4%. Percentuali poco confortanti anche per Alberto Acosta, candidato della Unidad Plurinacional de las Izquierdas, la coalizione di sinistra che ha al suo interno movimenti indigeni, sociali ed ecologisti: le previsioni lo danno intorno al 6%, un vero peccato se questi sondaggi saranno confermati, perché l’ex numero due dell’esecutivo Correa durante la sua campagna elettorale ha messo a nudo le contraddizioni di Alianza País e dello stesso presidente, che a parole predica bene, ma (talvolta) razzola male. Il programma governativo di Correa, “35 propuestas para el Socialismo del Buen Vivir”, sono incarnate in un motto più che condivisibile: gobernar para profundizar el cambio. In effetti, sotto Alianza País le disuguaglianze nel paese sono diminuite, il presidente ha opposto il suo rifiuto alle banche e al Fondo Monetario che intendevano costringerlo al pagamento del debito, si è dato da fare per ridurre la povertà estrema e rendere gratuita l’istruzione di base, solo per citare alcune tra le misure più apprezzate dalla cittadinanza e di cui lo stesso Alberto Acosta gli ha dato atto. E ancora: Correa ha aderito in maniera convinta all’Alba (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América) indirizzando il paese sulla strada del socialismo del XXI secolo, tanto che uno dei suoi contendenti, Lasso, ha più volte dichiarato che, in caso di (improbabile) vittoria, l’Ecuador si trasferirà armi e bagagli sul fronte dell’Alianza del Pacífico, cioè quel blocco economico-commerciale composto da Cile, Colombia, Messico e Perù, e fedele al Washington Consensus. Correa ha impostato la sua campagna presidenziale sul 17 febbraio come giorno spartiacque per il suo paese: una sua riconferma significherebbe far parte del campo socialista, la vittoria di una delle tante destre in campo riporterebbe il paese in quella parte di scenario continentale favorevole alle transnazionali e a tutto ciò che ne consegue. È senz’altro vero che l’Ecuador senza Correa tornerebbe ad essere una democrazia formale guidata dai grandi oligopoli finanziari, ma è altrettanto innegabile che il campo socialista a cui fa riferimento Correa presenta numerose sfaccettature al suo interno: Brasile, Venezuela, Uruguay, Argentina, Bolivia, Nicaragua, El Salvador, l’Honduras e il Paraguay (finchè hanno governato Zelaya e Lugo) sono caratterizzati da tratti assai distinti tra loro. Mettere sullo stesso piano Acosta e la sua Unidad Plurinacional de las Izquierdas e le forze realmente di destra, come ha fatto Correa per tutta la sua campagna elettorale, è quanto meno esagerato. Votare per Acosta non significa fare un favore all’opposizione, che peraltro ha delle pulsioni golpiste ben incarnate dall’oligopolio mediatico del Grupo Prisa e dalla Fundación Ecuador Libre, legata a doppio  filo con la Fundación para el Análisis y los Estudios Sociales dell’ex premier spagnolo José Aznar, che più volte si è recato in visita in Ecuador dal suo amico Guillermo Lasso. Piuttosto, è lo stesso Rafael Correa che mette a rischio la sovranità del paese aprendo all’estrattivismo minerario. Il socialismo del buen vivir, così come la promozione di un’economia sociale, che Correa ha sbandierato per tutta la sua campagna elettorale, rischiano di rimanere solo parole, così come lo sono state per il suo attuale mandato: il presidente ha parlato di processo denigratorio proveniente dalla sua sinistra, che in effetti ha più volte definito la sua coalizione come quella di una “destra mascherata”, ma è l’apertura alle multinazionali del settore minerario, al pari del credito concesso a quelle che commerciano nel campo degli ogm, a consegnare il paese ai potentati economici nazionali e stranieri molto più dei rilievi di Alberto Acosta e dei 150 intellettuali (scrittori, artisti e docenti), che hanno firmato un appello a favore del candidato di Unidad Plurinacional de las Izquierdas proprio per vedere concretamente l’applicazione del buen vivir, della riforma agraria, di una lotta senza quartiere contro l’agronegozio, e di un reale rispetto dei diritti umani. Anche in questo settore Rafael Correa ha mantenuto un comportamento ambivalente, atteggiandosi come paladino dei diritti umani a livello internazionale (vedi anche l’ospitalità concessa a Julian Assange all’interno dell’ambasciata ecuadoriana a Londra), ma perseguendo in maniera decisamente non condivisibile i movimenti sociali, indigeni e ambientalisti impegnati a difendere le risorse idriche, contestare la costruzione delle grandi centrali idroelettriche e, soprattutto, lo sviluppismo minerario. Praticare realmente il Sumak Kawsay (il buen vivir secondo l’idioma indigeno) e rispettare realmente i diritti della natura e dei popoli indigeni significa consultare le comunità prima di procedere con l’estrazione mineraria in aree ambientali protette e il conseguente sgombero violento della popolazione che vi abita, solo per fare un esempio. Al contrario, Correa ha sempre rifiutato di prendere in considerazione ipotesi più sostenibili, ignorando spesso le grandi problematiche ambientali e accusando più volte le comunità indigene di essere tecnologicamente e culturalmente arretrate. Non erano queste le speranze che l’elezione di Correa aveva suscitato tra campesinos, indigeni e movimenti urbani quando fu eletto e dopo che l’Assemblea Costituente aveva lanciato una tra le Costituzioni più all’avanguardia dell’intero continente latinoamericano.

Se Correa si confermerà alla presidenza del paese (e per la prima volta è assai probabile che vi riesca senza andare nemmeno al ballottaggio) di certo l’Ecuador resterà allineato con i paesi dell’Alba e, a livello  internazionale, continuerà ad essere descritto come paese progressista (e sotto certi aspetti realmente lo è), ma il presidente nel quadriennio 2013-2017 dovrà davvero porre in essere seriamente la Revolución Ciudadana, per parafrasare uno slogan di Alberto Acosta. 

 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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