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I miei sacrosanti odi

Non voglio odiare, ma li odio - Odiare il male? - La pubblicità - Razzismo - "Sparate senza odio" - L'odio di classe - La preghiera esaudita
23 febbraio 2009
Fonte: Pubblicato in Servitium, n. 181, gennaio-febbraio 2009, fascicolo su “ODIO/ODI”

I miei sacrosanti odi
Pubblicato in Servitium, n. 181, gennaio-febbraio 2009, fascicolo su “ODIO/ODI”

Dopo aver fatto resistenza, accetto diligentemente questo tema assegnatomi dal curatore Giovanni: “i miei sacrosanti odi” e mi accingo a svolgerlo, a rischio dei possibili lettori. L’assonanza è con l’espressione “i miei sacrosanti diritti”, nella concezione tutta individualistica dei diritti, non equilibrati dai doveri e dalla solidarietà. Sacrosanti perché indiscutibili e intoccabili, al di sopra di tutto. Ci sarebbe, nell’ipotesi del titolo assegnatomi (certamente provocatorio), qualche forma di odio che apparterrebbe ai “miei” diritti (sto scrivendo esattamente nel giorno sessantesimo della Dichiarazione dei Diritti Umani).
Distinguiamo l’odio (altri lo faranno meglio in questo quaderno), dalle passioni simili, più deboli o differenti: antipatia, dissenso radicale, insofferenza, idiosincrasia, ira, indignazione. L’ira è uno dei grandi vizi, ma l’indignazione davanti a cose ingiuste e indegne è giusta, non porta necessariamente all’odio, e neppure è ad esso contigua. L’odio non è l’atto violento che colpisce o offende, ma è la sua radice interiore, nell’animo. Il cuore e non la mano, odia. La mano esegue, ma l’odio c’è, con tutto il suo lavoro di roditore dell’animo e della relazione, anche se la mano non esegue mai. Ci sono omicidi interiori. Il più delle volte, l’odio è insediato come un tumore non esploso: o sordo e pesante come un pietrone nel fondo del fiume, oppure sentimento nutrito attivamente, e questo è il rancore.
Sacrosanto può essere detto l’odio (o gli odi) quando presume altissime ragioni. Come posso parlare di quegli odi sacrosanti, senza esaminare se ne tengo qualcuno nel petto?
Una volta, qualche anno fa, in un incontro tra poche persone con Arturo Paoli, gli confessai: «Io non vorrei odiare nessuno. Ma i tre B, Bush, Blair e Berlusconi, io li odio. Cosa posso fare?». Lui mi rispose più o meno così: «L’odio è una energia, mossa da qualche ragione. Tu prendi quell’energia, lavorala, trasformala in azioni costruttive anziché distruttive». Ovvero, norme per il buon uso dell’odio.
Spero che la mia fosse (e sia ancora) una forte indignazione. Ma a me veniva da chiamarla e confessarla come odio. Io quei tre non li avrei uccisi, ma avrei voluto annientare la loro azione e influenza. Li odiavo per le loro azioni, però devo riconoscere che vedevo (e vedo in chi di loro ancora imperversa) le loro politiche talmente incorporate e connaturali alle loro persone (per quanto noi vediamo del mistero personale) da dirmi convinto che il problema non era e non è tanto politico o culturale, quanto antropologico. Vi vedo un tipo di uomo che considero a dir poco spregevole: impregnato dei maggiori danni che ricchezza, cinismo, abuso retorico dei valori supremi, calcolo, delirio di potenza, possono fare su un povero essere umano, facendone un fallito totale, rovina a sé e agli altri. Nel pieno del loro successo li vedevo umanamente falliti e dannosi. Posso anche dire che il mio disprezzo era un po’ attenuato dalla pena per la condizione miserevole che l’umanità raggiunge in tali persone, e in tutti quelli, a grandi numeri, che le ammirano e le votano.
Non che mi sentissi o mi senta tanto migliore di loro – chi può giudicare i cuori? - , ma almeno io rifuggo, voglio rifuggire, dall’incarnare quel tipo di umanità, anche perché sono ben favorito dal non trovarmi nelle tentazioni della potenza e della ricchezza come loro.
Eravamo negli anni successivi al 2001, quando, in nome dei massimi valori, persino di Dio, si scatenava e si appoggiava la guerra-anti-terrorismo, ovvero il terrorismo-di-stato, pari e contrario al terrorismo-di-banda.
Dunque, di gran cuore li disprezzavo e, per qualche piccolo lato di bontà in me, li commiseravo.
Insomma, li odiavo (e li odio), come ho confessato. Credevo di odiare, con sentimento spontaneo, l’odio, cioè la sopraffazione, il dominio, ma di fatto odiavo anche i suoi protagonisti. Il lancio della scarpa (ci dicono che è simbolo di disprezzo, non fisicamente omicida, nella cultura araba) del giornalista irakeno su Bush, moralmente l’ho fatto anch’io.
Nel 2001, il sentimento dominante negli Stati Uniti, con addolorato, ingenuo e ignorante stupore, chiedeva: «Perché ci odiano tanto?», e rispondeva con la guerra santa, «infinita», per «sradicare il male dal mondo» (furono queste le prime espressioni di Bush, che prometteva quello che non fa neppure Dio).
Così, i capi e il popolo copiavano e duplicavano l’odio patito, senza saper capire che era un colpo di ritorno, un contraccolpo del loro dominio. La vendetta, ripetizione e conferma del male, è stata anche per loro un’immensa infallibile trappola, che, nello slancio per colpire, fa cadere in avanti, come uno che si sporga troppo, perda l’equilibrio, venga trascinato dalla pietra che lancia e sia coinvolto nella distruzione che compie, ottenendo anche la propria autodistruzione. Forse è quello che sta avvenendo nella storia degli Usa come in genere delle potenze del mondo. Altre succederanno, faranno altra violenza, otterranno sia odio sia servilismo. Lo dico senza rassegnazione, perché credo possibile e voglio una evoluzione nonviolenta delle politiche umane.
Ora, odiando Bush, io facevo come Bush. E come lui accampavo le più alte ragioni. Come lui, odiavo l’odio, e così producevo odio.
L’odio, come la violenza (infatti, è violenza spirituale), è contagioso, si riproduce nel proprio oggetto. L’odiato diventa odiatore. Non è questo un problema serio sia negli israeliani che nei palestinesi? Anche chi osserva, come terza parte (così io mi sentivo) odia chi odia per primo e chi odia per secondo. Il primo, poi, per trovarlo veramente bisogna risalire a Caino. Lì ti accorgi che Dio non odia Caino, e lo difende da chi vuole ucciderlo. La via giusta non è odiare l’odio ma sostituirlo con altro, perché la distruttività non dilaghi. Amare i nemici, dice semplicemente il vangelo. Ad odiarli, con ottime ragioni, sono buoni tutti.
È sufficiente la distinzione tra l’errore e l’errante, rimessa in circolo da Papa Giovanni con la Pacem in terris (tra lo stupore e la perplessità di tanti buoni odiatori dei comunisti)? In realtà, essa permette ancora, a chi ha voglia di odiare, di odiare il male ma non il malvagio. Certamente è già un gran passo di liberazione, di purificazione, di giustizia, verso la misericordia e la pace. Ma è necessario odiare il male? È virtù, è “sacrosanto” l’odio del male?
Non so se il diavolo esista o non esista. So che è una bella valvola di sfogo. «Amare gli altri è una pesante croce, ma tu sei bella…», comincia una poesia d’amore di Pasternàk. Amare tutti, anche i nemici, che peso! Perdonare chi ci fa male! Sì, va bene, ma «quante volte?». Ecco che la morale, così brava nel distinguere i casi, ci fornisce un sollievo, una licenza ben lecita: odiare il puro male, la sua incarnazione assoluta. All’inferno il diavolo e i suoi accoliti! Immaginare l’inferno, l’abisso di torture col fuoco, senza scampo né uscita («sempre, mai» dice un pendolo all’inferno, ci insegnava al catechismo una brava suora), è costruire una casa di tolleranza dove i buoni possono sfogare i loro «sacrosanti odi», guardando da lontano, con sacro sadismo, i cattivi nel fuoco. Chi è quel teologo (san Tommaso? Spero di no, non vado ora a indagare) per il quale questo odio piacevole e sacro fa parte della felicità dei beati? Accidenti, che brutto ambiente sarebbe quel paradiso dove ancora si odia, naturalmente di odio sacrosanto! L’odio teologico è il più diabolico di tutti. Se pensiamo di avere le ragioni infinite di Dio nell’odiare, ci facciamo giustizieri senza freno né limite. Si è visto in abbondanza, nella storia. In realtà, Dio ama i cattivi prima dei buoni, per ciò che possono essere, non per ciò che fanno.
Non so se esagero. Io suggerisco, giudichi il lettore.
Sì, l’inferno c’è anche nei vangeli (nel Corano anche di più). Ma la volontà di Dio non è di mandarvi qualcuno, semmai di liberare chi è nell’inferno, il quale è qui, nel mondo.
Ma dunque, sono capace di non odiare, e semmai di amare con tanta pietà, mentre li critico e li denuncio, quei personaggi, sempre immancabili, che incarnano astuzia, menzogna, dominio e violenza? Dico solo che vorrei esserne capace. Intanto, mi impegno a promuovere, come una milionesima parte dell’insieme, una cultura della convivenza opposta alla loro.

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Ancora una confessione. Io odio la pubblicità. Non sono il solo, ma siamo pochi: forse altri la odiano in silenzio e la subiscono. No, io devo dirlo, devo accusarla. Non è solo antipatia, non è solo insofferenza. È odio, un sincero cordiale odio. E tanto più perché a volte è bella, simpatica, divertente, anche se quasi sempre è volgare, profondamente violenta, e falsa di sua natura. La odio perché mi offende, non solo perché seduce e inganna. Un giorno ho trovato con chiarezza il motivo del mio odio, e l’ho espresso così: «Se davanti alla pubblicità non ti senti trattato da cretino, lo sei».
Mi permetto un po’ di indulgenza con me stesso: odiare la pubblicità non è un peccato come l’odiare una creatura di Dio, quale è anche Bush e gli altri. Devo comunque stare attento: anche l’odio più giustificabile fa male a chi odia.

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E ora, vista la trave nel mio occhio, vediamo qualche fuscello in occhi altrui.
Notiamo segni di ripresa, in questo tempo, dell’odio etnico, razziale, odio per il diverso di pelle o di lingua, per l’immigrato: in lui odiamo l’insicurezza, la paura che ci mette, l’ignoranza che sentiamo di fronte a situazioni molto nuove nei rapporti tra i popoli e le civiltà. È facile essere antirazzisti di idea e razzisti in pratica. Si fanno anche oggi politiche e leggi razziali. Ci sono nel contempo anche segni di superamento dell’odio di razza: l’elezione di Obama. Egli, in quanto non nero ma meticcio (figura disprezzata come bastarda), è l’emblema dell’umanità futura, mescolanza fisica e civile dei popoli.

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«Sparate senza odio», dicevano dei cappellani militari ai soldati nella prima guerra mondiale. Non posso rintracciare ora questa testimonianza, ma ricordo bene, perché mi colpì molto, di averla letta da giovane in un giornale dell’Azione Cattolica. Capito? Siate, per obbedienza, strumenti dell’odio-di-stato, che fa la guerra e vi manda ad ammazzare uomini, ma fatelo senza odio per la vostra vittima. Salvatevi l’anima, ché in guerra possono ammazzare anche voi. Restate interiormente puri dal male che fate. Non occorre che il boia ce l’abbia col condannato, né gli importa se è colpevole o innocente. Non è affar suo. L’odio che fa la guerra non è affar tuo. È l’odio di stato, superiore a noi piccoli. Ha le sue alte regioni, che non sta a noi giudicare. Mi viene in mente il parallelo diametrale con un altro precetto corrente in quella chiesa: amate senza piacere. Dissociate ciò che fate da ciò che siete. Ma è umanamente possibile questo? Allora, chi doveva sparare sentiva che ciò contraddice talmente alla nostra umanità che non si può fare senza perdere umanità. Le coscienze non ci sono invano, e sono luogo di Dio, se non le soffochiamo. Quei cappellani le soffocavano, credendo di alleggerirle. Tanti soldati le tacitavano, soffrendo una lacerazione interiore. A casa non si racconta mai quel che si è fatto in guerra. Ma le coscienze sono vulcani divini, dalla potenza calma, e cominciarono ad obiettare, in un modo o nell’altro.

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Poi si parlò dell’odio di classe. I cristiani, i cattolici, non potevano essere comunisti perché il comunismo (quel tipo di comunismo) era ateo e perché istigava all’odio di classe. Non veniva detto con altrettanta facilità che l’egoismo dei ricchi e le politiche di esclusione sono odio pratico, e ben efficace, anche se rivestono con altre parole quella realtà. Non veniva altrettanto detto che c’è un ateismo religioso. Godere privilegi a danno di altri esclusi, grazie alla loro esclusione, non era avvertito e voluto come odio personale, perciò non appariva male. Accusare moralmente – tu nutri odio! – chi voleva cambiare e pareggiare i rapporti, era una bella arma spirituale utile al mantenimento delle disuguaglianze.
L’odio di classe era anzitutto volontà determinata di mutamento sociale. Ma non ignoro che le lotte sociali erano condotte anche – non solo! – con sentimenti di vero odio per i ricchi. Questo sicuramente inquinava l’amore effettivo per la giustizia. Gandhi vide in anticipo, fino dal 1924, che quel comunismo che, per un fine giusto, usava anche mezzi ingiusti come la violenza e l’odio, non avrebbe potuto durare (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 118, 119, 121, 122, 122-123, 126).

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Concludo con una storia, che ho già raccontato non so dove. Un uomo giusto pregava Dio con insistenza perché il suo nemico non lo odiasse più, ma diventasse un po’ più buono. Pregò così per tanti anni, per tutta la vita, ma il nemico continuava ad odiarlo. Finalmente, quell’uomo morì, e presentandosi davanti a Dio, gli chiese conto della sua preghiera non esaudita. «Ma guarda – gli rispose Dio – che l’ho esaudita. La tua preghiera ti ha preservato dall’odiare tu il tuo nemico».
Enrico Peyretti, 19 dicembre 2008

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