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Quarta strage terroristica nel cuore dell'Europa

Il silenzio che uccide ancora

Dopo la notte di terrore a Parigi avvenuta il 13 novembre, i mass media sono riusciti – ancora una volta – a pilotare le nostre reazioni. Quando impareremo a non lasciarci manipolare? [In fondo un ulteriore contributo di Giovanni Matichecchia.]
16 novembre 2015
Patrick Boylan

Undici anni fa (11-3-2004) una serie di bombe esplosero nella metropolitana di Madrid, uccidendo 191 passeggeri. E' stato il primo atto terroristico condotto sul suolo europeo in risposta alle guerre di occupazione europee e statunitensi, prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003) – guerre, peraltro, senza l'autorizzazione ONU e quindi del tutto illegali.

L'anno successivo (7-7-2005) quattro bombe terroristiche esplosero nella metropolitana e in un autobus di Londra, causando complessivamente 56 morti: è stato il secondo contrattacco jihadista sul suolo europeo. E il motivo è stato identico al primo, come dichiarò poi uno degli attentatori londinesi, un musulmano trentenne di origine pakistano: “Ogni giorno il governo da voi eletto democraticamente commette delle atrocità contro il mio popolo, in ogni angolo del pianeta; la vostra complicità con il vostro governo vi rende direttamente responsabili [di queste aggressioni].”

Pochi giorni dopo quell'attentato a Londra, io scrissi, per un giornale online dell'epoca, un editoriale intitolato “Il silenzio che uccide.” Mi meravigliavo che, dopo il loro lutto, i britannici non avessero provato anche un moto di rabbia contro un governo che li ha messi nel mirano di possibili attentatori, attaccando ed occupando illegalmente due paesi che non rappresentavano alcuna minaccia alla sicurezza nazionale e la cui unica “colpa” era quella di possedere vaste riserve di petrolio o una posizione geografica strategica. (L'Afghanistan, infatti, fu occupato per la sua posizione geografica come barriera anti-cinese, nonché per il controllo degli oleodotti dal Caspio e per i ricchi depositi di oro e di coltan. Non fu occupato – in tutta la sua estensione – allo scopo di catturare Bin Laden che. sin dall'inizio, si sapeva rifugiatosi lungo il confine con il Pakistan.)

Quindi nessun moto di rabbia, nessuna protesta contro un governo che irresponsabilmente aveva trascinato l’intero paese nel saccheggio di ben due Stati sovrani. Mi chiedevo com'era possibile tutto ciò.

Immaginiamo, ad esempio, che il governo di Londra avesse messo in pericolo i propri cittadini ordinando sul suolo britannico, imprudentemente, una esercitazione militare ad alto rischio. E immaginiamo che, per imperizia dei militari, le nuove armi usate avessero provocato centinaia di morti tra la popolazione civile della Gran Bretagna. Sicuramente i britannici avrebbero preso d'assalto Downing Street per chiedere la testa del governo!

Invece per gli attentati di Londra, nessuna protesta contro la criminale politica di guerra voluta dall'allora governo Blair.

Indagando, si scopre il motivo. Se Blair non è stato chiamato in causa, è per via di una capillare azione mediatica, lungamente studiata e concordata con tutte le testate giornalistiche in previsione di eventi del genere. Essa fu in grado di sviare dal governo la comprensibile rabbia della popolazione, trasformandola in una rabbia contro gli attentatori, contro la loro etnia e religione, contro il “terrorismo”.

Idem per gli attentati precedenti a Madrid: anche se i sondaggi avevano indicato che il popolo spagnolo era largamente contrario all'invio delle truppe spagnole in Afghanistan e in Iraq, nei giorni successivi agli attentati non c'è stata nessuna protesta di massa contro il governo. I media, i politici e gli opinionisti, anche in questo caso, seppero agire di concerto per incanalare le emozioni della gente in sfoghi contro il terrorismo, contro i musulmani, contro il fondamentalismo, contro tutto tranne contro chi ha causato il problema per cominciare.

Dunque, nonostante la colpevole politica guerrafondaia del governo Blair, ho dovuto constatare il silenzio più totale da parte della popolazione britannica, esattamente com'era avvenuto in precedenza a Madrid. “Un silenzio”, scrissi in quell'editoriale, “che ora ha ucciso 56 londinesi innocenti, e che ucciderà ancora.”

Già. Quel silenzio ucciderà ancora perché lascia i nostri governi liberi di commettere nuove aggressioni contro altri paesi del terzo mondo – come poi hanno effettivamente fatto in Libia e poi in Siria e poi nel Mali, con il nostro silenzio assenso. Pur sapendo che, con le loro aggressioni, ci avrebbero posti di fronte al rischio concreto di atti di ritorsione.

Rischio diventato poi realtà. Per due volte.

La prima è stata lo scorso 7 gennaio in Francia, nella sede parigina della rivista Charlie Hebdo e in un supermercato kosher: venti sono state le vittime. Ed è stato il terzo atto terroristico condotto sul suolo europeo in risposta alle guerre europee e statunitensi contro i paesi musulmani.

Qual è stata, poi, la reazione del popolo francese alla strage di Charlie Hebdo? I parigini hanno forse marciato contro il governo per esigere le sue dimissioni? In fondo, Hollande aveva autorizzato il reclutamento e la preparazione, sul suolo francese, di terroristi jihadisti per destabilizzare la Siria, tra cui i due terroristi che, ribellandosi contro i propri addestratori, hanno commesso la strage. Si trattava, dunque, di un'azione governativa non solo criminale (l'ONU vieta la destabilizzazione di paesi terzi usando la violenza) ma anche pericolosa per i tutti i francesi.

Invece dopo l'attentato parigino non c'è stata nessuna protesta di massa anti-governativa. Perché i media hanno saputo, ancora una volta, pilotare le emozioni, istigando all'odio dei musulmani (non solo in Francia ma anche in Italia) oppure incoraggiando tutti a partecipare alle marce “contro l'intolleranza”, innalzando una matita per riaffermare la libertà d'espressione. Come se quel principio sacrosanto fosse la vera posta in gioco.

Nessuna protesta, dunque, contro gli orrori che la Francia commette nei paesi del terzo mondo, perlopiù musulmani: in Siria e in Afghanistan, in Iraq, nel Mali, in Costa Avorio, in Libia. I due attentatori di Charlie Hebdo, franco-algerini, volevano sicuramente vendicare questi ultimi orrori: nel 2011, infatti, avevano visto in tv i bombardamenti francesi (e anche quelli italiani) lasciare in rovine la Libia, con 50.000 morti e le principali infrastrutture distrutte, il che ha poi consentito alle compagnie petrolifere francesi, cacciate da Gheddafi, di tornare in Libia per prendere il petrolio ai prezzi stracciati. Ma di questi crimini, alcuni contro l'umanità, neanche una parola nei mass media. E nemmeno nelle conversazioni al bar.

Solo il silenzio. Un silenzio che aveva già ucciso a Londra e che avrebbe immancabilmente ucciso ancora.

Com'è successo puntualmente tre giorni fa, il 13 novembre 2015, di nuovo a Parigi, in una notte da incubo, che i mass media continuano a riproporci: il quarto contrattacco jihadista condotto sul suolo europeo in risposta alle guerre europee e statunitensi contro i paesi musulmani. A pagare il prezzo questa volta sono state oltre 130 vittime, francesi ma anche di altre nazionalità, tra cui una giovane italiana – tutti innocenti e tutti da compiangere. E i mass media, fedeli al copione, ci spronano, con immagini commoventi, a sfogare dapprima il nostro dolore per quegli innocenti, e poi a sfogare la rabbia diffusa che sentiamo dentro, dirigendola contro “il terrorismo”, contro “i migranti”, contro “i b... islamici” (come fece la famigerata prima pagina del giornale Libero). Ma non contro l'imperialismo francese. Quello non si tocca e neanche si menziona.

Mi chiedo, allora, se, quando il lutto di questi giorni finirà, la gente sentirà dentro, finalmente, uno scatto di giusta rabbia?

Qualcuno esigerà le dimissioni di Hollande? In fondo, un motivo di dimissioni ci sarebbe: attraverso il Gruppo di Londra (gli ex-Amici della Siria, voluto da Sarkozy nel 2012) la Francia ha fatto pervenire armamenti e munizioni allo Stato Islamico sin dalla sua apparizione in Siria, allo scopo di indebolire Assad. Certo, ora le cose sono cambiate: dopo l'attentato del 13 novembre, la Francia ha cominciato a bombardare davvero lo Stato Islamico. (In precedenza, i bombardamenti alleati erano una messa in scena, che consentivano all'Isis di continuare ad attaccare Assad.) Ma questo gesto tardivo da parte francese – che non è nemmeno il modo migliore per eliminare l'Isis, anzi – non esonera il governo francese dalle sue responsabilità nell'aver contribuito alla creazione del mostro, e al suo successivo riarmamento.

Ci sono dunque tutti gli estremi per incolpare il governo di Hollande, come quello di Sarkozy in precedenza, di una politica estera imperialista, fuori legge e pericolosa per tutti. Una politica estera di dominio, invece di in una politica estera di vera cooperazione – la chiave per avere finalmente la pace.

Qualcuno vorrà dire queste cose ad alta voce – anche in una sede istituzionale?

Oppure ci sarà di nuovo il silenzio, in attesa del prossimo attentato, chissà dove? Un silenzio – ora non ci possono essere dubbi – che ucciderà.

 

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