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Consulenza tecnica di parte per il Tribunale Italiano contro i crimini della NATO in Jugoslavia

7 agosto 2001
Gruppo di lavoro ad hoc per lo studio del DU (Promosso dal Comitato Scienziate e scienziati contro la guerra )

Pasquale Angeloni, medico legale, già Direttore del Centro Nazionale Trasfusione Sangue, Roma
Mauro Cristaldi, naturalista, Dip. Biologia Animale e dell’Uomo, Univ. Roma "La Sapienza"
Francesca Degrassi, biologa, Centro di Genetica Evoluzionistica CNR, Roma
Francesco Iannuzzelli, informatico, Associazione Peacelink - sez. Disarmo
Andrea Martocchia, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Luca Nencini, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Carlo Pona, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Silvana Salerno, medico del lavoro, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"


Premessa

Il gruppo di lavoro ad hoc per lo studio dell’Uranio impoverito promosso dal Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra", per incarico conferito il 26.05.01 dal Tribunale Internazionale per i crimini della NATO in Jugoslavia (più noto come Tribunale Ramsey Clark), illustra nel presente documento, mediante una sintesi degli studi interdisciplinari finora messi a punto nell’ambito della Commissione scientifica del suddetto Tribunale, una elaborazione intermedia nelle conoscenze acquisite sui problemi relativi all’uso dei dispositivi ad Uranio impoverito (DU). Nel contempo il gruppo fa presente che continuerà a sostenere le iniziative proposte dal Tribunale Clark e che, in tale ambito, procederà all’aggiornamento del presente documento, alla discussione ed alla promozione di studi teorici e sperimentali, intervenendo laddove sarà ritenuto opportuno allo scopo di informare correttamente l’opinione pubblica e gli organi istituzionali preposti alla prevenzione ed al controllo dell’uso di tali dispositivi.

 

1 Inquadramento del problema

1.1 Uso bellico del DU

Nell’ambito dello sfruttamento di materiali pericolosi ad uso deliberatamente aggressivo trova posto un sottoprodotto dell’industria nucleare, l’Uranio impoverito (Depleted Uranium = DU). Sia a seguito dei processi di arricchimento per la preparazione del combustibile uranifero, sia a seguito del riprocessamento delle scorie uranifere esaurite a conclusione delle reazioni di fissione delle centrali nucleari, il DU, da ingombrante scoria, può essere invece riciclato come arma e come materiale metallico per usi civili, anche allo scopo di produrre profitti aggiuntivi a favore di alcune industrie belliche (cfr. Zajic, 1999), che approfittano del basso costo della materia per produrre dispositivi a nocività durevole e di uso illegale, soprattutto nel caso più comune e fraudolento in cui questi siano spacciati per armi di tipo convenzionale (Cristaldi et al., 2001).

Agli strateghi militari non poteva sicuramente sfuggire (Ebinger et al., 1996) la capacità dell’Uranio, non solo di bruciare facilmente raggiungendo temperature elevatissime, tali da fondere una corazzatura, ma anche di permanere a lungo nell’ambiente in forma di polvere e/o di frammenti, in conseguenza della sua scarsa penetrabilità nei terreni soprattutto argillosi (con rischi potenziali di contaminazione per le falde acquifere), della sua difficile determinabilità e confondibilità con l’Uranio naturale diffuso in natura, della sua alta reattività (grazie alle sue quattro valenze chimiche da 3 a 6) con formazione di diversi composti (WHO.INT, 2001), di cui uno solo abbastanza stabile e poco reattivo da consentirne l’inattivazione chimica in natura (Abdelouas et al., 2000), il biossido di Uranio (UO2). Né poteva sfuggire loro la capacità di utilizzarlo come sistema di ricatto a lungo termine sulla salute per intere popolazioni sottoposte all’azione cronica delle sue polveri in circolazione nell’ambiente (risollevamento da traffico veicolare e aereo, da ventosità naturale o provocata, da contaminazione manuale diretta). Per tale ragione la sua sperimentazione come arma di distruzione di massa, iniziata già dopo la seconda guerra mondiale in una isoletta giapponese presso Okinawa, fu riservata al vasto territorio irakeno (International Action Center, 1997), in quanto sabbioso, poco piovoso e ventoso (facendo quindi salve le caratteristiche di risospensione continua del particolato), in quanto scarsamente studiato nelle sue emergenze epidemiologiche pregresse ed in quanto dotato di presumibili e/o inducibili fattori di confondimento del rischio (petrolio combusto, fabbriche chimiche e farmaceutiche, impianti per la guerra batteriologica). Su questo territorio furono riversate circa 8-900 tonnellate di DU (soprattutto nel sud del paese), eseguendovi, a seguito dell’intervento dalle forze aeree anglo-americane, il più grosso esperimento bellico effettuato in vivo su popolazioni ed ecosistemi, di rilevanza comparabile alle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki, all’uso degli erbicidi in Vietnam ed al disastro di Chernobyl. A questo impiego - abbastanza riuscito per i fini sperimentali e di profitto a favore del mercato bellico per cui era stato concepito e di concerto con un’informazione intenzionalmente deviata riguardo alle forze politiche ed alla pubblica opinione (cfr. Barone et al. in Zucchetti, 2000; Valente in Zucchetti, 2000) - seguì l’ulteriore uso in Jugoslavia dei dispositivi ad Uranio impoverito con modifiche mirate soltanto a renderne minimale la pericolosità come agente contaminante esterno, soprattutto per quelle truppe statunitensi e britanniche che avevano già subito l’impatto "da fuoco amico" della guerra al DU in Iraq (US Army, 1995; The Society for Radiological Protection, 1998-2001; Hooper et al., 1999; McDiarmid et al., 2000; The Royal Society, 2001). L’uso di dispositivi al DU nelle recenti guerre in Somalia ed in Bosnia centrale e centro-orientale (soprattutto ampie aree intorno a Sarajevo), in Palestina ed in poligoni di tiro di competenza delle forze militari NATO, è ancora incompletamente documentato (Zajic, 1999; The Palestinian Council for Justice and Peace, 2001; Bastic, 2001; DPRSN, 2001). Il loro uso presumibilmente più limitato (Stato Maggiore dell’Esercito di Jugoslavia, 2001) in Vojvodina, in Serbia (aeroporto di Batajnica nei dintorni di Belgrado, valle di Presevo) ed in Montenegro (aeroporto di Podgorica, penisola di Lustica, località confinanti col Kosovo) ha probabilmente delle ragioni di tipo politico (e.g.: mantenimento parziale del consenso per l’"establishment" in Montenegro), ma soprattutto ragioni di tipo strategico militare. Si ricordi infatti che, dopo l’abbattimento in Serbia dell’aereo "invisibile" F-117° Nighthawk del costo unitario di 45 milioni di dollari (Altichieri, 1999), gli strateghi americani del Pentagono adottarono la tattica di effettuare incursioni aeree al disopra dei 5000 metri, considerati sicuri rispetto alla controffensiva della contaerea jugoslava. Si adottò di conseguenza la strategia della guerra altamente distruttiva sulle aree naturali protette e della guerra chimico-cancerogena perpetrata da alta quota contro quelle regioni e città della Jugoslavia (Novi Sad, Belgrado, Nis, Kraljevo, Pristina, Podgorica), dove non si prevedeva una reazione efficace di controffensiva agli attacchi aerei; quest'ultima fu attuata (cfr. Triolo et al. in Marenco, 1999; Cristaldi et al., 2000) con i bombardamenti mirati (cosiddetti "intelligenti") di serbatoi e impianti di lavorazione caratterizzati dalla massiva presenza di sostanze chimiche cancerogene (e.g. petrolchimici di Pancevo e Novi Sad, automobilistica Zastava in Kragujevac). Gli attacchi al DU contro il Kosovo - i più ampi e diffusi in tutta la guerra contro la Jugoslavia, per stessa ammissione NATO - prevedevano invece la distruzione di mezzi corazzati dell’esercito federale jugoslavo (spesso zimbelli nascosti come esche soprattutto in aree boscate) ed il terrore contro colonne di profughi di diversa etnia che si muovevano nel tentativo di fuggire alla guerra (FRY, 1999 a, b). Per la diffusione del DU in aree strategiche destinate a contaminazione furono utilizzati gli aerei A-10/0A-10 Thunderbolt II detti "Warthog", progettati appositamente per l’appoggio aereo ravvicinato alle truppe di terra, proprio in situazioni di aree di confine con l’Albania e la Macedonia, nelle quali si poteva senz’altro escludere l’intervento di efficaci contraeree. Questo tipo di aerei sono predisposti per l’uso dei cannoncini da 30 mm GAU-8/A Gatling nei quali possono essere usati la maggior parte dei proiettili al DU. Si presuppone che gran parte di questi proiettili non vadano a segno e si conficchino quindi profondamente nel terreno determinandone la difficile rilevabilità su campo, assieme ad un prevedibile effetto di contaminazione del suolo e delle acque (cfr. UNEP-Balkans, 2001). Gli esperti della campagna organizzata dall’UNEP ed altri gruppi di esperti (in genere militari) incaricati da paesi singoli, hanno cercato prevalentemente i penetratori al DU (e quindi i loro rivestimenti di alluminio) utilizzando rivelatori gamma e beta, per riuscire a localizzarne solo un basso numero e senza riuscire a trovare concentrazioni significative di DU disperso nell’ambiente, ad eccezione di licheni e muschi, raramente campionati, ma che funzionano rispettivamente come bioconcentratori di pulviscolo aereo e come sistema di filtraggio delle acque meteoriche e/o da dilavamento in microambienti umidi (UNEP-Balkans, 2001).

Nel complesso si può notare che la strategia bellica adottata dalla NATO presupponeva una contaminazione cronica di tipo chimico dell’area situata a sud-est di Novi Sad e dell’area situata a nord-ovest di Pancevo con interessamento di tutta l’area balcanica fino all’Ungheria a nord, alla Bosnia ad ovest, alla Romania ed alla Moldavia ad est, alla Grecia ed alla Macedonia a sud.

Per il Kosovo sembra invece che, prevalentemente, sia stato utilizzato il contaminante DU, meno distruttivo e rischioso nell’immediato, ma i cui effetti possono protrarsi per tempi più lunghi, dato l'enorme tempo di dimezzamento radioattivo dell'Uranio (pari all’età stimata per il pianeta Terra: 4 miliardi e mezzo di anni), le sue caratteristiche chimiche di metallo pesante e la relativamente scarsa profondità in cui penetra nei terreni allo stato micronizzato (circa 30 cm). L’assegnazione KFOR delle aree maggiormente contaminate da DU in Kosovo alla giurisdizione italiana e tedesca, se da una parte la dice lunga sui rapporti paritetici intercorrenti nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, d’altro lato potrebbe spiegare quella maggiore insorgenza di casi di tumore evidenziati nelle nostre truppe di stanza nei Balcani rispetto ad altri contingenti e segnalati dalla commissione Mandelli (2001), di cui si parlerà in seguito.

La dissoluzione di qualsiasi controllo pubblico e delle attività sanitarie e culturali durante l’occupazione militare KFOR del Kosovo-Methoija [=Kosmet, d’ora in poi chiamata Kosovo] - a parziale eccezione dell’intervento di ricerca UNEP-Balkans (2001) iniziato solo tardivamente nel Novembre 2000 - ha portato all’esclusione dai controlli e dall'informazione sulla pericolosità del DU disperso (da voci di popolo attribuita allora nientemeno che alla propaganda filo-serba!) di grosse fasce di popolazione (soprattutto kosovari albanesi reinsediati), di gruppi di volontari provenienti da altri paesi e di militari operanti in Kosovo. Questi gruppi a rischio - ignorando una poco pubblicizzata notifica del 16/8/1993 effettuata dal Dip. della US Army (che determinò rigide precauzioni per le truppe USA dopo la guerra del Golfo), fino alla notifica della potenziale pericolosità dell’esposizione a DU avvenuta con lettera firmata dal Col. O. Bizzarri il 22/11/1999 per le truppe italiane - avevano - nei circa 5 mesi intercorsi tra la fine dei bombardamenti contro la Jugoslavia e la suddetta notifica, ma senza adottare alcuna precauzione - rimosso carcasse metalliche, trasportato residuati metallici destinati alla vendita, accumulato materiali di risulta contaminati, respirato polveri in sospensione nei campi (coorte a rischio: contadini), nelle strade (coorte a rischio: addetti ai veicoli) e negli sterrati (coorte a rischio: bambini e fanciulli residenti dai 3 anni in su) e, secondariamente, portato indosso, trasportato e manipolato proiettili al DU e/o loro parti.

1.2 Conoscenze sulla pericolosità del DU

Nonostante le carenze conoscitive dovute ad insufficienza di ricerche mirate, le conoscenze essenziali finora validate a livello scientifico sono di seguito elencate in forma riassuntiva, per facilitare la percezione complessiva del problema:

  1. Il numero di pubblicazioni che riguardano la tossicità dell’Uranio, sia dal punto di vista chimico che radiologico, è estremamente scarso, costituendo la principale ragione del ritardo istituzionale nel riconoscimento dell’emergenza e della sua sottovalutazione; la commistione tra radiotossicità e tossicità chimica non consente inoltre di isolare completamente i singoli parametri a livello sperimentale, rendendo il rischio da radioisotopi dell’Uranio troppo interconnesso sia con gli aspetti di tipo radioecologico, sia con quelli di tipo ecotossicologico, volutamente tenuti separati nella prassi scientifica per ragioni di compartimentazione rigida dei settori di competenza da sottoporre a controllo (Cristaldi, 1997); a titolo di esempio, si noti che più della metà delle 386 pubblicazioni citate dal rapporto WHO.INT (2001) datano al periodo immediatamente successivo alla guerra del Golfo, dove per la prima volta erano stati utilizzati in modo massiccio i dispositivi bellici al DU; tali carenze nell'indagine scientifica, pur derivando, in ultima analisi, da una distorta gestione della ricerca a livello istituzionale, rientrano, in ultima analisi, nelle conseguenze dell’accordo firmato nel 1959 tra l’IAEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), accordo che di fatto, secondo Parsons (2001) ha storicamente limitato in tutti gli istituti di ricerca pubblici il libero svolgimento di ricerche nel campo dei rapporti tra salute pubblica e radiazioni, soprattutto per gli emittenti alfa come l'Uranio (il cosiddetto Uranio arricchito, U-235, costituente materiale fissile per eccellenza), facilmente occultabili per la loro difficile rilevabilità diretta, nonostante la loro elevata pericolosità come emittenti interni.

  2. Il c. d. Uranio impoverito (DU) conserva (cfr. Zucchetti, 2001) circa il 60 % della radioattività dell’uranio naturale, se si tratta di DU "pulito" (da arricchimento); ne mantiene circa l’80% se si tratta di DU "sporco" (da riprocessamento).

  3. L’Uranio è un emettitore alfa: le radiazioni alfa, sostanzialmente innocue se la sorgente si trova all’esterno dell’organismo, diventano un forte agente mutageno se emesse all’interno dell’organismo. Il loro coefficiente di rischio ("quality factor") è considerato in radioprotezione del doppio superiore a quello delle radiazioni beta e 20 volte superiore a quello delle gamma; inoltre, l’elevato rapporto superficie/massa delle polveri, facilita la penetrazione delle radiazioni alfa nell’organismo.

  4. I primi due nuclei della discendenza dell’Uranio, il Torio (Th-234) e il Protoattinio (Pa-234m), sono emettitori beta e gamma e, a causa della brevità del loro tempo di dimezzamento (rispettivamente di 24.1 gg e 1.17 min.), mostrano la stessa attività dell’uranio; per questa ragione le polveri, così come i residui dei proiettili incombusti, costituiscono un rischio radiologico non trascurabile anche nel caso di esposizione esterna.

  5. Il DU è pressoché esclusivamente emettitore di radiazioni alfa, la cui quantità è funzione della superficie; infatti il numero delle particelle alfa che riescono a sfuggire alla masserella di DU ingerita o inalata, dipende dalle dimensioni del frammento, ma più precisamente dal rapporto superficie/volume; per cui, quando il volume è più piccolo (e quindi la superficie per unità di volume più grande), allora è più facile per le particelle alfa emesse fuoriuscire dal frammento e andare ad irraggiare un organo; pertanto, più il DU è in forma di polvere e quindi in forma di ossido quasi "molecolare", più è efficiente nel somministrare dose radiologica al soggetto esposto che lo abbia inglobato. La presenza di solventi, come l'acqua onnipresente sia negli organismi che nell'ambiente, permette di facilitare il passaggio da Uranio insolubile a solubile, facilitando i suddetti processi e la complessazione degli atomi di Uranio in molecole più grandi (Ribera et al., 1996).

  6. Le caratteristiche piroforiche del DU, evidenti anche a temperatura ambiente, ne facilitano la sua conversione in aerosol dopo l’impatto sul bersaglio, quando si raggiungono temperature superiori al punto di fusione e al punto di ebollizione; a causa di tali elevate temperature (sopra ai 3000°C) i proiettili al DU prendono facilmente fuoco contro un bersaglio resistente, come una corazza metallica, generando una polvere micronizzata di ossidi di DU (UO2, U2O3) tendenzialmente insolubili, che si disperdono e si depositano nell’ambiente circostante.

  7. Il DU, nonostante il suo elevato peso specifico (un litro in volume pesa circa 19 Kg., circa 2 volte il piombo e 20 volte l’acqua), dopo riduzione in frammenti microscopici, si deposita sul terreno sotto forma di polvere (ossidi), ma può tornare in sospensione aeriforme con i movimenti dell’aria di origine meteorica (venti), con l’attività dei mezzi di locomozione e con le attività agricole e pastorali, che implicano sollevamento di polveri (e. g.: aratura, passaggio di mandrie): in tali condizioni rimane potenzialmente e continuativamente inalabile da uomini e da animali non protetti che si trovino nelle vicinanze del punto iniziale d’impatto; in questi casi l’inalabilità del DU può avvenire anche a considerevole distanza dal punto di impatto ed a distanza di tempo, anche se con probabilità minore ed in quantità minori (Ebinger et al., 1996).

  8. Mentre a causa del suo elevato peso specifico l’Uranio tenderebbe ad penetrare in profondità nel terreno, la sua elevata reattività chimica, sia in forme solubili che insolubili, lo rende capace di complessare e permanere negli strati superficiali del suolo (circa 30 cm di profondità massima in terreni sabbiosi), ma anche di entrare in soluzione con l’acqua, raggiungendo in tal modo i corpi d’acqua, comprese le falde idriche, contaminandoli; la diffusione ambientale può essere meglio determinata attraverso bioconcentratori per filtrazione di particelle sospese in aria (licheni) ed in acqua (muschi), anche a distanza di tempo dall’esposizione, soprattutto nel caso dei licheni, da tempo considerati i migliori bioconcentratori per filtrazione d'aria per l’inquinamento atmosferico (Spampani, 1982; Ribera et al., 1996; UNEP-Balkans, 2000).

  9. Una volta inalate, le particelle al DU possono rimanere intrappolate nei bronchioli e negli alveoli polmonari, con una tendenza per la parte insolubile a rimanervi o ad essere espulsa per movimento muco-ciliare o per rimozione macrofagica, mentre la frazione più solubile si scioglie nel plasma e quindi tende a riaccumularsi in forma di complessi in diversi organi, in particolare nei linfonodi (particolarmente in quelli mediastinici che sono i più vicini al polmone), nel midollo rosso delle ossa (sede attiva della funzione ematopoietica), nei sistemi uro-genitale, nervoso, scheletrico, ecc.

  10. Gli effetti biologici sono dose-dipendente e senza soglia (non esistono dosi minime sicuramente innocue); pertanto le patologie razionalmente prevedibili ed epidemiologicamente osservabili con maggiore prevalenza, sono:
    • a carico dell’informazione genetica contenuta nel DNA per l’affinità dei composti solubili dell’Uranio con i gruppi fosfatici della macromolecola (Lin et al., 1993; Ribera et al., 1996; Priest, 2001; WHO.INT, 2001) con possibili conseguenze generalizzate di tipo mutagenetico, cancerogenetico e teratogenetico;
    • processi infiammatori e degenerativi a carico dell’apparato respiratorio, anche con metaplasie cellulari ad evoluzione cancerogenetica, soprattutto in particolari condizioni dell’organismo, quali la carenza dei sistemi immunologici di difesa, la riduzione dell’apoptosi (suicidio programmato della cellula alterata), e/o mutazioni inattivanti un "gene soppressore del tumore";
    • a carico del midollo rosso con anemie di vario tipo: globulari, extra-globulari, emolitiche o non, di origine immunitaria con test di Coombs diretto ed indiretto positivo, fino a chiare forme leucemiche o pancitopeniche;
    • a carico dei linfonodi mediastinici con linfomi di Hodgkin e non Hodgkin (v. in fondo);
    • a carico del fegato e, in generale, di tutti gli organi linfoidi (linfonodi, milza, timo [?], ecc.) per particolari tropismi d’organo legati soprattutto al trasporto sanguigno, ma anche potenzialmente nelle ossa, nel cervello, nei testicoli (e quindi nell'eiaculato), nei muscoli striati cardiaci e somatici, dove si può riconcentrare l’Uranio (Zajic, 1999; McDiarmid et al., 2000; Durakovic, 2001);
    • a carico dei reni per la funzione emuntoria con effetto di concentrazione dei complessi uranilici, soprattutto a livello del tubulo contorto prossimale (Ribera et al., 1996);
    • oltre le patologie tumorali sono stati osservati effetti genotossici (anomalie congenite), embriotossici (aborti), teratogenesi, neuropatie e miopatie (Lin et al., 1993; Au et al., 1995; Ribera et al., 1996; Zaire et al., 1997);

  11. Mentre l’Uranio si comporta in maniera conseguente alla forma isotopica in cui si presenta, la sua reattività (e di conseguenza anche la quantità emessa di radiazioni) si può modificare con il passare del tempo per effetto di modificazioni di tipo chimico (WHO.INT, 2001), soprattutto al passaggio (UO3, UF4, UCl4, U3O8) dallo stato solubile (UF6, UO2F, UO2(NO3)2) a quello insolubile (UO2).

  12. La composizione del DU e la sua pericolosità possono variare in maniera rilevante a seconda della materia prima utilizzata nel processo di arricchimento, del quale il DU "pulito" è il sottoprodotto; nel caso di riutilizzo di combustibile nucleare irraggiato (riprocessamento) possono essere presenti nel DU "sporco" isotopi (U-236 [marcatore radioattivo del DU-sporco], U-234, Pu-239, Np-237 ed altri) che possono aumentarne la radiotossicità anche fino al doppio del valore del semplice U-238 (Zucchetti, 2001); il plutonio (Pu-239-240), elemento transuranico altamente tossico, è stato infatti trovato in proiettili ed in campioni di suolo provenienti dalle aree bombardate con DU della Bosnia-Erzegovina (DPRSN, 2001) e del Kosovo (UNEP-Balkans, 2001; DPRSN, 2001).

  13. La non perfetta conoscenza della composizione del DU di uso militare (in quanto possibilmentee miscela eterogenea di DU "pulito" e "sporco"), il variare delle biodinamiche delle sue diverse forme chimiche e dei suoi vari isotopi componenti all’interno del corpo umano, potrebbe contribuire a creare disomogeneità nell’ambito dei differenti tempi di latenza nella comparsa delle patologie tumorali (da 10 anni a diverse decadi sec. Priest, 2001). Queste patologie, ammessa e non concessa la piena comparabilità con il modello Nagasaki (raggi gamma, latenza 6-8 anni), hanno dimostrato di necessitare comunque di un periodo di latenza (con effetti mutagenetici e dismetabolici non sempre rilevabili), che peraltro è ben individuabile a seguito dell'uso massiccio di proiettili al DU nella guerra del Golfo, nonostante il relativamente breve periodo trascorso dall'evento (picchi intorno ai 5-6 anni di latenza per leucemie e linfomi in Al-Jibouri, 2000). Su queste carenze conoscitive ha senz’altro influito più recentemente il mancato sostegno internazionale alle ricerche svolte sui militari irakeni esposti e sulle loro famiglie in una perdurante imposizione di embargo comminato all’Iraq dopo le gravissime distruzioni inflitte al paese con la guerra del Golfo Persico (Zajic, 1999; Marouf, 2000; Al-Jibouri, 2000).

  14. Simulazioni di scenari di dispersione di DU in seguito ad utilizzo militare e della conseguente esposizione della popolazione - in uno scenario compatibile con quello balcanico - sono state effettuate mediante codici di calcolo testati a livello internazionale (Zucchetti, 2001; Boschetti negli Allegati, 2001) ed hanno messo in evidenza una rilevante dose da irradiazione nei polmoni e nei comparti ad essi collegati in seguito ad inalazione da DU; perdipiù è stata messa in evidenza una notevole dose collettiva sulla popolazione, che quantitativamente rientra nell’ordine di quelle utilizzate dalla NATO nei Balcani e porta alla previsione dell’insorgenza di migliaia di eventi gravi (neoplasie mortali e non, mutazioni genetiche) nel corso dei prossimi anni nella popolazione Balcanica.

  15. Questi fatti e le conclusioni provvisorie dell’esame di una cospicua letteratura sul tema del DU stigmatizzano, in via pregiudiziale e almeno per quanto riguarda l’Italia, la carenza di sperimentazione istituzionale mirata, non sostituibile con iniziative volontaristiche di ricercatori, sia per una preordinata deprivazione di mezzi, sia per il diniego di accesso ai siti ed ai materiali da esaminare. In almeno due casi sono coinvolti alcuni degli AA. del presente documento, che pure già avevano fornito numerosi contributi alla chiarificazione scientifica del problema del DU fin dal suo palesarsi a seguito della guerra contro la Jugoslavia (Pacilio & Pona in Marenco, 1999; Giannardi & Dominici in Zucchetti, 2000; Pona in Zucchetti, 2000; Cristaldi et al., 2001; Zucchetti, 2001):
    1. la mancata accettazione da parte del Ministero della Difesa italiano del prof. Massimo Zucchetti in qualità di membro della Commissione Mandelli, richiesta a tempo debito dagli avvocati di parte (Commissione giuridica del Tribunale Clark);
    2. il mancato invio del gruppo di lavoro sui piccoli mammiferi in qualità di bioindicatori di rischio territoriale (Cristaldi in Zucchetti, 2000) nelle aree coinvolte dall’impatto del DU in area balcanica richiesto all'ANPA nell’ambito della Commissione Calzolaio istituita dal Ministero dell’Ambiente (progetto approvato della prof.ssa C. Tanzarella dell’Univ. di Roma3).

Il gruppo di lavoro concorda sui sopracitati elementi di valutazione, che supportano serie perplessità suscitate da alcune dichiarazioni di innocuità, espresse durante ed a seguito della presentazione della prima bozza dei lavori della commissione Mandelli (2001), ricorda che l’uso bellico di questo elemento radioattivo è stato già precedentemente sottoposto a veto internazionale (Cristaldi et al., 2001) ed indica alcune metodologie di ricerca e di sperimentazione che sono ormai indilazionabili. Il dettaglio delle diverse proposte, per motivi di leggibilità e concisione, è necessariamente limitato. Gli scriventi sono tuttavia a disposizione per fornire su ogni iniziativa ulteriori dettagli.

 

2 Indagini su marcatori di danno in popolazioni umane

2.1 Indagini di tipo mutagenetico e biochimico

  1. Fenomeni attesi a seguito di contaminazioni, anche a bassi livelli di concentrazione, sono i processi mutagenetici potenzialmente riscontrabili nel sangue circolante (colture di linfociti) e nel midollo rosso osseo, qualora , nell'uomo, il prelievo di tale tessuto sia ritenuto necessario per cause medico-diagnostiche; tali processi mutagenetici sono inoltre presumibilmente riscontrabili in spermatozoi, cellule di sfaldamento renale, bronchiale e intestinale. Tali processi mutagenetici iniziali, possono avvenire a seguito dell’irradiazione diretta di cellule e tessuti, sia in fase acuta che cronica, e dovrebbero essere con tutta probabilità rilevabili come traslocazioni stabili, in una fase di latenza dell’effetto patologico ed anche in assenza della causa scatenante primaria, mentre, in condizioni di perdurante cronicità, ci si aspettano mutazioni puntiformi, rotture cromosomiche, insorgenza di micronuclei. Dalle popolazioni delle regioni continuativamente esposte a rischio, sia per via alimentare che respiratoria, sia per il prolungato periodo di soggiorno in aree eventualmente contaminate, nonché dai militari e dai volontari presumibilmente esposti, mediante un semplice prelievo di sangue, è possibile effettuare in laboratorio una coltura di linfociti periferici per verificare la presenza di alterazioni cromosomiche in tali cellule; a lungo tempo di distanza dall’esposizione può essere infatti importante identificare la presenza nei linfociti di eventuali traslocazioni cromosomiche bilanciate che non vengono eliminate con le divisioni cellulari; questa analisi si esegue oggi con la tecnica ad alto potere risolutivo dell'ibridazione in situ fluorescente. Mentre sui veterani statunitensi della guerra del Golfo con frammenti di proiettili al DU nel corpo, l'analisi cromosomica sui linfociti periferici non sembra aver dato risultati apprezzabili (anche se McDiarmid et al., 2000, escludono ben due casi outliers dal computo statistico), con lo stesso tipo di analisi, eseguite su 17 soggetti (compresi 2 controlli) provenienti da missioni dei Balcani e ricoverati in ospedali militari portoghesi, sono stati individuati due individui con cromosomi dicentrici, due con frammenti in numero elevato ed uno con ambedue le aberrazioni; le parallele rilevazioni di Uranio nelle urine di questi individui dimostrano una scarsa presenza dell'elemento, mentre in altri 5 individui del gruppo sono stati rilevati sensibili quantitativi di Uranio nelle urine (la stessa tendenza ad una correlazione inversa sembra emergere dai dati di McDiarmid et al., 2000, anche se non viene mai esplicitamente notato); nello stesso studio portoghese (DPRSN, 2001) su 12 militari in missione in Bosnia-Erzegovina ne è stato trovato uno con elevate quantità di Uranio nelle urine, ma è stato sommariamente eliminato dal computo statistico e non citato nella relazione relativa.

  2. Un’analisi complementare è quella dello studio dell’eventuale induzione dei micronuclei, sempre in linfociti periferici umani ovvero in altri tessuti: in questo caso viene analizzata indirettamente l’insorgenza di aberrazioni cromosomiche nell’ultima divisione mitotica di origine clastogenica (rotture cromosomiche) o aneugenica (induzione di aneuploidia); ciò è giustificato dal fatto che l’esposizione a radiazioni, soprattutto di tipo alfa e quindi altamente clastogene (formazione di saldature a doppia elica nel DNA), produce un’instabilità cromosomica che può generare alterazioni anche nelle successive divisioni cellulari (Kadhim et al., 1994) sia mitotiche (linea somatica) che meiotiche (linea germinale); paradossalmente ciò si può verificare anche dopo la eliminazione biologica della causa primaria di alterazione (come appunto nella gran parte dei casi di contaminazione pregressa da DU).

  3. Attuazione negli stessi soggetti di indagini relative ad alterazioni immunologiche e biochimiche, come biomarcatori precoci di danno conseguente all’alterazione delle capacità immunologiche nei linfociti e nel plasma e di alcuni processi metabolici nel rene e nel fegato in seguito all’esposizione a DU (Ribera et al., 1996; The Society for Radiological Protection, 1998-2001; McDiarmid, 2000; WHO.INT, 2001), con eventuale recupero di campioni per la determinazione di fenomeni di bioconcentrazione e del danno biologico relativo (e.g.: elevato livello di prolattina nel sangue; proteinuria, soprattutto creatinina; eritemi da radiazioni eventualmente in combinazione con irritanti chimici), anche se la gran parte degli esposti pregressi al DU non può essere considerata continuativamente esposta agli eventi di contaminazione (ad esclusione del gruppo critico dei contadini viventi in aree contaminate), ma solo occasionalmente esposta in situazioni particolari (e.g.: militari e volontari), come sembra possa essere accaduto anche a studiosi e volontari che si sono occupati della contaminazione da DU (cfr. casi di Damacio Lopez e di Michel Collon su: http://www.peacelink.it/tematiche/disarmo/u238/documenti).

  4. Si dovrebbero programmare studi sperimentali su coorti di esposti di almeno trenta persone e su altrettanti controlli, tutti dotati di ricostruzione anamnestica dell’esposizione e delle fasi susseguenti ad essa sulla base di schede individuali (INTERSOS, 2001); lo scopo di tali verifiche, sulla base di un ampio protocollo di indagini, è la definizione precoce del rischio presuntivo di esposti al DU, ma non può rappresentare l’indicazione del rischio individuale per ciascuno dei soggetti esaminati, che potrebbero teoricamente mantenere o ricostituire la spontanea capacità di un’efficace risposta cellulare al danno, evitando così l’insorgenza di processi cancerogenetici, anche attraverso opportune pratiche di depurazione organica (cfr.:http://www.peacelink.it/tematiche/disarmo/u238/documenti). Spicca l'assenza di studi specifici sugli effetti del DU nella donna ed in generale nel sistema genitale femminile animale.

Tempi previsti per i prelievi relativi a queste prime indagini (punti da 1 a 4): entro il primo triennio dall’ultima esposizione.

2.2 Indagini di tipo epidemiologico (creazione di un osservatorio epidemiologico ad hoc per i tumori)

  1. Gli effetti cancerogenetici indotti e la eventuale accelerazione di processi cancerogenetici già in atto andrebbero sottoposti a diagnosi precoce con marcatori biochimici ed indagini istologiche mirate alle malattie caratterizzanti segnalate nell’indagine epidemiologica (e.g.: immunodepressione, diversi tipi di tumori come il linfoma di Hodgkin), che va senz’altro predisposta come informazione fondamentale di riferimento per tutti i gruppi potenzialmente a rischio.

  2. Le indagini autoptiche post-mortem vanno altresì eseguite per gli accertamenti medico-legali, ma anche ai fini preventivi, per appurare se, a partire dal decesso anche di un solo individuo, una coorte nel suo insieme sia stata colpita dall'effetto del DU o di altri contaminanti; gli organi bersaglio da esaminare sono gli stessi che vengono citati più avanti per gli animali domestici: soprattutto le ossa, in quanto tessuti mineralizzati contenenti fosfati cui l'Uranio tende a legarsi, possono costituire un importante tessuto bioconcentratore (WHO.INT, 2001), anche grazie alla facilità di conservazione dopo l'inumazione. Indagini eseguite su un militare portoghese morto per leucemia mieloide e su due altri cadaveri di confronto hanno riguardato diversi organi interni (rene, fegato, cuore, milza, muscolo, cervello, ma non l'osso e il polmone maggiormente a rischio sec. Zucchetti, 2001 e in Allegato 4) ed hanno messo in evidenza delle quantità di Uranio, accumulate soprattutto nel muscolo e nel cervello (DPRSN, 2001) e giudicate dagli estensori della perizia insufficienti per evidenziare una avvenuta contaminazione. Si dovrebbe ancora chiarire il ruolo di tali bioconcentrazioni nel sistema nervoso per chiarire l'insorgenza di disturbi neurologici conclamati sia nei veterani della Guerra del Golfo (McDiarmid et al., 2000) che in animali sperimentali (e.g.: conigli, come citato da. Ribera et al., 1996).

  3. Studio dell’insorgenza di malformazioni congenite nella prole degli esposti e controllo anamnestico preventivo delle potenzialità di rischio familiare.

Tempi previsti per i tre ultimi tipi di indagine: un quarantennio.

2.3 Indagini su popolazioni non umane e modelli sperimentali

  1. La catena alimentare costituisce una fonte fondamentale per l’esposizione umana, in quanto l’uomo, nella parte carnea della sua dieta, si ciba prevalentemente di animali domestici che possono aver pascolato in aree contaminate. Si presuppone che per questi, almeno per quanto riguarda il DU, la fonte principale di contaminazione sia non tanto il vegetale in sé, ma il pulviscolo inalato ed ingerito con l’erba e con il sollevamento delle polveri, nonché nell’atto stesso del grufolare tipico di molti Ungulati. Pertanto, un approccio sufficientemente rapido ed esemplificato che permetta di pianificare i successivi approfondimenti scientifici e l’attuazione di una adeguata prevenzione, è quello che si avvale degli animali domestici di maggiore uso alimentare nelle aree presumibilmente a rischio, almeno per il DU: Bosnia (uso bellico nei dintorni di Sarajevo, di Gorazde e di Duboj), Kosovo-Metohija (uso bellico soprattutto in aree di confine con l’Albania), Serbia (uso bellico nella valle di Presevo al confine con la Macedonia), Montenegro (uso bellico nella penisola di Lustica ai confini adriatici con la Bosnia ed in aree limitrofe al Kosovo), Lazio Sardegna e Friuli (uso presunto nelle esercitazioni in poligoni di tiro), Iraq (contaminante principale nella guerra del Golfo, soprattutto nel sud dell’Iraq e nel Kuwait), Somalia (uso bellico a Mogadiscio), Palestina (uso bellico israeliano su aree di stretta pertinenza palestinese, come la striscia di Gaza). In aree presumibilmente contaminate si possono individuare animali domestici pascolanti (Ovini, Bovini, Caprini, Suini ed Equini) in qualità di bioconcentratori di larga diffusione e consumo, per determinare nei loro organi bersaglio (cfr. WHO.INT, 2001), almeno in una prima fase, le concentrazioni dei contaminanti (DU, metalli pesanti e organoclorurati). I risultati potranno essere confrontati, successivamente, con conspecifici viventi in aree di controllo, studiando anche gli effetti biologici su biomarcatori ed in comparazione con altri bioindicatori. Il criterio dello studio per transetti territoriali potrebbe portare all’individuazione di gradienti di contaminazione chimico-radioattivi utili per stabilire le più opportune precauzioni da adottare nelle aree a rischio. Tale compartimentazione a schemi territoriali può anzitutto essere adottata a livello orientativo e quindi in ogni campione biologico devono essere determinati i contaminati caratteristici, sia chimici che radioattivi, i quali devono essere rilevati, per quanto possibile, tutti, in modo da fornire un quadro comparativo che permetta anche la ricostruzione topografica e quantitativa dei livelli generali di contaminazione. Organi bersaglio di facile reperimento e trasferibilità da sottoporre ad analisi possono essere le ossa, il grasso stabile, il mantello, mentre altri organi e tessuti richiedono maggiori precauzioni ed il mantenimento della catena del freddo (sangue, rene, polmone, fegato, gonadi, cervello). Analisi radiometriche della dieta umana e degli animali domestici potrebbero portare a risultati non sempre facilmente interpretabili, in quanto gli emittenti alfa possono presentarsi sporadicamente nelle diete e le emissioni gamma non danno risultati esaustivi sul DU, data la scarsa attività gamma tipica della generalità degli attinidi; per la determinazione dell'effetto Chernobyl questo rimane invece un ottimo metodo per studiare la dinamica dei radiocesi nelle matrici alimentari in Europa (cfr. DPRSN, 2001), ma anche un modello unico per lo studio della dispersione dei contaminanti a seguito dell'esplosione di una centrale nucleare in aree antropizzate, che diviene oggi valido presupposto per la modellistica per fini bellici. Un ulteriore supporto a questo tipo di indagini è la comparazione con un'area costiera d'Italia (foce del Sinni) sottoposta a contaminazione da riversamento di Uranio e altri nuclidi per un incidente avvenuto nel 1975 nell'Impianto di Trattamento e Rifabbricazione di Elementi di Combustibile (ITREC) del Centro Ricerche Nucleari della Trisaia in Basilicata (CNEN, 1979), evento praticamente mai studiato per quanto riguarda gli effetti biologici ed epidemiologici a lungo termine.

  2. Studio di piccoli mammiferi residenti in aree presumibilmente contaminate (Cristaldi in Zucchetti, 2000; Cristaldi et al., 2001; Vujosevic et al., in prep.), come monitoraggio comparato nel tempo e nello spazio ai fini della determinazione del danno genetico e fenetico su bioindicatori di rischio territoriale mediante biomarcatori (test di genotossicità e delle asimmetrie morfologiche).

  3. In parallelo, lo studio sperimentale degli effetti biologici e tossicologici della polvere combusta di Tungsteno (W) in ratti albini stabulati e comparazione degli effetti della polvere di DU ("pulito" e "sporco", sec. Zucchetti, 2001) e di Uranio naturale (U) nelle stesse condizioni sperimentali. Lo studio ha lo scopo di comparare gli effetti differenziali del W come metallo pesante non radioattivo utilizzabile al posto del DU, di un metallo manipolato caratterizzato da diversi livelli intrinseci di radioattività (DU "pulito" e "sporco") e dell’Uranio naturale (UN).

  4. Un ultimo studio proposto è di tipo modellistico, indispensabile per la corretta interpretazione dei risultati sperimentali ed epidemiologici che man mano si renderanno disponibili. Il progetto prevede l’acquisizione di dati rilevanti per l’effettuazione di simulazioni dell’esposizione a DU della popolazione balcanica e delle forze di invasione e di occupazione mediante modelli e codici di calcolo, con determinazione di dosi collettive e individuali medie. Risulta necessaria l’acquisizione di dati meteorologici, di distribuzione della popolazione, delle sue abitudini alimentari e di residenza medie, e quant’altro sia necessario per un corretto modello di esposizione radiologica. A livello di materiale bellico impiegato e di tempi di residenza, risulta necessaria la messa a disposizione da parte delle autorità competenti di dati sul reale utilizzo di DU a scopo bellico nei Balcani, nonché delle permanenze e degli impieghi delle forze di occupazione NATO nell’area. Per questa indagine è essenziale in ultimo l’instaurazione di collaborazioni con centri di ricerca ed università della Repubblica Federale di Jugoslavia, sia per lo scambio e l’acquisizione dei dati necessari, che per l’elaborazione comune dei modelli. Si segnala a questo proposito l’esistenza già oggi di accordi di collaborazione fra Università italiane e jugoslave [cfr. Politecnico di Torino, 2001], che possono adeguatamente essere utilizzati come ambiti di riferimento per la ricerca proposta.

2.4 Alcuni punti essenziali sulla questione della pericolosità del DU usato a fini bellici (cfr. WHO.INT, 2001)

  • Innanzitutto, gli effetti del DU non sono escludibili a priori, se non a seguito di una verifica osservazionale dell’effettivo uso dei dispositivi in aree segnalate o sospette ed in presenza di una adeguata comparazione con effetti derivanti da altre cause (ad esempio,per lo scenario balcanico, bombardamenti con contaminazione chimica delle aree di Pancevo e Novi Sad estesa ad un’ampia area est europea): secondo logica, potrebbero esservi quindi più aree in cui sono presenti diverse fonti di contaminazione.

  • Il DU è innegabilmente un materiale radioattivo, scarto della preparazione del combustibile nucleare. Il suo elevato peso specifico, la piroforicità, ed altre sue proprietà lo rendono ideale come appesantitore per testate di proiettili e missili ed i suoi utilizzi bellici sono ampi, circostanziati e crescenti nel tempo (cfr. Allegati). Inoltre, vi è grande disponibilità di questo materiale a un costo assai basso confrontato con i materiali competitori (per esempio il Tungsteno).

  • Gli interrogativi sulla pericolosità del DU posti dalla sua radioattività e dalla sua natura di metallo pesante appaiono pienamente confermati da molte evidenze di letteratura e da valutazioni preliminari effettuate da alcuni degli scriventi, ed imporrebbero una estrema cautela nella prosecuzione del suo utilizzo, che, senza l’adeguato supporto di indagini, andrebbe perlomeno sospeso se non completamente abolito.

  • Appare innegabile l’esistenza di un rischio aggiuntivo legato all’utilizzo militare del DU. Gli scenari di battaglia in cui vengono utilizzate armi al DU risultano contaminati a livello radioattivo da questo materiale. Le caratteristiche di radioattività del DU (lunghissima vita media, dell’ordine dei miliardi di anni) fanno sì che questa contaminazione possa essere smaltita soltanto attraverso meccanismi bio-ecologici dell’ecosistema colpito, e non attraverso il decadimento fisico del radionuclide.

  • Alla contaminazione sono esposti sia gli eventuali attaccanti che gli attaccati, inclusa la popolazione civile, nonché le eventuali forze di occupazione post-bellica. La pericolosità o meno di tale contaminazione dipende dalla concentrazione del contaminante e dalle modalità di esposizione: proprio su questi aspetti si è incentrata la nostra indagine.

  • La quantità totale di DU rilasciato durante le guerre nei Balcani degli anni 90 ammonta a circa 15 tonnellate, secondo le ammissioni della NATO, mentre è prudenziale pensare perlomeno ad un raddoppio di questa cifra in via conservativa.

  • La corretta conoscenza della composizione del DU è essenziale per determinarne il potenziale di rischio radiologico. Oltre ai tre nuclidi originari (U-234, U-235, U-238) vi sono alcuni prodotti di decadimento di questi nuclidi, ed inoltre alcuni altri nuclidi (U-236, Pu-239, Np-237) che si originano durante la fase di produzione del DU nel ciclo del combustibile nucleare.

  • Il metabolismo del DU è analogo a quello dell’Uranio naturale in quanto le caratteristiche chimica dell’elemento sono le stesse. In particolare, oltre a distinguere due forme (solubile ed insolubile) a livello metabolico, si può identificare con l’inalazione la via di esposizione più rilevante. Il DU inalato passa, se non riemesso col muco, dai polmoni al sangue, da cui viene eliminato essenzialmente per via renale. Una piccola parte si fissa nelle ossa, mentre alcuni organi connessi all’apparato polmonare (linfonodi del mediastino) risultano particolarmente esposti, al pari dei polmoni stessi e dei reni. Analizzando in dettaglio il percorso metabolico del DU incorporato, si verifica che gli organi più colpiti sono di gran lunga i polmoni e gli organi ad essi più strettamente collegati. Risultano esposti anche reni ed intestino, e questo traccia la via dell’uranio "eliminato" attraverso l’escrezione, a breve termine. Vi sono però molti altri organi esposti, fra i quali, in particolare, la superficie delle trabecole dell'osso spugnoso ed il midollo rosso ematopoietico tra esse frapposto. In particolare, inoltre, la capacità dell'Uranio metabolizzato di formare complessi con le molecole biologiche contenenti fosfati (e.g.: acidi nucleici) porta a sospettare fortemente in una sensibile interazione con i processi di sintesi e di riorganizzazione cromosomica nelle cellule somatiche, ma anche ad una preoccupante influenza nei processi di produzione delle cellule germinali per i probabili effetti che si potranno riscontrare nelle successive generazioni.

 

3 Commento alle "Relazione Preliminare e Seconda Relazione della Commissione istituita dal Ministero della Difesa sull’incidenza di neoplasie maligne tra i militari impiegati in Bosnia e Kossovo" (comm. Mandelli, 2001)

La relazione in oggetto va considerata solo come un punto di partenza per il prosieguo delle indagini e per la creazione di un apposito osservatorio epidemiologico, che contribuisca ad attenuare i danni della presenza di frammenti e contaminazioni provenienti dall’uso del DU nei Balcani.

Devono essere tuttavia considerate alcune notevoli carenze ed omissioni che sono state rilevate nella metodologia utilizzata e dunque nelle conclusioni cui è pervenuta la Commissione.

3.1 Conteggio incompleto dei malati

Come ammesso dagli stessi estensori fin dalla stesura preliminare della relazione Mandelli, i casi presi in considerazione nello studio epidemiologico "provengono in parte da segnalazioni spontanee". Non vi è stata pertanto nessuna ricerca attiva dei "malati", ma solo i malati che hanno voluto/potuto hanno segnalato il loro caso.

Sono stati esclusi dal conteggio i casi senza una "diagnosi documentata". Ciò vuol dire che, se si attivassero indagini specifiche, alcuni tumori potrebbero raggiungere la documentazione necessaria per una diagnosi anche istologica accurata.

Se ne deduce che con la attivazione di uno studio specifico si potrebbero rilevare nuovi casi non segnalati e documentare casi con diagnosi imprecise.

Nella seconda versione vengono accertati 28 casi di tumore tra i militari, pressoché equamente divisi tra tumori ematici e tumori solidi; tra i primi, solo 3 avevano effettuato missioni soltanto in Kosovo (a Pec), mentre del secondo gruppo un solo militare proveniva da Dakovica (Kosovo); la rimanente settima parte dei colpiti da tumori aveva operato in almeno una missione (da 55 a 388 giorni) a Sarajevo (Bosnia) tra il 1996 ed il 1999 (l'unico tumore polmonare dell'unico cinquantenne operante a Sarajevo nel 2000 appare attribuibile ad altri fattori causali). Sorprende la rapida eziologia dei tumori in persone giovani (latenza apparente: da circa 5 mesi a 4 anni per i tumori ematici, da 10 mesi a 4 anni per quelli solidi), non solo per i linfomi di Hodgkin (5 dalla Bosnia, tre dal Kosovo ed uno da ambedue), ammettendo la connessione con l'esposizione in aree contaminate da DU, come recentemente sostenuto persino dagli organi della grande stampa statunitense (USATODAY, 2001).

3.2 Analisi e valutazione degli esposti

3.2.1 Durata della missione e mansioni svolte

La durata delle missioni non viene praticamente presa in considerazione, se non come dato cumulativo. Nessun criterio è stato preso in considerazione per valutare i diversi livelli di esposizione tra militari che hanno svolto missioni di un solo giorno (nessuno dei quali si è ammalato: il minimo riscontrato è 55 giorni di permanenza per un giovane malato di tumore cerebrale) e militari con tre anni di permanenza in Jugoslavia. Non viene affatto considerata la mansione svolta (se operativa o sedentaria, nemmeno per reparto) e le eventuali precauzioni e profilassi adottate. Tantomeno vengono considerate altre fonti di possibile contaminazione, anche per specifiche abitudini personali (e.g.: fumo). Manca l'anamnesi dettagliata sui malati per poter ricostruire i fattori causali implicati.

3.2.2 Luogo della missione

Nella relazione vengono presi in considerazione tra gli esposti anche i casi di militari mandati in missione in zone non contaminate (cfr. Tab. 4 relazione Mandelli).

Il problema della discriminazione fra aree bombardate dalla Nato e aree non bombardate non è nemmeno discusso. In assenza di indicazioni NATO sull’uso del DU in Bosnia, si è indotti a pensare che il DU non dovrebbe essere stato usato dalla NATO almeno nelle enclaves saldamente in mano ai musulmani, notoriamente appoggiati dalle truppe NATO.

Particolarmente improprie appaiono le inclusioni nella lista di militari che hanno svolto missioni a Mostar (798 missioni in tutto), mai bombardata con DU in quanto posta nella zona del conflitto tra croati e musulmani di Bosnia, a Strmica (24 missioni), a Zvornik (14 missioni) e in altre almeno 26 località (da 1 a 4 missioni ciascuna), nelle quali complessivamente (888 missioni), per ragioni di collocazione geo-politica (enclaves musulmane o croate della Bosnia, località della Croazia), si poteva senz’altro escludere l’avvenuto uso bellico del DU.

Dall’esame dei toponimi riferiti alle località di confronto, si nota una diffusa imprecisione lessicale di questi (dimostrata peraltro dalla incompleta sovrapponibilità dei dati della seconda relazione rispetto alla prima), l’inserimento confusionario (almeno 46 località con una sola o con pochissime missioni, tra le quali si annoverano una ventina dei sopracitati "siti impossibili") di località estranee sia alla Bosnia, sia al Kosovo. Inoltre si constata nella versione preliminare l’enumerazione di missioni in "Bosnia (varie località)" e in "Kosovo (varie località)" di rispettivamente 103 e 310 missioni effettuate dalla Marina (sic!), poi trasformate nella seconda versione in 103 missioni a Mostar (Bosnia), 98 missioni a Decani, 87 a Klina, 125 a Mitrovica (tutte e tre località del Kosovo), sempre attribuite alla Marina militare. I nomi delle località sono trascritti in maniera evidentemente superficiale, con evidenti errori di spelling (e.g.: Ottrid al posto di Ohrid), mischiando nomi di città con nomi di regioni, nomi di sobborghi con nomi di quartieri di grandi città, in maniera talvolta da considerare le stesse aree in più voci diverse o di rendere ardua o impossibile una qualsivoglia identificazione delle stesse (e.g.: Bukovac, Jakova, Vuota), fino ad includere 78 missioni in località dichiaratamente non precisate. Nelle relazioni non si fa alcun cenno sulle posizioni geografiche degli obiettivi colpiti effettivamente in Bosnia, nonostante il fatto che i raid aerei ivi effettuati siano partiti per la quasi totalità dalla base di Aviano; per ogni raid, infatti, il pilota, nel suo rapporto di operazione, deve specificare quali obiettivi ha eventualmente colpito, le loro coordinate geografiche, il tipo di colpi impiegati (Accame, com. pers.)

3.3 Bosnia e Kosovo

Appare del tutto scorretto accorpare, come ha proceduto la comm. Mandelli (2001), i presunti esposti in Bosnia (quindi dal 1995), ammontanti ad un numero deducibile di missioni pari a 30334, con gli esposti in Kosovo (dal 1999), pari a circa 24683 missioni, in quanto, almeno per i tumori degli elementi figurati del sangue (leucemie e linfomi) che rappresentano le prime evidenze tumorali, soltanto per la Bosnia i tempi di latenza accettati (dell'ordine dei cinque anni) possono corrispondere a quelli attesi (al confronto con i dati irakeni il picco massimo dovrebbe essersi verificato proprio nello scorso e nel presente anno), mentre per il Kosovo tali tempi di latenza sono da ritenere ancora insufficienti. Per correttezza metodologica, quindi, le valutazioni si sarebbero dovute effettuare solo per la prima coorte (esposti in Bosnia), mentre il rischio in Kosovo si sarebbe dovuto scorporare, per poi senz’altro monitorarlo e compararlo nel tempo, ma evitando momentaneamente di sottoporlo a valutazioni quantitative, soprattutto in aggiunta all’altra coorte della Bosnia esposta nei quattro anni precedenti. Tale artificio, assieme alle altre imprecisioni, sembra voler tendere a nascondere una qualche ragione orientata alla sottostima del rischio ed una latente propensione alla diluizione dei dati di confronto. La stessa proposta di modifica delle valutazioni statistiche formulata da Bartoli Barsotti (2001) e poi accettata (Mele, 2001) nella seconda versione della relazione Mandelli (2001), considerando come "poissoniana" la distribuzione dei dati statistici relativi alla probabilità di insorgenza dei linfomi di Hodgkin, tende a confermare quest’ultima deduzione; nelle conclusioni la commissione deve infatti ammettere: "Esiste un eccesso, statisticamente significativo, di casi di Linfoma di Hodgkin", che cerchiamo di spiegare nel paragrafo seguente.

3.4 Nota sull’eziologia dei linfomi maligni

I linfomi maligni (Hodgkin e non-Hodgkin) sono stati oggetto di numerosi studi epidemiologici ed associati a varie esposizioni ambientali, specialmente solventi (tra cui il benzene), legno, diossina ed erbicidi fenossiacidici (Persson et al., 1993; Pesatori et al., 1993). Alcuni studi rilevano la relazione tra linfoma di Hodgkin e presenza nell’ ambiente di lavoro di Uranio (Archer et al., 1973; Checkoway et al., 1985). Studi su lavoratori esposti a lavorazioni di processamento di Uranio in impianti nucleari statunitensi (Gilbert et al., 1993 a, 1993 b; McGheorgegan & Binks, 2000) mettono in luce la relazione tra esposizione e linfoma di Hodgkin, anche se per gli autori rimane dubbia l’interpretazione dei risultati (incompatibilità con i risultati ottenuti sugli esposti ad irraggiamento esterno di Hiroshima e Nagasaki, casualità statistica).

La relazione riscontrata tra uso massiccio del DU e cancerogenesi (soprattutto leucemie e linfomi di Hodgkin con picchi dopo un quinquennio dall’esposizione e l’insorgenza di gravi malformazioni nei concepiti) riscontrata nei militari irakeni, statunitensi e britannici della guerra del Golfo (Durakovic, 1999; Zaijc, 1999; Al-Jibouri, 2000; McDiarmid et al., 2000; The Royal Society, 2001), sembra non lasciar dubbi sulla cancerogenicità per via interna ed a basse dosi del DU. Questi risultati mettono anche in evidenza che i provvedimenti (compresa la ricerca mirata) di profilassi e cura da attuare sui soggetti colpiti da alcune forme di cancro (The Society for Radiological Protection, 1998-2001), ed in generale su tutti le popolazioni esposte a rischio da DU, raccomandati anche dalla commissione Mandelli (2001), devono essere assolutamente estesi anche ai concepiti dalle persone a rischio (familiari degli esposti). Dovranno essere previsti pertanto gli opportuni provvedimenti di spesa, che potrebbero ricadere sui responsabili politici delle contaminazioni territoriali procurate attraverso armi illegali (Cristaldi et al., 2001).

Il gruppo degli esposti impiegati nelle zone bombardate con armi al DU potrebbe sviluppare il cancro in maniera differenziata in relazione ai livelli di esposizione a DU e/o altri contaminanti e in virtù di una maggiore o minore suscettibilità individuale.

Il linfoma di Hodgkin è infatti una forma tumorale aspecifica che potrebbe essere presente in maniera statisticamente significativa tra i militari italiani per l’esposizione ad agenti mutageni in presenza di stress psico-fisico. Il sistema immunitario, esposto a più fattori stressanti contemporaneamente, tra cui l’esposizione al DU in condizioni di multiple e basse dosi, potrebbe aver reagito con queste forme tumorali tipiche dei giovani.

Una recente conferma di queste deduzioni proviene dai militari spagnoli (The Office of Soldier’s Defender in Spain, 2001), i quali, aggiungendo i volontari operanti in Kosovo, avrebbero sviluppato complessivamente 27 tumori, di cui 4 sono stati diagnosticati come linfomi di Hodgkin, che è la forma di tumore più frequente in questa coorte esposta in Kosovo.

 

RINGRAZIAMENTI: Gli AA. sono grati a Falco Accame, Angelo Baracca, Paolo Bartolomei, Mariella Cau, Chiara Cavallaro, Giorgio Cortellessa, Stefano De Angelis, Valerio Gennaro, Angelo Mastrandrea, Ivan Pavicevac, Paolo Pioppi, Francesco Polcaro, Alessandra Signorini, Antonella Signorini, Lucio Triolo, per il prezioso supporto critico ricevuto durante la raccolta della documentazione; tale ringraziamento va esteso a tutto il Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra" ed a tutto il gruppo di lavoro del Tribunale Clark per l’interesse ed il sostegno ottenuto nella realizzazione del presente rapporto.

 

 

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Allegati

BOSCHETTI Luca, 2001. Pericolosità dell’utilizzo dell’Uranio Impoverito a scopi militari. Tratto dalla Tesi di laurea in Ingegneria Energetica (relatore Prof. M. Zucchetti - DENER, Politecnico di Torino),
si articola in:

ALLEGATO 1 - Dati sull'uranio impoverito

ALLEGATO 2 - Usi dell'uranio impoverito

ALLEGATO 3 - Glossario di autoprotezione

ALLEGATO 4 - Modello per la stima delle conseguenze sulla popolazione balcanica

BIBLIOGRAFIA per gli allegati 1-4

Allegati

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