I centri commerciali tra superfluo e tempo libero

L’angoscia che provo in un centro commerciale è paragonabile solo a quella che mi dà, per altri e ben più seri motivi, l’entrare in un ospedale. In un ospedale vedo la malattia fisica delle persone, in uno “shopping center” quella mentale.
14 luglio 2008
Andrea Bertaglio

Centro commerciale

Quale miglior modo di passare un sabato o una domenica pomeriggio, se non passeggiando nella sgargiante allegria di un centro commerciale? Quale migliore idea di spendere il proprio tempo (ed il proprio denaro)? Chi non trova più interessante camminare tra palme di plastica, zampilli d’acqua sincronizzati, luci e clima costanti, piuttosto che fare una passeggiata al mare, in montagna, al lago o semplicemente in un parco o nel centro del proprio paese o città? A quanto pare sempre meno gente.
Io provengo dalla Lombardia e, più precisamente, dal cosiddetto hinterland milanese. Non so quanti di voi siano stati in questa zona negli ultimi anni, ma nel raggio di una cinquantina di chilometri attorno a Milano (e anche più, verso Brescia) si è verificata una diffusione di questo tipo di centri che ha dell’incredibile. Crescono come funghi; ne fanno uno ogni pochi mesi! Io per mia fortuna (e mia scelta) non vivo più lì da tempo, ma ogni volta che ci torno ne vedo uno nuovo. Tutto questo per dire che, mio malgrado, ho spesso avuto modo di metterci piede (nonchè alcuni anni fa di lavorarci!).

Tralasciando il noto e triste fatto che anche grazie a questi posti ed ai loro prezzi più o meno stracciati i piccoli negozi stiano scomparendo (e tralasciando il discorso che si potrebbe aprire sull’arroganza e lo sfruttamento delle catene di supermercati verso i vari produttori, che richiederebbe un articolo a sé), quello che mette più angoscia dei centri commerciali è l’atmosfera che ci si trova dentro.
Innanzi tutto, sono tutti uguali. Nonostante gli sforzi per renderli unici, originali e più attrezzati della concorrenza, cercando di mascherare il pugno nell’occhio che il più delle volte sono, ovunque ci si entri la scena che ci si trova davanti è sempre la stessa: gruppi di adolescenti vestiti tutti uguali sparsi qua e là, centinaia di famiglie accalcate con carrelli stracolmi (di cosa, poi?), qualche hostess belloccia per le promozioni di turno, un caldo soffocante in inverno ed un freddo raggelante in estate (dovuti al clima costante di cui sopra), l’immancabile puzzo dell’onnipresente McDonald’s e tanta, tanta tristezza.

Homo consumens

L’angoscia che provo in un centro commerciale è paragonabile solo a quella che mi dà, per altri e ben più seri motivi, l’entrare in un ospedale. In un ospedale vedo la malattia fisica delle persone, in uno “shopping center” quella mentale. Mi riferisco in questo caso ad uno degli innumerevoli casi di follia di massa durante una delle mille offerte extra pubblicizzate di questi posti, di quando mi è capitato di vedere la gente fare a gomitate (letteralmente!) per un telefonino cellulare in offerta! Mi sembra fosse Milano Fiori ed era l’estate 2005.Un centro commerciale è la negazione di tutto ciò che è genuino, individuale, spontaneo. È la consacrazione della qualità alla quantità. Dà l’illusione di poter trovare tutto ciò che serve, ma nonostante i supermercati e i duecentocinquanta negozi, spesso non si trova quello che si cerca (soprattutto se minimamente al di fuori delle mode del momento). Tutti propongono la stessa identica merce, ma ben pochi beni. E se non si presta abbastanza attenzione, si entra per comprare una matita e si esce con cento euro in meno, spesi in cose che poco prima non ci servivano affatto.In posti come questi il “consumatore” regna, ma non governa. Ha l’impressione di scegliere ciò che vuole, ma in realtà è già stato tutto deciso da tempo da altri.
Pubblicità, promozioni, offerte, marketing, mode e tendenze studiate a tavolino ci vogliono far credere che tutto possa essere ridotto ad una serie di desideri elementari, sempre rinnovati, soddisfacibili passando alla cassa. La gente gira a mo’ di zombie, sempre più frastornata dalle migliaia di possibilità che le viene fatto credere di avere e forse per questo, alla fine, sempre più esigente ed insoddisfatta. Un po’ come in tutto il resto nella vita di oggi. Un mondo inumano, letteralmente di plastica.

Certo tutto “costa meno” e soprattutto un posto così ha il merito di creare molti posti di lavoro. E in una società in cui non si è in grado di autoprodursi più niente, in cui non si sa nemmeno quale è la stagione in cui matura questo o quel frutto, in cui si è persa ogni competenza riguardante il saper fare ed ogni voglia di re-impararlo, in cui non si ha più il tempo per niente, quello di avere un lavoro (anche se spesso con contratti da fame a tempo determinato) è una priorità. Che poi sia quello di cassiera o di impacchettatore di regali di Natale poco conta. Meglio non imparare più niente ma avere uno straccio di stipendio per qualche mese, a quanto pare…

Al di là di questo, comunque, infastidisce anche vedere come questi posti siano diventati dei punti di ritrovo in cui, soprattutto un adolescente, possa o spesso voglia avere il fulcro della sua vita sociale. Certo anche questo è meglio di niente. Meglio in un centro commerciale che chiuso in casa davanti a tv e Playstation, o davanti al pc connesso ad una chat o ad uno dei numerosi “social networks” che hanno avuto così tanto successo ultimamente, come Facebook, Myspace, Netlog ecc. Ma non sarebbe meglio ritrovarsi di più all’aria aperta, senza dover per forza stare in questi postacci a sprecare tempo e soldi?

Ci si trova, si beve qualcosa, si mangia qualcosa, si gira per vetrine e si finisce per farsi abbindolare, in un modo o in un altro. Si fanno acquisti del tutto evitabili, che non avremmo mai fatto se fossimo andati altrove. È vero che in questo modo aiutiamo il PIL del nostro martoriato Paese a crescere un po’ (sic), ma è proprio necessario? Smettiamola di farci prendere in giro. Usciamo da queste scatole di cemento che ci hanno costruito attorno per tenerci a bada. È bello andare a fare un giro e per alcuni anche fare acquisti il sabato o la domenica, ma è bello almeno farlo in modo sano, genuino, vero!

Se si deve comprare qualcosa fa piacere almeno avere a che fare con qualcuno che sappia ciò che vende e, perché no, che metta un po’ di passione in quello che fa, piuttosto che qualche commesso/a annoiato/a che reciti un copione a memoria da usare coi clienti, senza però avere il minimo interesse per ciò che fa, né la minima competenza.
Sfruttiamo la fortuna che, per il momento, da italiani (e da europei) continuiamo ad avere, di poter tornare al piccolo negozio, quando proprio è necessario comprare qualcosa. E ci accorgeremo come, alla fine, potremmo addirittura risparmiare, nonostante i piccoli negozi siano più cari dei grandi centri. Il trucco è comprare solo ciò che ci serve, senza riempirsi i carrelli di spazzatura. Tutto ciò come primo passo verso l’emancipazione dal mondo del superfluo, dello spreco, del nulla. E magari, tutto ciò come primo passo verso ciò che alla lunga potrebbe portarci davvero all’autoproduzione dei beni.

I centri commerciali stanno diventando sempre più macchine da soldi travestite da dispensatori di felicità e benessere, dei conglomerati di intrattenimento. Inglobano in sé sempre più cose: centri fitness, ristoranti, sale giochi, cinema multisala e chi più ne ha più ne metta. E stanno rendendo tutto sempre più artificiale. Come dice Tom Hodgkinson, ci hanno già inculcato il bisogno di lavorare fino all’istupidimento; non lasciamo che creino il bisogno di rilassarsi e di svagarsi che prolunghino tale istupidimento.
Riprendiamoci il nostro tempo; quello libero, almeno.

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