Kimbau

In senso di un impegno solidale al femminile

Donne senza confini

In questo articolo del 13 ottobre 2004 si raccontano le storie di diverse donne impegnate nella cooperazione internazionale. Fra queste c'è anche la storia di Chiara Castellani.
12 maggio 2005
Federico Bastiani

La vicenda legata al rapimento delle due Simone in Iraq, ha riportato in primo piano il ruolo delle donne nella cooperazione allo sviluppo.
Sulle due ragazze si è detto di tutto, eroine per alcuni, traditrici ed opportuniste per altri.
Non voglio esprimere giudizi in merito, ero però interessato a capire cosa significasse per una donna intraprendere un percorso di vita legato alla cooperazione.

Che ruolo hanno le donne? Quali difficoltà incontrano rispetto agli uomini? Per capire meglio la situazione mi sono rivolto alla Ong bolognese Aifo, una delle più antiche in Italia, fondata nel 1961 da un gruppo di volontari mobilitati contro la lebbra.

Stabilisco un primo contatto con l’Aifo incontrando una giovane ragazza milanese nonché scrittrice. Libera Pota ha 26 anni, è una ragazza piena di entusiasmo con tanta voglia di cambiare il mondo. Il 12 ottobre scorso presso il Caffè de la Paix di Bologna, ha presentato il suo secondo libro “A.A.A. Obiettrice Cercasi”, un libro genuino alla Enrico Brizzi scritto durante la sua esperienza nel servizio civile presso una ong.
Voglio capire meglio cosa spinge una giovane ragazza come Libera a dedicarsi alla cooperazione perché al contrario di quanto possa pensare l’opinione pubblica, non tutti sono in grado di compiere tale scelta.
P. è un’impiegata di mezza età fiorentina. Mi ha contattato circa cinque mesi fa perché era stanca della sua vita piatta ed inutile al servizio del capitale. Aveva voglia di rimettersi in gioco e mi chiese consiglio su come iniziare a muoversi nella cooperazione. Poiché non aveva competenze specifiche professionali, l’ho messa in contatto con l’ex Ministro della Cultura del Mali, Aminata Traoré che nel suo paese porta avanti progetti legati all’infanzia negata ai bambini.
P. è partita a luglio di quest’anno con tanto entusiasmo. A metà settembre ho ricevuto una sua email ma non era in Mali, era di nuovo nella sua Firenze. “Caro Federico”;, ha scritto, “mi sono trovata improvvisamente in una realtà troppo diversa che andava ben al di là della mia immaginazione. L’impatto è stato tremendo, la povertà dilagante che mi circondava, quegli insetti enormi che mi hanno costretta per tre giorni in ospedale ed io che ero spaesata. Ho tentato di immergermi nella nuova realtà ma non ce l’ho fatta. Adesso sono di nuovo a Firenze con la mia solita vita ma consapevole dei miei limiti”.
Questo era il racconto di P., 55 anni, ma adesso mi trovo davanti a Libera, 26 anni, una ragazza che sembra timida ma non lo è affatto. “La mia prima ed unica esperienza in Africa l’ho avuta a 21 anni, era il mio primo anno di università. L’Africa è sempre stata il mio sogno, ho letto tutti i libri di Kuki Gallman. Mio padre è un medico e nell’estate ’99 mi ha portato con lui in Africa, in Kenya.” Da quell’esperienza è nato un libro, “Musungu- Bianca nell’Africa nera” (ed. Cleup). Quel viaggio non l’ha sconvolta in senso negativo ma l’ha spronata, “se questi bambini sono costretti a tacere davanti al dolore fisico, se hanno gli stessi pantaloni per mesi, il ventre gonfio di quello che non mangiano, significa che qualcuno si è servito doppio e forse l’ho fatto anch’io; questo mi spaventa”.
Libera in Africa accudiva i bambini di Nyandwa, un villaggio poverissimo sulle rive del Lago Vittoria. “L’impatto è stato duro” afferma Libera, “bimbi malnutriti con le macchie bianche di scabbia, vederli in tv è un conto , dal vero è un altro”. Mi racconta poi le sue piccole difficoltà di donna in un continente come l’Africa. Non è stato facile farsi rispettare anche davanti ad un bambino che è abituato a vedere sua madre e le donne in genere, totalmente sottomesse all’uomo. Richiede un lavoro lungo e paziente ma Libera ce l’ha fatta e nei suoi prossimi progetti c’è l’intenzione di tornare in Africa. A 26 anni porta con sé tutto il suo entusiasmo e sicuramente in futuro si scontrerà con difficoltà sempre più grandi.

Per capire quali ho tentato di conoscere un simbolo della cooperazione italiana, una donna che ha ricevuto nell’ottobre del 2000, il grado di Alto Ufficiale della Repubblica Italiana, Chiara Castellani.
Poter parlare con Chiara è molto difficile perché attualmente si trova in un piccolo villaggio in Congo, a Kimbau. La Castellani ha accesso ad internet molto raramente così potrò incontrarla a Bologna il 30 gennaio prossimo in occasione della giornata contro la lebbra organizzata dall’Aifo.
Per conoscere Chiara Castellani basta entrare in libreria e cercare “Una lampadina per Kimbau” (Ed. Mondatori), un libro scritto dalla giornalista Mariapia Bonanate che con tanta pazienza, ha messo insieme le lettere di Chiara.

Nata a Parma nel 1956, la Castellani fin da piccola desidera fare il medico e così, laureatasi giovanissima con specializzazione in ginecologia, a 27 anni parte per il Nicaragua dove rimarrà sette anni.
La situazione politica in Nicaragua è molto tesa in quegli anni. Nel 1978 viene assassinato Joachin Chamorro, direttore del giornale La Prensa ed esponente dell’opposizione moderata al regime guidato da Somoza sostenuto dagli Stati Uniti. Nasce così la guerriglia antigovernativa sandinista, ispirata al liberale Augusto Sandino. L’organizzazione mobilitò il paese e costrinse Somoza a rifugiarsi negli Stati Uniti. Da quel momento inizia la guerra civile fra le forze sandiniste ed i “contras” fedeli a Somoza ed appoggiati dal governo di Reagan. Come in tutte le guerre, giuste od ingiuste, sono i civili a pagarne le conseguenze.

Chiara Castellani parte insieme al marito Piero con tanto entusiasmo e la volontà di aiutare i bambini del Nicaragua. Fin da adolescenti Chiara e Piero programmavano di aiutare il terzo mondo. Purtroppo l’anno seguente la loro storia d’amore finì. Lui aspettava un figlio da una donna conosciuta in Nicaragua. Sono stati momenti difficili per Chiara, si sentiva smarrita, sola, avrebbe voluto togliersi la vita. Il mondo le crollava addosso. In una lettera del 1985 scrive: “se facessi un bilancio della mia vita con parametri ordinari, a trent’anni, un matrimonio fallito alle spalle, uno stipendio di sopravvivenza, senza figli, senza un lavoro in Italia, senza una casa in nessun luogo del mondo, dovrei mettermi la classica pietra al collo. Eppure non provo alcuna invidia per queste sicurezze”. Per le donne impegnate nella cooperazione non è facile avere una vita privata e soprattutto non è facile programmare una vita. Le difficoltà per Chiara non sarebbero finite con il divorzio. Il 6 dicembre 1992 durante un trasferimento in Congo, la jeep su cui viaggia ha un incidente. Il braccio di Chiara è seriamente compromesso e non esistono strutture mediche pronte ad intervenire. L’amputazione dell’arto è l’unica soluzione concreta. Torna subito in Italia per una protesi. Durante la degenza Chiara si rende conto che l’Africa è il suo posto, “ricomincerò a fare con la sinistra quello che facevo con la destra”.

A distanza di 12 anni dal terribile incidente, è ancora in Congo, gestisce con l’Aifo un piccolo ospedale a Kimbau, l’unico in una zona grande come il Belgio. Non ha paura della morte, anzi, vederla ogni giorno le fa apprezzare di più la vita.

Ma è giusto ricordare anche chi è stato meno fortunato di Chiara. Esattamente due anni fa veniva uccisa in Somalia la dottoressa e volontaria, Annalena Tonelli dopo aver dedicato trent’anni della sua vita a curare i somali dalla tubercolosi. E’ stata uccisa da estremisti islamici invidiosi della simpatia che riscontrava fra i seguaci di Allah.

Nella pagine del libro di Chiara i momenti di sconforto sono molto più numerosi dei momenti di gioia però è riuscita a trovare le forze per continuare il suo impegno umanitario soprattutto stando a contatto con le donne sudamericane ed africane.

In una lettera dal Nicaragua esprime la sua solitudine, quella solitudine che provano moltissime vedove di guerra o semplicemente donne abbandonate dai mariti ma che trovano sempre la forza di dare il meglio di loro. Chiara ha aiutato donne di Kinshasa ad installare un piccolo polo di sviluppo basato sulla solidarietà che lega le donne nelle zone rurali perché "se l’Africa ce la farà ad uscire dall’abisso nel quale sta sprofondando, lo dovrà alle sue donne", dichiara la Castellani.

Il problema è che nemmeno le istituzioni internazionali si rendono conto dell’importanza della donna nella società africana e lo dimostrano con le scelte pratiche.

Un'analisi in tal senso è stata pubblicata dalla giornalista Noreena Hertz su The Guardian. Quando un Paese chiede aiuto alla Banca Mondiale od al Fondo Monetario Internazionale, le “ricette” che essi impongono prevedono sempre dei tagli alla spesa pubblica. Cosa significa per le donne africane? Significa che vengono annullati gli investimenti nello sviluppo di acquedotti e così le donne devono percorrere ogni giorno chilometri e chilometri per prendere l’acqua. Contenere la spesa pubblica vuol dire dare spazio alle privatizzazioni della sanità e della scuola. Anche in questo caso sono le donne a pagare il prezzo più alto perché se i costi dell’istruzione salgono, le famiglie povere favoriranno i figli maschi. All’interno del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, meno dell’1% dei funzionari è composto da donne. Potrebbe essere questa una delle cause dell’insensibilità ai problemi delle donne che devono essere affrontati a livello internazionale. Intanto cosa si può fare? Chiara, Libera, P., sono tre donne che fanno, faranno, hanno tentato di fare qualcosa per un mondo migliore. Non è facile per una donna occidentale dedicarsi alla cooperazione perché vuol dire compiere una scelta di vita che può non coincidere coni canoni femminili occidentali.

Le donne impegnate nella cooperazione hanno però la grande possibilità di aiutare le donne africane e non, ad essere più protagoniste del futuro dei loro paesi.

Note: Chi l'autore di questo articolo?

"Sono Federico, ho 27 anni e sono laureato in Economia Aziendale. Ho sempre avuto a cuore il tema dei diritti umani stimolato dalla collaborazione con Amnesty International così, grazie a serverdonne, ho avuto la possibilità di avere uno spazio da dedicare a donne dei nostri tempi troppo spesso dimenticate.
Gestisco una rubrica per conoscere meglio donne che nel mondo lottano per la giustizia, la pace ed i diritti umani o per la semplice affermazione di se stesse.
PER INFORMAZIONI donnesenzaconfini@virgilio.it

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