Latina

Dall'occupazione del Congresso al parlamento dei nativi, la disobbedienza civile dei 92 popoli indigeni del paese

Colombia, in marcia i «figli della Terra»

Oltre 160mila violazioni di diritti umani, 260 omicidi, 32 sparizioni forzate: le organizzazioni indigene del paese «festeggiano» la carta dei diritti dei popoli indigeni approvata dall'Onu. Che Bogotà ed altri paesi non vogliono approvare
30 agosto 2007
Giuseppe De Marzo
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

«Oggi più che mai non dobbiamo chiedere permesso. A noi non chiesero permesso per cancellare i nostri luoghi sacri, né tantomeno hanno chiesto permesso per invaderci, sfollarci, massacrarci e trattarci come bestie senza cervello», dice Luis Evelis Andrade presidente della Onic, l'organizzazione nazionale indigena colombiana che raggruppa i 92 popoli nativi colombiani e rappresenta circa 1 milione e 300mila persone. Sono 25 anni di resistenza per la Onic da quando ha avuto inizio la sua storia fatta di grandi lotte e di profonde amarezze per il continuo e sistematico genocidio che le comunità indigene soffrono in un paese già devastato da oltre cinquanta anni di conflitto interno. Una storia fatta anche e soprattutto di speranza, che parte dalla lotta per riconquistare le terre che nel 1979 l'arcivescovo di Popayan, nella regione del Cauca, continuava a rivendicare per diritto divino, sostenendo l'incapacità mentale degli «indios» che in quanto tali dovevano essere trattati come minori d'età. Dopo ottanta anni di soprusi gli «indios» si ribellarono e ripresero le loro terre. Da lì capirono che avrebbero dovuto organizzarsi per combattere il nuovo invasore, che questa volta non depredava in nome del dio crocifisso ma in nome del dio mercato, ai piedi del quale tutti i popoli della terra si devono inginocchiare. Nel 1982 crearono l'Onic. In queste settimane, in Colombia, la Onic sta portando avanti una serie di mobilitazioni e azioni politiche a partire dalla giornata mondiale dei popoli indigeni, che le Nazioni unite celebrano il 9 agosto.
Più che di una festa, per la Onic e per tutte le organizzazioni indigene latinoamericane - e non solo - si tratta di una giornata di resistenza e di rivendicazione dei propri diritti. A venti anni da quando le Nazioni unite hanno iniziato a discutere di una «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni», finalmente nel luglio del 2006 il Consiglio per i diritti umani ha approvato una dichiarazione e l'ha rimessa all'assemblea generale delle Nazioni unite affinché questa la approvasse. Nonostante non sia giuridicamente vincolante per gli stati, la sua approvazione riconoscerebbe dignità politica ai popoli indigeni, consentendo loro uno strumento in più nella difesa dei loro diritti. Gli Stati uniti, il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, la Russia e ovviamente la Colombia hanno bloccato la sua approvazione, chiedendo che venisse cambiata nei punti relativi al diritto alla libera determinazione, all'autonomia e autogoverno, al riconoscimento delle norme, delle tradizioni e dei costumi indigeni, nel diritto ad un proprio sistema di educazione e di informazione e nel riconoscimento dei loro diritti alla terra. Questi paesi stanno in pratica affermando che gli indigeni non hanno diritto di esistere se non come spettacolo folcloristico o come schiavi o mano d'opera a basso costo.
Sono 370 milioni gli indigeni nel mondo, divisi in settanta paesi. Nonostante siano solo il 5% degli abitanti della terra, i cinquemila popoli indigeni sono i più colpiti dalla povertà. Dei 900 milioni di poveri (meglio dire impoveriti) del pianeta, un terzo sono indigeni. A questo dato sconvolgente si somma l'etnocidio di cui sono vittima molte etnie. Il 50% dei popoli indigeni è stato cacciato dai propri territori e la parte restante rischia di perdere importanti conoscenze mediche, oggetto della biopirateria portata avanti dalle multinazionali farmaceutiche. A rischio anche la loro diversità linguistica, considerando che quasi il 70% delle lingue parlate al mondo sono indigene, per non parlare delle foreste e dei boschi. Se a questo sommiamo le decine di milioni di indigeni massacrati durante le varie epoche della conquista, dire che il mondo abbia un debito storico, morale ed ecologico con questi popoli è davvero poca cosa. Nonostante questo, la dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni non viene ancora approvata nel silenzio di molti paesi, tra i quali l'Italia. Per questo il 9 agosto per coloro che si definiscono i «figli della Terra» è una giornata di resistenza e di denuncia per affermare che «tutte le cause sono nostre», come ci dice Evelis, a partire dalla lotta contro le privatizzazioni, per dimostrare che la parola è sempre più forte dei fucili.
Una lotta impari, quella della Onic colombiana, contro un governo assediato dalla scandalo della parapolitica, che attraverso lo strumento del paramilitarismo continua a utilizzare il massacro e l'eliminazione fisica contro qualsiasi gruppo o movimento contrasti i suoi interessi. Un governo fatto da un oligarchia locale sempre più al servizio degli interessi economici delle grandi multinazionali e legato a filo doppio agli interessi geopolitici, militari e strategici del governo statunitense, che ha nella Colombia un autentico bastione contro l'avanzata dei movimenti sociali e della sinistra latinoamericana.
Questi primi otto mesi del 2007 sono stati ancora una volta tragici per gli indigeni colombiani. Nonostante il governo Uribe sostenga che le violazioni dei diritti umani e gli omicidi sono calati, la realtà è completamente opposta. I dati mostrati dal Sindho (il «Sistema di informazione sui diritti umani» della Onic) sono drammatici. Solo sino ad agosto sono stati 160.102 gli indigeni e 23 i popoli che hanno visto i loro diritti violati. Ogni giorno 46 indigeni subiscono violazioni gravi, 54 sono oggetto di violazione del diritto internazionale umanitario, 326 vengono lesi nei loro diritti collettivi. In questi primi otto mesi dell'anno sono stati «già» uccisi per omicidio e omissione di soccorso da parte dello stato, 260 nativi ai quali si aggiungono 32 sparizioni forzate. Sono 18 i popoli che rischiano l'estinzione a causa dell'accaparramento violento dei territori sui quali da millenni vivono. Una violenza avallata soprattutto dalla politica di «sicurezza democratica» che legittima l'uso della forza e restringe persino la libera circolazione di decine di migliaia di indigeni colombiani. L'85% delle responsabilità delle violazioni dei diritti dei nativi in Colombia è da imputarsi direttamente allo stato che continua a disconoscere le sue stesse leggi e, soprattutto, tutte quelle norme costituzionali contenute nella Carta del 1991. Proprio la costituzione colombiana è infatti definita una delle migliori in America Latina, perché riconosce la plurinazionalità e la multietnicità del paese. Diritti contenuti in molti articoli di una Carta che ha rappresentato uno dei punti più alti delle lotte del movimento indigeno. Quella stessa carta oggi viene smantellata dal governo Uribe con decreti e leggi approvate da un Congresso in cui più di 30 deputati sono sotto accusa per legami con il paramilitarismo e crimini contro l'umanità.
Lo scorso 9 agosto il movimento indigeno guidato dalla Onic ha occupato il parlamento colombiano per costituire un «parlamento indigeno» che legifererà in maniera autonomia. Una forma di disobbedienza civile indigena attuata contro il governo, contro il congresso e contro le leggi e gli accordi di libero commercio con gli Stati uniti che distruggono i diritti e l'autonomia indigena. Una indipendenza non dalla Colombia e non certo intenzionata a dividere il paese, ma che al contrario vuole rivolgersi a tutti i colombiani per costruire una pace con giustizia sociale. L'obiettivo è generare un processo insieme agli altri movimenti sociali per una nuova assemblea costituente, un nuovo stato, un nuovo governo.

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