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Robert Fisk: la prova vivente del genocidio armeno

Gli Stati Uniti vogliono negare che il massacro di un milione e mezzo di armeni da parte dei turchi sia stato un genocidio. Ma la prova è qui, in un orfanotrofio di collina vicino Beirut
21 marzo 2010
Robert Fisk

Tombe armene all'orfanotrofio di Antoura - Libano È solo una piccola tomba, con un rettangolo di cemento economico che ne traccia i limiti, benedetta dalla fioritura di gigli selvatici gialli. Dentro c’è la polvere di ossa e teschi e pezzi di femore di più di 300 bambini. Sono gli orfani armeni del grande genocidio morti di colera e di fame quando le autorità turche tentarono di turchizzarli in un istituto cattolico riconvertito sopra Beirut. Ma per una volta questa è la storia quasi sconosciuta di 1200 bambini sopravvissuti – fra i tre e i quindici anni – che vivevano nell’affollato dormitorio di questa scuola ironicamente bella intagliata nella pietra che prova che i turchi hanno davvero commesso genocidio contro gli armerni nel 1915.

Barack Obama e il suo condiscendente Segretario di Stato Hillary Clinton – i quali adesso stanno conducendo una meschina campagna per evitare che il Congresso riconosca il massacro turco-ottomano di un milione e mezzo di armeni come genocidio – dovrebbero venire qui in questo villaggio libanese di collina e chinare il capo per la vergogna. Perché questa è una storia tragica e spaventosa di brutalità contro bambini piccoli e indifesi le cui famiglie erano già state assassinate dalle forze turche durante la Prima Guerra Mondiale, e alcuni di loro ricordarono come furono costretti a fare a pezzi e mangiare gli scheletri di altri piccoli orfani morti per sopravvivere alla fame.

Jemal Pasha, uno degli artefici del genocidio del 1915, e – ahinoi – la prima femminista turca Halide Edipa Adivar aiutarono a dirigere questo orfanotrofio del terrore in cui i bambini armeni erano sistematicamente privati della propria identità armena e chiamati con nomi turchi, costretti a diventare musulmani e picchiati selvaggiamente se qualcuno li sentiva parlare in armeno. I preti dell’istituto lazzarista Antoura hanno raccontato che gli insegnanti lazzaristi furono espulsi dai turchi e Jemal Pasha si presentò alla porta con la sua guardia del corpo tedesca dopo che un muezzin aveva cominciato a chiamare i musulmani alla preghiera una volta che la statua della Vergine Maria era stata rimossa dal campanile.

Fino ad ora, la tesi secondo cui gli armeni hanno subito un genocidio si è basata sulla deliberata natura di massacro. Ma l’Articolo II della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio del 1951 ha stabilito esplicitamente che la definizione di genocidio – “distruggere totalmente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” – include “trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo”. È esattamente quello che i turchi hanno fatto in Libano. Esistono ancora fotografie di centinaia di bambini armeni seminudi che fanno esercizi fisici nei cortili degli istituti. Una di esse mostra addirittura Jemal Pasha sui gradini nel 1916, vicino alla giova e bella Halide Adivar che – dopo qualche riluttanza – acconsentì a dirigere l’orfanotrofio.

Prima della sua morte nel 1989, Karnig Panian – che aveva sei anni quando giunse ad Antour nel 1916 – ha annotato in armeno che il suo nome era stato cambiato e gli era stato assegnato un numero, il 551, per identificarlo. “Ogni giorno al calar del sole alla presenza di oltre 1000 orfani, mentre la bandiera turca veniva ammainata, si recitava “Lunga vita al generale Pasha!” Quella era la prima parte della cerimonia. Poi veniva il momento delle punizioni per chi si era comportato male durante il giorno. Ci picchiavano con la falakha [una verga utilizzata per colpire la pianta dei piedi], e la maggior parte delle punizioni era per aver parlato in armeno.”

Panian ha descritto come morirono molti bambini, dopo crudeli trattamenti o per debilitazione fisica. Venivano seppelliti dietro la vecchia cappella. “Di notte, gli sciacalli e i cani randagi li disseppellivano e portavano le loro ossa qua e là… di notte, i bambini andavano nella foresta vicina per raccogliere mele o qualunque frutta riuscissero a trovare – e i loro piedi colpivano le ossa. Le portavano con sé nelle loro stanze e le spezzettavano per fare la zuppa o mescolarle al grano in modo da poterle mangiare perché non c’era abbastanza cibo nell’orfanotrofio. Stavano mangiando le ossa dei loro amici morti.”

Attingendo agli archivi dell’istituto, Emile Joppin, il prete a capo dell’istituto lazzarista Antoura, scrisse sul giornale della scuola nel 1947 che “gli orfani armeni venivano islamizzati, circoncisi e ribattezzati con nomi arabi o turchi. I loro nuovi nomi mantenevano sempre le iniziali dei veri nomi con cui erano stati battezzati. Così a Haroutiun Nadjarian fu dato il nome Hamed Nazih, Boghos Merdanian diventò Bekir Mohamed, a Sarkis Safarian fu dato il nome Safouad Sulieman.”

L’ingegnere elettrico armeno-americano di origini libanesi Missak Kelechian si occupa per hobby di storia armena e ha dato la caccia ad una relazione del 1918 molto rara e stampata privatamente da un ufficiale della Croce Rossa Americana, il Maggiore Stephen Trowbridge, che giunse all’istituto Antoura dopo la sua liberazione da parte delle truppe britanniche e francesi e che parlò con gli orfani sopravvissuti. Il suo resoconto, cronologicamente precedente, conferma completamente la ricerca di Padre Joppin del 1949.

“Ogni traccia, e per quanto possibile ogni memoria, dell’origine armena o curda dei bambini era stata abolita. Erano stati assegnati nomi turchi e i bambini erano costretti a subire i riti prescritti dalla tradizione e dalla legge islamica… Non una parola di armeno o curdo era consentita. Gli insegnanti e i responsabili venivano istruiti con cura per inculcare idee e abitudini turche nelle vite dei bambini e catechizzarli [sic] regolarmente… sul prestigio della razza turca.”

Halide Adivar, che più tardi sarebbe stata lodata dal New York Times come la “Giovanna d’Arco Turca” – una definizione che gli armeni ovviamente contestano – era nata a Costantinopoli nel 1884 e aveva frequentato un istituto americano nella capitale ottomana. Si sposò due volte e scrisse nove romanzi – persino Trowbridge ebbe ad ammettere che era “una donna di rimarchevole abilità letteraria” – e servì come ufficiale donna nell’esercito di liberazione turco di Mustafa Ataturk dopo la Prima Guerra Mondiale. Più tardi visse sia in Inghilterra che in Francia.

È stato ancora Kelechian a trovare le memorie egoistiche e a lungo dimenticate di Adivar, pubblicate a New York nel 1926, nelle quali ricorda che Jemal Pasha, a capo della Quarta Armata turca a Damasco, visitò l’orfanotrofio con lei. “Io dissi: ‘Sei stato con gli armeni tanto buono come lo si può essere in questi giorni difficili. Perché permetti ai bambini armeni di essere chiamati con nomi musulmani? Sembra di voler trasformare gli amerni in musulmani e la storia un giorno si vendicherà sulla futura generazione di turchi.’ ‘Sei un’idealista’ mi rispose con gravità ‘e come tutti gli idealisti sei priva del senso della realtà… Questo è un orfanotrofio musulmano e sono ammessi solo orfani musulmani.’ Secondo Adivar, Jemal Pasha disse che “non poteva sopportare di vederli morire sulle strade” e promise che sarebbero tornati “dalla loro gente” dopo la guerra.

Adivar riferisce di aver detto al generale: “Non avrò mai niente a che fare con un simile orfanotrofio” ma afferma che Jemal Pasha rispose: “Lo farai se li vedrai in miseria e sofferenti, andrai da loro e non penserai neanche per un istante ai loro nomi e alla loro religione.” Che è esattamente ciò che ha fatto.

Più tardi durante la guerra, tuttavia, Adivar parlò con Talaat Pasha, l’artefice del primo olocausto del ventesimo secolo, e ricordò che lui perdeva quasi la propria tempra discutendo delle “deportazioni” armene (così le definisce), dicendo: “Guarda qui, Halide… Io ho un cuore buono come il tuo, e mi tiene sveglio la notte pensare alle umane sofferenze. Ma si tratta di una cosa personale, e io sono su questa terra per occuparmi del mio popolo e non dei miei sentimenti… durante la guerra nei Balcani [1912] sono stati massacrati turchi e musulmani in ugual numero, fino ad ora il mondo ha mantenuto un silenzio criminale. Sono convinto che finché una nazione fa del suo meglio per curare i propri interessi, e ha successo, il mondo l’ammira e pensa che sia morale. Sono pronto a morire per quello che ho fatto, e so che morirò per questo.”

La sofferenza di cui parlava Talaat Pasha in maniera così terribile fu fin troppo evidente anche a Trowbridge quando incontrò di persona gli organi di Antoura. Molti di loro avevano visto i propri genitori assassinati e le proprie sorelle stuprate. Levon, che veniva da Malgara, era stato condotto via dalla sua casa con le sue sorelle di 12 e 14 anni. Le ragazze era state prese dai curdi – alleati dei turchi – come “concubine” e il ragazzo era stato torturato e ridotto alla fame, racconta Trowbridge. Alla fine fu costretto da chi l’aveva catturato ad andare all’orfanotrofio di Antoura.

Takhouhi, di dieci anni da Rodosto sul Mar di Marmara – il suo nome in armeno significa “regina” e proveniva da un ambiente ricco – era stata messa su un treno merci per Konia con la sua famiglia. Entrambi i suoi fratelli morirono sul vagone, entrambi i suoi genitori presero il tifo – morirono tra le braccia di Takhouhi e di suo fratello maggiore ad Aleppo – e lei gli fu infine strappata da un ufficiale turco che la chiamò con il nome musulmano Muzzeyyan e finì all’orfanotrofio di Antoura. Quando Trowbridge suggerì che avrebbe cercato di trovare qualcuno a Rodosto e restituirle le proprietà di famiglia, lei replicò: “Non voglio nessuna di quelle cose se non posso ritrovare mio fratello.” Suo fratello, si scoprì più tardi, era morto a Damasco.

Trowbridge raccoglie molte altre tragedie dai bambini trovati ad Antoura, notando causticamente che Halide “e Djemal Pasha amavano farsi fotografare sui gradini dell’orfanotrofio… posando come leader del modernismo ottomano. Si rendevano conto di quello che il mondo esterno avrebbe pensato di quelle fotografie?” Secondo il resoconto di Trowbridge, solo 669 bambini sopravvissero, 456 armeni, 184 curdi e 29 siriani. Talaat Pasha in effetti morì per i propri peccati. Fu assassinato da un armeno a Berlino nel 1922 – il suo corpo fu restituito più tardi alla Turchia su espresso ordine di Adolf Hitler. Jemal Pasha fu assassinato nel paese turco di Tiflis. Halide Edip Adivar visse in Inghilterra fino al 1939, quando tornò in Turchia, divenne insegnante di letteratura inglese, fu eletta nel parlamento turco e morì nel 1964 all’età di 80 anni.

Fu solo nel 1993 che le ossa dei bambini furono trovate, quando i Padri Lazzaristi scavarono le fondamenta per costruire nuove classi. Ciò che rimaneva dei resti fu trasferito rispettosamente nel piccolo cimitero in cui vengono seppelliti i preti dell’istituto e messi in un’unica, profonda fossa. Kelechian mi ha aiutato a guardare oltre un muro di due metri questo luogo di tristezza, ombreggiato da alti alberi. Né una targa né una lapide segnano questa fossa comune.

Note: Tradotto da Sara Mostaccio per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
Tradotto da Sara Mostaccio per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Tradotto da Sara Mostaccio per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.

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