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Il mercato degli uiguri: come il fantasma dell’insicurezza condiziona la politica della Cina

Il governo cinese alimenta un programma di rieducazione forzata delle popolazioni uigure dello Xinjiang. La paura irrazionale per l’insicurezza non condiziona sola la vita degli uiguri ma mina alle fondamenta la stabilità dell’intera repubblica popolare.
10 marzo 2020
Luca Schepisi

uyghurs 4 sale

In una recente inchiesta l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) ha risollevato la questione della ”rieducazione” del popolo uiguro.

Gli uiguri sono uno gruppo di lingua turca originario della odierna Mongolia, diffusi prevalentemente nella provincia di Xinjiang, nel lontano ovest della Cina. L’ASPI stima che negli ultimi dieci anni, tra uiguri e membri di altre minoranze musulmane turche e kazache, la rete degli laojiao abbia assorbito circa un milione di persone (solo nell’anno 2018-2019, il governo cinese ha trasferito oltre 80.000 uiguri). Secondo le fonti ufficiali, alla base dei continui trasferimenti ci sarebbe la necessità di soddisfare il fabbisogno lavorativo della regione e quella di modellare lo spirito del neo-lavoratore, emancipandolo da una condizione di miseria economica sociale ed intellettuale.

Con l'intento di porre un freno al terrorismo al-qaedista e al fanatismo religioso, intere partite di persone sono letteralmente sradicate dalle loro case. Da quanto emerso dagli stessi documenti governativi, dalle scarse testimonianze dei lavoratori-educandi e dei loro parenti, questi trasferimenti sono tutt’altro che volontari. Mirerebbero, anche con una certa dose di consapevolezza, a cancellare l’identità culturale e religiosa dell’intero popolo uiguro (il termine utilizzato dall’ ASPI è ”genocidio culturale”). Gli uiguri sono costretti a vivere in completa austerità e a rinnegare la propria fede religiosa e le proprie tradizioni, oltre che la lingua. In alcuni casi, l’ASPI è riuscita a provare che gli uiguri sono stati trasferiti direttamente dai campi di internamento alle fabbriche (il Washington Post ha constatato che, secondo il conteggio del partito, decine di migliaia di individui sono stati inviati alle province del Guangdong e del Fujian nel sud e nello Zhejiang, nell'Anhui e nello Shandong nell'est, a oltre 4500 km dallo Xinjiang).

Come spesso ribadito dai quadri di partito presenti sul territorio della regione, il cittadino uiguro, chi partecipa ”spontaneamente” al programma di rieducazione, ne uscirebbe riformato come un perfetto cittadino cinese (Han, presumibilmente). Un processo che, senza troppa difficoltà, si potrebbe definire di sinizzazione.

Xinjiang

Di per sé il dato non farebbe troppo scalpore se non fosse che negli ultimi anni, invece di diminuire a seguito delle pressioni internazionali, i trasferimenti dallo Xinjiang ad altre parti della Cina sono aumentati costantemente, anche attraverso deportazioni di massa per mezzo di veri e propri convogli. Sono le stesse autorità dello Xinjiang a dichiarare di aver ripetutamente superato i loro obiettivi di trasferimento del lavoro.

L’Aspi ha identificato 27 fabbriche in 9 province, riportando 3 casi studio. Sebbene le aziende non abbiano smentito di aver fatto uso di manodopera uigura, le autorità cinesi hanno negato ogni uso a fini commerciali della forza lavoro proveniente dallo Xinjiang. Tutte le imprese dichiarano inoltre pubblicamente di far parte della catena di approvvigionamento di 83 note multinazionali, molte delle quali hanno ammesso di ignorare completamente i retroscena dei loro fornitori.

Da quanto emerso dai documenti governativi, l’indottrinamento politico e la colpevolizzazione religiosa sarebbero una parte essenziale anche delle mansioni lavorative. Sia le immagini satellitari delle fabbriche, sia le scarse interviste rilasciate dai dipendenti, lasciano intendere che nei campi di rieducazione si perpetuino violazioni dei diritti dei lavoratori sanciti dalla stessa Costituzione cinese, che vieta la discriminazione basata sull'etnia o sul credo religioso.

Tra le prevaricazioni più importanti, riscontrate ai sensi della Convenzione sul lavoro forzato (ILO) del 1930, vi sono l’atteggiamento intimidatorio, implicitamente o esplicitamente correlato alla costante sorveglianza dei propri cari rimasti nello Xinjiang, l’indottrinamento politico, l’isolamento coatto, gli orari di lavoro e la generale condizione di vulnerabilità alla quale il lavoratore sarebbe costantemente sottoposto.

Hao Yuanpeng Clothing Co. Ltd

Le “fabbriche uigure” sono strutturate come dei campi di lavoro. Gli edifici sono spesso muniti inferriate e circondati da recinzioni coronate da filo spinato e da torri di avvistamento. Gli ingressi sono mediati da checkpoints con personale addetto al controllo.

Per stessa ammissione del partito, la permanenza all’interno della struttura consentirebbe di rompere i legami famigliari. Le donne, quasi tutte meno che ventenni, possono andare in giro nei dintorni della fabbrica ma non possono tornare nello Xinjang.

Un contributo importante sulla vita all’interno dei laojiao è stato dato nel novembre del 2018 da Bitter Winter, una ONG che si occupa della libertà religiosa e diritti umani in Cina. Un video pubblico fornisce informazioni dettagliate sui regolamenti interni del campo di Yingye’er. Tali norme comprendono disposizioni estremamente restrittive relative ai contatti tra gli ”studenti” e le loro famiglie. L’articolo 1 del regolamento stabilisce che ”l’anti-estremismo deve fare parte del contenuto delle conversazioni a quattr’occhi” e sottolinea che, attraverso queste conversazioni, ”lo staff deve poter acquisire una comprensione multiforme delle dinamiche ideologiche degli studenti, sforzandosi di scoprire informazioni e indizi di intelligence che evidenzino l’emergere di certe tendenze”. A seguito di un’intervista, un dipendente di un altro campo avrebbe dichiarato che ogni studente è valutato in base a quattro livelli di supervisione (indulgente, ordinaria, rigida e forzata) ed è sottoposto regolarmente a controlli per accertare che abbia effettivamente firmato una dichiarazione di pentimento”.

La portata globale del fenomeno non è da sottovalutate. Come racconta la stessa ASPI, oltre ad essere stati rivestiti di una chiara intenzionalità politica, i cosiddetti ”Xinjiang Aid” (è questo il nome dell’iniziativa promossa dal partito) sono stati propagandati a tal punto da generare una vera e propria bio-economia basata sullo sfruttamento. Prova ne è un rapporto di lavoro del governo locale del 2019, che l’ASPI si è premurata di riportare, in cui si legge che "Per ogni gruppo [di lavoratori] che viene formato, verrà organizzato un lotto di lavoro e un lotto verrà trasferito”.

Negli ultimi anni, le pubblicità per il lavoro uiguro sponsorizzato dal governo hanno iniziato ad apparire addirittura on-line. Su alcuni siti la forza lavoro proveniente dai campi di rieducazione dello Xinjiang è venduta come un qualunque bene di consumo, con tanto di vignetta rappresentativa in abiti tradizionali. Il lavoratore uiguro è descritto come "qualificato, sicuro e affidabile" ed in grado di resistere alle difficoltà grazie alla sua educazione semi-militare . In una seconda promozione, pubblicata sempre dall’ASPI, si dà la possibilità ai dirigenti di richiedere che la polizia dello Xinjiang possa presidiare la fabbrica 24 ore al giorno e che i lavoratori siano consegnati (insieme a un cuoco uiguro) entro 15 giorni dalla firma di un contratto di un anno. Ordine minimo 100 lavoratori!, si avvisa.

pubblicità uiguri on-line

Come dichiarato dalla stessa ANPI, i contratti di lavoro che prevedono la ricollocazione di intere partite di lavoratori non sono nuovi in Cina. Sin dall’inizio degli anni 2000 il governo ha costantemente incoraggiato le province e le città costiere più ricche a sostenere politiche proattive nei confronti di quelle più povere, come lo Xinjiang e il Tibet. Tuttavia da circa dieci anni qualcosa è cambiato.

Durante la riunione del Politburo del 19 Dicembre 2013, quattro anni dopo la rivolta di Ürümqi, il terrore per un collasso del sistema governativo, amplificato e già cronico per il recente attacco al cuore del partito dell’ottobre 2013, ha sancito il definitivo abbandono di un approccio più moderato, dichiarato al tempo fallimentare.

Lo studioso e ricercatore James Leibol, coautore del documento, sostiene che il fulcro delle politiche etniche di seconda generazione risieda nella paura del fantasma del collasso sovietico e jugoslavo, caricata ulteriormente dai più recenti fatti avvenuti in Siria e in Libia. Questi ”due spettri”, generalizzati tra le alte cariche del partito, sarebbero alla base della attuale paranoica ossessione per il Weiden (il mantenimento della stabilità) delle zone calde del paese, in particolar modo Xinjiang e Tibet.

Il risultato di questa ”pandemia di terrore” è stato l’emergere di una strategia per sradicare quelli che Hu Lianhe (Hu l’unitore, attuale vicedirettore del segretariato per il Coordinamento delle attività nel Xinjiang), aveva definito i tre mali: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Da un punto di vista amministrativo, ciò avrebbe determinato l’accentramento del potere strategico nelle mani dei capi di partito e, al contempo, la maggiore autonomia dei governi locali nel perorare politiche di dissuasione nei confronti di qualunque manifestazione considerata, anche solo lontanamente, non in linea con l’ideale nazionale di unità del popolo cinese.

dipendenti della Taiguang Company durante la Giornata Nazionale

La difesa dello status quo con l’arma della propaganda nasconderebbe insidie ben peggiori per la Repubblica Popolare cinese. Ricordando quanto riportato da un recente articolo del China Leadership Monitor, ”criminalizzando la diversità e istituzionalizzando il Weiwen nella società dello Xinjiang, il partito comunista ha creato un falso senso di sicurezza”.

Secondo Leibol, il dilagare della diffidenza nei confronti delle minoranze culturali, in particolare tibetane e uigure, avrebbe come contropartita il crescere del senso di insicurezza e della mancanza di fiducia verso le istituzioni. La diffidenza generalizzata e il senso di frustrazione derivato dall’utopistica pretesa di poter controllare tutto e tutti, avrebbe portato a mettere in discussione la fedeltà dei quadri nel territorio, accusati di doppiogiochismo. Fatto ancor più rilevante, lo stesso ”morbo” avrebbe poi contagiato anche esponenti di partito, scavalcando quindi i confini etnici. ”I nemici interni dalla doppia faccia avrebbero dovuto essere estirpati ed eliminati”.

Sorprendentemente a conclusioni analoghe è giunto il supervisore di dottorato di Xi Jinping, il professor Sun Liping dell'Università di Qinghua. Secondo il professor Sun, il clima di paura generato dal costante senso di allerta avrebbe creato il ”fantasma dell’instabilità”. In un contesto così esasperato e paranoico, la semplice percezione dell’instabilità genererebbe il bisogno instancabile della sorveglianza alla base della Weiwen. L’angoscia malcelata e il senso di alienazione minerebbero nel profondo i presupposti indispensabili per la coesione sociale di tutta la società cinese generando "la necrosi delle cellule che costituiscono il corpo di una società".

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