L’AGONIA DEL DARFUR
Alcune considerazioni di Carla Bellani di Pax Christi Italia
Non si può non andare a prendere l’acqua. Né si può evitare di uscire dal campo degli sfollati per raccogliere la legna per cucinare. Altrimenti non si mangia e non si vive. Ma allontanarsi fa paura, alle donne del Darfur.
Perché troppo spesso accade che lungo la strada vengano stuprate.
È l’ultima, terribile evoluzione del dramma vissuto nella regione occidentale del Sudan, dove da due anni prosegue un sanguinoso conflitto civile che oppone due gruppi ribelli, l’Sla (Esercito sudanese di liberazione) e il Jem (Movimento giustizia ed equità), al Governo di Khartoum e, soprattutto, alle bande che spesso ne sono state la longa manus, ossia i janjaweed, i cavalieri del deserto, che in tutto questo periodo hanno messo a ferro e fuoco l’area.
Su un totale di circa 6 milioni di abitanti, il conflitto ha fatto 180.000 vittime, secondo le ultime stime delle Nazioni unite, e creato 1.800.000 sfollati, dei quali 200.000 sono usciti dai confini del Sudan per rifugiarsi in Ciad. Una delle più gravi crisi umanitarie in corso.
«La violenza sessuale è usata sistematicamente come un’arma da guerra», dice Stefano Savi, direttore generale di Medici senza frontiere dell’Italia, presente nella regione in modo massiccio, con 180 espatriati e 3.000 operatori locali. Msf ha pubblicato un rapporto secondo cui, in meno di sei mesi, 500 donne si sono rivolte ai 25 presìdi sanitari gestiti dall’ong per farsi curare dalle conseguenze delle violenze carnali, spesso perpetrate in gruppo. Nell’81 per cento dei casi i violentatori erano persone in uniforme. «Il fenomeno», aggiunge Savi, «è molto più esteso, perché non tutte le vittime di violenza si rivolgono ai medici. Se poi restano incinte, queste donne spesso subiscono una seconda terribile umiliazione: vengono messe in prigione per "gravidanza illegale". Dobbiamo fare di più per fermare questo crimine».
Un popolo di sfollati
Orrore che si aggiunge a orrore. Negli ultimi due anni il Darfur, esteso quanto la Francia, è stato raso al suolo. Saccheggi e razzie si sono sempre conclusi con l’incendio e la distruzione dei villaggi. Gli abitanti del Darfur sono ridotti a un popolo di sfollati. «Gli scontri continuano. Anzi nelle ultime settimane l’insicurezza si è aggravata», spiega Giovanni Sartor della Caritas italiana, che coordina gli interventi d’emergenza da Nairobi. «Esercito e ribelli sono in movimento. Cambiano rapidamente i teatri degli scontri e siamo costretti talvolta a evacuare in poche ore gli sfollati e a trasferirli altrove. Questo comporta ulteriori difficoltà nel far arrivare aiuti sufficienti e con continuità».
L’aggravarsi della situazione è evidente dai dati del Programma alimentare mondiale: negli ultimi due mesi i destinatari degli aiuti del Pam sono cresciuti del 34 per cento, ora vengono distribuiti a 1.600.000 persone.
Se il Pam pensa al cibo, la Caritas internazionale si occupa delle altre minime necessità: teli per le capanne, strumenti per cucinare, l’acqua, l’assistenza sanitaria, le latrine (fondamentali per evitare epidemie). Ma anche l’alfabetizzazione: insieme alla diocesi di El Obeid, la Caritas sta predisponendo un progetto scolastico per 3.000 ragazzi. E tuttavia il culmine della crisi del Darfur non è affatto raggiunto, purtroppo: le stime dell’Onu indicano che entro l’anno i profughi potrebbero arrivare a 3 milioni, metà della popolazione.
«L’emergenza è sempre più grave», conferma Barbara Contini, inviata speciale del Governo italiano nel Darfur. «I campi per gli sfollati straripano, e questa gente deve affrontare una stagione senza raccolto, perché la guerra ha impedito la semina». Perciò anche la Cooperazione italiana sta moltiplicando gli sforzi, seppure con magre risorse: «I fondi italiani per il Sudan sono di 10 milioni di euro, di cui 7 destinati al Pam, Unicef e Oms e uno alla zona di Cassala, vicino al confine con l’Eritrea. Per il Darfur, quindi, devo gestire i rimanenti due milioni. Perciò abbiamo ritenuto di cercare anche fondi privati, con l’appello "Sos Darfur" lanciato al Festival di Sanremo. Le necessità sono enormi rispetto alle risorse disponibili».
Fare pressione sul Governo
La Cooperazione italiana sta portando avanti 15 progetti di emergenza: 10 "bilaterali", cioè con il Governo sudanese, e 5 affidati a Ong italiane: Alisei, Cesvi, Coopi, Cosv e Intersos. Si tratta di interventi su tutte le principali emergenze: sanitaria, idrica, alimentare, e di assistenza ai campi per sfollati. Non solo. Sta portando avanti anche un progetto agricolo insieme a una missione comboniana e uno di formazione per le donne sostenendo le Missionarie della carità.
«La priorità? Riportare la gente nei propri villaggi», conclude Barbara Contini.
«Non è sostenibile a lungo una situazione nella quale tanta parte della popolazione vive nella precarietà assoluta. Occorre che la comunità internazionale prema sul Governo sudanese perché sia garantita la sicurezza. Solo così si può pensare d’iniziare la ricostruzione dei villaggi e il reinsediamento dei civili nei luoghi d’origine. Anche perché l’aiuto agli sfollati crea squilibri pericolosi: chi è rimasto nella propria casa è comunque ridotto alla fame e ha altrettanto bisogno d’aiuto. Per questo cerchiamo di sostenere anche la popolazione che non è dovuta fuggire».
Insomma, sfollati ma non solo. E, occorre aggiungere, Darfur ma non solo.
Nei giorni scorsi a Milano il cartello di associazioni che ha lanciato fin dal 1995 la "Campagna Sudan" ha organizzato un forum per fare il punto sulla delicata situazione dell’intero Sudan, il più grande Paese africano. Infatti, se il Darfur è ancora in guerra civile, il Sud Sudan è in pace da appena due mesi: l’accordo tra il Governo e il movimento di liberazione del Sudan meridionale (l’Splm di John Garang) è stato siglato tre mesi fa, dopo 20 anni di guerra civile.
Altre emergenze in vista
«La situazione umanitaria del Sud non è migliore di quella del Darfur», dice Carla Bellani di Pax Christi, una delle fondatrici della "Campagna Sudan". «Tutto il Paese è in ginocchio e vive in bilico tra la speranza che la pace dia frutti e il timore di altri focolai di tensione e rivolta». È di pochi giorni fa la notizia che altre organizzazioni ribelli, nella parte orientale del Paese, hanno dato vita al "Fronte dell’Est". E la gente dei monti Nuba è tutt’altro che soddisfatta.
C’è timore di nuovi conflitti e nuove emergenze. «La pace tra Nord e Sud ha spartito poteri e risorse, specie quelle petrolifere», conclude Carla Bellani. «Ora la sfida che il Sudan deve affrontare è di garantire un’equa distribuzione di risorse a tutte le regioni del Paese. Se i benefìci della pace dovessero andare a vantaggio solo di chi ha firmato l’accordo, i rischi sarebbero enormi. Occorre mettere in pratica gli impegni presi negli accordi: lo sviluppo, la ricostruzione, gli investimenti devono partire per tutti. E al più presto».
che promuovono la Campagna Sudan sono: Acli, Amani, Arci,
Caritas italiana, Comboniani e Comboniane, Mani tese,
Nigrizia e Pax Christi (foto AP).
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