SUDAN: l’azione ecumenica delle Chiese in favore della riconciliazione nazionale dopo la firma della pace … sul modello del SudAfrica di Desmond Tutu
Il tempo difficile della pace e del perdono di Gino Barsella
La pace siglata tra il regime di Khartoum e i gruppi guerriglieri del Sud Sudan ha creato grandi speranze tra le popolazioni cristiane delle regioni meridionali del Paese. Ma resta il problema dell’estrema povertà e di uno sviluppo tutto da inventare..
Domenica. Dalla cattedrale di Rumbek, ricostruita sulle rovine di 21 anni e quattro mesi di guerra, esce una folla multicolore. In mezzo a loro, cordiale e disponibile, il comandante Salva Kiir Mayardit, vicepresidente del Sudan al posto di John Garang (il leader di tante battaglie morto nello schianto di un elicottero il 30 luglio scorso). Quando torna nella cittadina di Rumbek, l’architetto dei negoziati di pace – l’accordo che sigla anche l’autonomia del Sud Sudan è del 9 gennaio di un anno fa – e attuale leader del Splm (il Movimento sudanese di liberazione popolare che, con la sua ala armata, il Spla, ha tenuto in scacco il governo di Khartoum per due decenni) non dimentica la messa domenicale.
«Vicino alla gente», dice Cesare Mazzolari, missionario e vescovo di Rumbek, uno che è rimasto lì per tutto il tempo della guerra, «il nuovo presidente del Sud Sudan è una persona tranquilla. Kiir sa delegare ed è riuscito a tenere uniti i leader del Splm dopo la scomparsa di Garang. È il vero leader in tempo di pace, il più idoneo per il processo di democratizzazione».
Poco più in là, sotto un grande albero, anche la comunità protestante celebra, in un clima festoso di canti e tamburi. «La Chiesa collabora con il Splm», spiega Alapayo Manyang Kuctiel, vescovo episcopaliano di Rumbek, «e vuole condizionare la politica, non farsi condizionare. Dobbiamo portarle la Parola di Dio e insegnarle a dare priorità alle persone». Sono tutti segni che i rapporti tra Stato e Chiese stanno migliorando. Invisa al governo fondamentalista di Khartoum, la comunità cristiana è stata perseguitata per la determinazione a difendere i diritti umani ovunque e comunque. L’uso strumentale della religione da parte del regime, per il controllo del Paese e delle sue risorse, ha reso la guerra col Sud animista e cristiano più lunga e crudele. Ma, per gli stessi motivi, la Chiesa ha avuto difficoltà anche con il Splm.
Seduto all’ombra di un mango nel cortile dell’episcopio – due stanzette e tante crepe –, monsignor Mazzolari è di poche e chiare parole: «Noi vescovi abbiamo sempre cercato di parlare, ma ci è stato negato il forum. Davamo fastidio, Garang non era ancora pronto al dialogo». Adesso, con un Sudan federale – Nord islamico, Sud aconfessionale e con la possibilità, dopo sei anni di transizione, di autodeterminarsi – e una giusta condivisione del petrolio e del potere politico, anche le libertà, a partire da quella religiosa, dovrebbero avere libera cittadinanza. «Certo», sottolinea il vescovo. «Ma dobbiamo vigilare. Esiste il pericolo di un’infiltrazione subdola dell’islam, con fondi stranieri e progetti di sviluppo gestiti da ong islamiche non registrate regolarmente».
Il tratto distintivo della Chiesa, in tempo di guerra, è stata la costante e puntigliosa ricerca della pace, senza fare sconti a nessuno e rimanendo a fianco della gente che, più di tutti, soffriva. Una ricerca andata oltre il negoziato formale per preparare il terreno alla giovane pianta della pace. Fino a sei mesi fa, quando con la morte di Garang sono riaffiorati i sospetti di trucchi e tradimenti che in cinquant’anni di indipendenza (1° gennaio 1956) non hanno mai permesso alla pace di durare. Tre giorni di violenza – 130 vittime e oltre 4 mila arresti – hanno fatto tremare una pace troppo fresca. E la Chiesa, col cardinale Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum, ha avuto un ruolo cruciale nel riportare la calma.
«La comunità cristiana è stata fondamentale per la pace», mi aveva detto due giorni prima in Kenya Lisa Henry, protestante danese membro del Forum ecumenico sudanese. «I processi di riconciliazione realizzati tra le varie etnie, ferite e divise dalla guerra, hanno convinto i leader del Splm; la gente ha fatto capire di essere stanca delle bombe. È stato un cammino di riconciliazione incredibile, col Sudafrica come modello».
Le Chiese operano in un contesto ecumenico. E adesso, quando la gente ha bisogno di servizi e infrastrutture, c’è bisogno di azione. «La gente è frustrata», affermava, sempre a Nairobi, Michael Ouku, manager dei progetti di sviluppo per la pace Ceas (Aiuti ecumenici del Consiglio delle Chiese). «Dobbiamo risollevarla dal punto di vista sociale, economico e ambientale, ed è impossibile in un contesto violento. I nostri progetti aiutano a costruire una convivenza possibile: pozzi, scuole, dispensari, promozione delle donne, monitoraggio sui diritti umani, conferenze per la riconciliazione di gruppi etnici... sono le etnie stesse che si rivolgono a noi».
Per vedere tutto questo sono state sufficienti due ore di volo da Nairobi, dove alcune attività ecclesiali hanno ancora il quartier generale, alla volta della polverosa pista di atterraggio di Rumbek. Per arrivare poi ad Amendual, serve un’ora di buche stradali tra Rumbek e la provincia di Cueibet. Ci accompagna Andrea Minalla, coordinatore locale dei progetti Ceas: «Non c’è pace senza servizi. Qui la scarsità delle risorse porta al conflitto: l’acqua, in un’area dove vive una società pastorale, è necessaria per gli animali ed è un bene scarso. Qui vivono due diversi clan denka. I servizi sono richiesti dalla gente che partecipa alla loro strutturazione; qui scaviamo pozzi e portiamo la sanità. È ciò che dovrà succedere in tutto il Sud Sudan; provvedere alle necessità essenziali per la riabilitazione e il ritorno della gente: acqua, sanità, educazione. E qui, adesso, la gente torna».
Con un colpo di clacson un grosso fuoristrada si ferma; due uomini armati fanno scendere John Lato, il commissario di Cueibet. Ha visto il capannello di persone e ne ha approfittato. Si apparta con Minalla e due leader della comunità; con ampi gesti discutono del futuro villaggio che crescerà attorno al progetto. Ma, tutto questo sforzo, potrà bastare? Ci sono quattro milioni e mezzo di profughi che dovranno tornare. «Questo è un elemento di supporto essenziale alla pace», ribadisce Minalla. «Ma abbiamo bisogno di molto più aiuto: una pompa per 700 persone è niente, e questa clinica non basta per 300 mila persone. La comunità è stata devastata – mancano i servizi da 21 anni – e dobbiamo aiutarla a stare in piedi da sola».
Mi faccio altre due ore di strada in mezzo al Sudd, la terra dei pastori denka che hanno avuto un ruolo cruciale nella ribellione a Khartoum. Il Sudd abbraccia buona parte del bacino del Nilo, e l’acqua è l’altra grande risorsa, con il petrolio, al cuore del conflitto sudanese. In un’alternanza di mandrie al pascolo vicino ai rigagnoli in secca per la stagione asciutta e di foreste assetate che nascondono, qua e là, i resti quasi fumanti di battaglie mortali, arrivo a Mapuordit. Qui c’è una missione comboniana attenta, e fin dai giorni duri della guerra, alla necessità di progetti di sussistenza esviluppo. «Persistono i conflitti tribali», mi spiega il parroco Giovanni Girardi. «Per questo bisogna continuare con i servizi essenziali, come la scuola e l’ospedale. Ma dobbiamo anche rafforzare l’evangelizzazione, dal catecumenato alla formazione di operatori di pace. E recuperare, e questo è il difficile, il senso del perdono per risolvere in via definitiva i conflitti».
Molti dei sudsudanesi si trovano ancora in campi per rifugiati come quello di Kakuma, in Kenya, dove le Chiese ne assistono 70 mila che verranno rimpatriati man mano che i villaggi di origine avranno i servizi essenziali. Lo stesso avviene a Khartoum che ospita, in periferia, la maggioranza dei quattro milioni di sfollati interni. Il ritorno di massa in condizioni di disparità di trattamento tra chi rientra e chi era rimasto, o addirittura in assenza delle condizioni per la sopravvivenza, causerebbe nuovi conflitti e violenze. Se aggiungiamo la difficoltà di rendere giustizia a chi è stato scacciato dalle proprie terre e di guarire le ferite lasciate da incomprensioni e sopraffazioni, comprendiamo l’immane compito che attende chi vuole impegnarsi per la pace.
Le Chiese e il nuovo governo di unità nazionale non hanno i mezzi per tutto questo: la guerra ha succhiato troppo sangue. Un ruolo fondamentale, stabilito nell’accordo di pace, lo ha quindi la comunità internazionale, che si è impegnata a monitorare il rispetto degli accordi e a finanziare la ricostruzione e il rimpatrio dei profughi. Questo lavoro cruciale per la pace deve essere fatto con impegno e trasparenza, nell’interesse vero della gente. Cosa non scontata, come ammonisce Andrea Osman, parroco di Rumbek: «Durante la guerra qui c’eravamo solo noi. Veniva inviato il cibo, e noi avevamo la non facile responsabilità della distribuzione. Ora arrivano tutti... e stanno bene, basta vedere il campus delle organizzazioni internazionali; ma i poveri sono ancora in periferia. Vanno aiutati nella maniera giusta, perché possano tornare ai loro villaggi».
Comunque, il contributo più importante delle Chiese riguarda le coscienze, la riconciliazione è parte della loro eredità. «I cristiani», affermano i vescovi cattolici in una recente lettera pastorale, «devono offrire il perdono e promuovere un processo di riconciliazione basato sulla giustizia, sul risarcimento per il male e il danno subito. Ma è compito dell’autorità istituzionale creare le condizioni perché ciò avvenga, dando priorità ai più vulnerabili e marginalizzati. Inoltre, le parti che erano in conflitto devono impegnarsi a non violare più i diritti e i doveri dell’altro e a cooperare assieme per un futuro migliore».
Insieme alla società civile, le Chiese si stanno facendo intermediarie e interpreti dei contenuti dell’accordo di pace presso la gente comune, pronte a smascherare le violazioni dei diritti umani e a prevenire ciò che può mettere a rischio la tenuta della pace. A cominciare da nuovi e insidiosi venti di guerra che, mentre la pace al Sud cresce, dal 2003 soffiano nell’Ovest del Paese, il Darfur. Un conflitto militare, di proporzioni minori ma con cause simili alla guerra nel Sud, «che causa sofferenze indicibili e minaccia la pace. Perciò il governo», concludono i vescovi, «risolva al più presto questo conflitto, prima che possa destabilizzare nuovamente tutto il Paese».
Gino Barsella
Sociale.network