Trasformare il mondo di Gianni Genre

Si è svolta in Brasile, a Porto Alegre dal 14 al 23 febbraio 2006, la IX Assemblea del CEC

Quattromila delegati da ogni parte del mondo hanno affrontato i problemi legati ad una testimonianza cristiana autentica a partire dalla giustizia tra i popoli

Trasformazione. E’ questa la parola d’ordine con la quale sono state convocate, a Porto Alegre dal 14 al 23 febbraio, più di quattromila persone, da ogni parte del mondo, rappresentanti delle 348 chiese membro: protestanti, ortodosse, anglicane e di altre chiese (a cominciare da quella cattolica romana) che, a diverso titolo, sono oggi interlocutori, collaboratori, osservatori di questa realtà straordinaria che è il Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Ascoltiamo gli interventi degli invitati delle altre fedi viventi che condividono con noi queste giornate intense di riflessione, di confronto, di comunione, di ascolto reciproco, nella convinzione che la promessa di Dio sul dialogo interreligioso non viene meno e rappresenta oggi l’unico cammino che può garantire un avvenire all’umanità.
Tutti sono consapevoli della fatica che questo dialogo a volte comporta, molti dei quattromila cristiani che sono riusciti a raggiungere il Brasile per questo immenso happening della fede cristiana vivono in contesti estremamente difficili, eppure nessuno ha perso la viva speranza che Dio, secondo il programma articolato di questa assemblea, possa trasformare il mondo, la terra, le chiese, le nostre vite e la nostra testimonianza.

Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury e primate delle Chiese Anglicane introduce l’argomento ricordando che siamo chiamati, semplicemente, a vivere in modo autentico il nostro impegno nei confronti del Dio di Gesù Cristo, senza spirito di competizione. L’identità cristiana consiste nel comprendere che siamo chiamati a vivere nei mille luoghi in cui Cristo vive oggi, sotto la sua autorità, imparando a “vedere ciò che Gesù vede”. Negli occhi degli altri, di chi sembra lontano da noi, è sempre possibile intravedere un riflesso di ciò che siamo noi stessi.
Una giovane teologa battista di Myanmar, uno dei paesi segnati da una dittatura feroce, parla della vicenda della sua famiglia, salvata da uomini e donne di altre fedi, buddisti e musulmani, con cui lavora oggi a stretto contatto. Persone che non conoscevano il nome di Gesù, ma che Dio è riuscito a raggiungere attraverso un sentiero inedito.
Il rapporto fra identità cristiana e pluralismo religioso attraversa e anima le centinaia di iniziative che vengono offerte a questa assemblea che mi appare come una primizia di quell’umanità riconciliata che l’Evangelo ci promette e ci anticipa. Sembra di partecipare ad una delle grandi liturgie che il libro dell’Apocalisse ci dipinge. In realtà, quella convocata a Porto Alegre è anzitutto una comunità di preghiera, un evento spirituale, dove il ritmo delle giornate e del lavoro è dato dall’ascolto della comune Parola e dall’invocazione a Cristo che assume toni, linguaggi, colori diversissimi, eppure univoci. Il Consiglio Ecumenico delle chiese, è stato detto, è chiamato ad essere non un "global player", un soggetto che gioca sulla scena mondiale, ma un "global prayer", una realtà di preghiera globale.

La seconda questione è quella della giustizia economica. E’ certamente il tema più atteso e quello su cui si concentrano le maggiori ansie e le più grandi speranze. Viene riaffermata la piena convinzione che un mondo senza povertà sia possibile. Il documento relativo al “processo AGAPE” riguardante il nostro atteggiamento rispetto alla globalizzazione, pubblicato e diffuso anche attraverso il nostro settimanale, viene discusso e presentato in mille sedi diverse. Andrà ripreso nei prossimi giorni, anche questo nella consapevolezza che il problema della povertà e del progressivo impoverimento di interi popoli o di fasce sempre più importanti della popolazione, vada mantenuto all’ordine del giorno in tutte le chiese cristiane come questione permanente, che interroga e mette in discussione la credibilità della testimonianza cristiana. Si tratta di articolare una riflessione e di definire azioni concrete a livello planetario, cercando di evitare velleitarismi e ideologismi che rischiano di togliere credibilità alla serietà tragica che riveste questo argomento.
L’intervento del presidente brasiliano Lula non si è limitato ad un generico saluto di benvenuto, ma è entrato nel merito della questione. Dopo aver ricordato la solidarietà attiva che il CEC ha esercitato nei confronti del Brasile negli anni bui della dittatura ed il senso del lavoro del suo governo in questi ultimi tre anni nella realtà drammatica di questo immenso paese, ha chiesto alle chiese rappresentate di mantenere viva la fiamma della solidarietà in un mondo che può e deve sconfiggere la miseria che uccide, a milioni, i nostri contemporanei.
Il terzo tema, attorno al quale si articolano non solo le riflessioni e i dibattiti in plenaria, ma le centinaia di eventi che accompagnano e nutrono l’assemblea, è quello legato al decennio dedicato a "vincere la violenza" (2001-2010). Essendo adesso a metà di questo decennio, si fa un bilancio di ciò che è stato fatto, dando spazio alle testimonianze locali, dove ogni giorno si è posti di fronte al demone delle violenza che sembra a volte inevitabile. Si parla e si prega, ovviamente, pensando al conflitto israeliano e palestinese, ma anche alla violenza diffusa nei confronti di donne e bambini, a cominciare dalle fotografie che riceviamo dalle città brasiliane e da mille situazioni africane ed asiatiche. La sfida che questo argomento rappresenta in mille luoghi, assumendo mille diverse connotazioni, va ogni giorno riaccolta. La cultura della pace non può e non potrà mai essere data per scontata.

Per la prima volta nella sua storia, l’assemblea generale del CEC si svolge sul suolo del continente latino americano. Non è un caso. In queste terre immense, che continuano a ricordare e a soffrire per le cicatrici di un atteggiamento colonizzatore che non si è mai davvero interrotto dopo i genocidi del ‘500 perpetrati nel nome di Cristo, i temi trattati in questi giorni assumono qui una pregnanza del tutto particolare. Paesi ricchissimi dal punto di vista delle risorse naturali, che hanno ospitato milioni di immigrati anche dal nostro Paese, feriti oggi profondamente dalle conseguenze incrociate delle recenti dittature (ignorate, sostenute e a volte benedette dai paesi del cosiddetto "primo mondo"), dal debito pubblico che strangola la ripresa economica, da una corruzione pubblica diffusa e spaventosa.
Ma la scelta del Brasile simboleggia anche il riconoscimento di una situazione religiosa assolutamente straordinaria. Sebbene il cristianesimo sia approdato sulle coste di queste terre da circa 500 anni, e – purtroppo – in maniera violenta (mentre in Vicino Oriente, in Nord Africa e in Europa era o è presente da 2000 anni), l’America Latina è oggi il continente dove si registra la maggior percentuale di cristiani fra la popolazione: il 92,2 per cento contro il 76 per cento dell’Europa e l’83% del Nord America. Ma il dato davvero straordinario è dato dalla cosidetta "rivoluzione pentecostale", che fa sì che il "protestantesimo popolare" (come alcuni lo definiscono) cresca ad una velocità impressionante. Raggiunge ormai il 20 % della popolazione, percentuali anche più alte in alcuni paesi e c’è chi profetizza che anche in Brasile fra cinque-dieci anni la metà della popolazione sarà pentecostale. Il fenomeno è complesso e va studiato con attenzione.
Si tratta, comunque, di comprendere che queste nuove chiese, che affermano la libertà dello Spirito Santo, riescono a parlare e a coinvolgere, a rendere protagonisti anzitutto quei poveri di cui parla Gesù e ad essere sentite come realtà davvero "indigene", rispondenti alla cultura e al sentire dei latino americani di oggi.
Ed il Consiglio Ecumenico delle Chiese sta dando loro giustamente la parola ed il pulpito in questa assemblea.

Qui da Porto Alegre, vogliamo trasmettere a tutti la contagiosa sensazione che un mondo riconciliato sia davvero possibile. E che l’ecumenismo, nonostante tutte le legittime critiche e le perplessità che può suscitare, è davvero - al tempo stesso - un dono ed una vocazione. A cui non possiamo rinunciare, senza rinunciare al nostro tentativo di portare con un minimo di dignità il nome di Cristo.

PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.8.17 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)