n. 3 - 1 marzo 2006
"Pronto, Nandino, ma vi accorgete almeno voi di Pax Christi che non per noi israeliani ma per tutti i palestinesi, si sta andando verso la rovina? La situazione è drammatica. Mentre il mondo continua a pensare che l'Autorità Palestinese sia una nazione con parlamento e governo e non invece un popolo stremato dall'occupazione che dipende in tutto dall'occupante, Israele deve convincersi di essere lui e solo lui il partner per la pace. Solo il dialogo con il governo eletto democraticamente e il sostegno della comunità internazionale ci porteranno alla pace. Noi israeliani lo sappiamo bene che Hamas in realtà non vuole la distruzione di Israele, ma il riconoscimento e la realizzazione dello Stato Palestinese al suo fianco". Riappesa la cornetta del telefono non posso non riportare a tutti voi questo drammatico appello che oggi, 22 febbraio, mi ha lanciato da Gerusalemme il grande giornalista israeliano ZVI SHULDINER.
QUESTO NUMERO di BoccheScucite scorrerà allora attraverso il dramma di queste settimane dando la parola a PADRE RAED ABUSHALIA, un parroco palestinese che sogna e opera tra la sua gente attraverso la quotidiana sperimentazione della nonviolenza attiva. Come sempre GUSH SHALOM, movimento israeliano capace di svelare ciò che i media non dicono, denuncia in una efficace raccolta di poche battute la realtà sul campo. E se per caso leggete il più venduto quotidiano italiano, provate ad analizzare dietro le righe un pezzo di Cremonesi e lasciatevi sfiorare dal dubbio che ciò che leggete sia esattamente una falsità storica. Perché poi la realtà testimoniata da chi c’era, da chi ricorda e soffre ancora, irrompe con tutto il suo carico di struggimento, come ci racconta in una confidenza a cuore aperto il nostro amico Omar.
Buona lettura, allora. Tanto per non dimenticare quel dovere di criticità che ci impedisce di lasciarci cullare da quegli articoli di giornale che dovrebbero provocarci incubi di indignazione.
-------------------------------------------------------------
GIOCHIAMO A FARE LA PACE
Padre Raed Abushalia, parroco di Taybeh
È giunto da tempo il momento che israeliani e palestinesi la smettano di farsi la guerra con le armi, con le parole, con gli accordi non rispettati. È giunto il momento che si alzino da qualsiasi tavolo attorno a cui hanno più volte provato ad accomodarsi e… escano fuori dalle stanze a giocare alla pace, ad esercitarsi alla convivenza, ad escogitare soluzioni ‘arcobalenizzanti’ per vivere insieme e non per soccombere in un unico abbraccio mortale. Questo in sintesi il pensiero di P.Raed Abushalia, che da anni dal suo villaggio di Taybeh, in Terra Santa, inventa instancabilmente strategie di nonviolenza attiva, per vincere insieme agli israeliani la battaglia della pace.
Un esercito di cartone
Molti generali israeliani non vogliono che il popolo palestinese utilizzi la nonviolenza come arma di resistenza: quando i palestinesi compiono un attentato a Tel Aviv, questo diventa un prestesto per continuare nell’escalation di violenza, l’unico linguaggio che conoscono. E rispondono e ammazzano. Si vendicano e colpiscono.
Noi possiamo veramente ridurre l’esercito israeliano ad una scatola di cartone attraverso la nonviolenza. Gli israeliani hanno l’esercito più forte del mondo: un esercito addestrato per andare contro un popolo che non ha mezzi. Ma un esercito i cui capi temono la nonviolenza. Quando il popolo palestinese utilizza la nonviolenza come metodo di resistenza, l’esercito israeliano non può misurarsi con lui. Noi palestinesi abbiamo sbagliato strada: nel ’74 Arafat all’ONU ha detto: “ Vengo con il fucile in una mano e con un ramoscello d’ulivo nell’altra. Non lasciate che il ramoscello cada dalla mia mano!” Ma noi stessi abbiamo usato il fucile ed ecco il risultato: siamo sotto zero. Il popolo palestinese è forte con le pietre più che con le armi, e con il ramoscello d’ulivo più che con le pietre.
In molti dei miei articoli ho proposto ad esempio che cinque milioni di palestinesi prendano cinque milioni di ramoscelli d’ulivo per darli a cinque milioni di israeliani e dire loro: ”possiamo vivere insieme, essere amici e buoni vicini”.
Sei mesi di gesti di pace
Ho proposto ad Arafat, quando due anni fa sono andato da lui insieme alla delegazione di Pax Christi Italia accompagnata da mons. Bettazzi, di diventare il Gandhi palestinese. Aveva la credibilità storica e un’esperienza di quarant’anni per farlo. Gli ho presentato una strategia nonviolenta che sarebbe durata sei mesi. Sei mesi durante i quali tutto il popolo palestinese, vecchi, bambini, giovani, donne e uomini avrebbero messo in atto strategie di nonviolenza attiva nella loro quotidianità. L’opinione pubblica internazionale avrebbe ricevuto un’immagine nuova dei palestinesi: perché il mio non è un popolo terrorista, ma un popolo che chiede di vivere come tutti i popoli del mondo. Allora questa ‘strategia dei sei mesi’ ci avrebbe fatto guadagnare la simpatia del mondo, inclusa quella del popolo israeliano.
La quarta stanza
Se hai una casa di quattro stanze ereditata da secoli dai genitori e prima ancora dai tuoi avi, una casa in cui tu abiti insieme alla tua famiglia da sempre; se io vengo nella tua casa dall’estero e davanti agli occhi del mondo intero occupo tre stanze, come reagisci? Forse gridi, chiedi giustizia, chiami i vicini, corri al Tribunale…
Nel ’48 i nostri amici ebrei sono venuti dall’Europa ed hanno occupato il 78% della Palestina storica. Hanno raso al suolo 383 villaggi, cacciato dalle loro case 800.000 palestinesi che ormai da 60 anni abitano in 66 campi profughi sparpagliati tra Siria, Libano Giordania e la stessa Palestina.
Ora, invece che restituirci quelle tre stanze ci vogliono prendere anche la quarta. Il popolo palestinese non chiede la luna: accettiamo il minimo che un popolo può accettare: vogliamo vivere in pace su quel 22% di terra che un tempo era nostra.
Checkpoint mechanism
La vita quotidiana dei palestinesi è complicata: nei Territori occupati scorre al ritmo delle attese ai checkpoint, che tra fissi e mobili sono 530. Lì non conta la persona, ma il suo documento. Il motto sembra essere ‘Sono palestinese e dunque mi fermo’.
Ma al checkpoint io non dimentico che si incontrano due persone, due creature, anche se per me l’israeliano che ho davanti è un soldato nemico, nascosto dalla divisa. E per lui ogni palestinese è un terrorista. Allora io ho capito che devo ogni volta riconoscere all’altro la sua umanità e indurre lui a riconoscere la mia. E questo posso farlo parlando. Ad esempio un giorno sono arrivato al checkpoint e faceva caldissimo e il soldato era fermo sotto il sole a picco. “Fa molto caldo – ho detto- ma grazie a Dio tu hai un bel cappello grande.” E lui mi ha risposto “Oh beh è l’ultima moda europea!” E abbiamo cominciato a ridere insieme. E lui ha dimenticato di chiedermi per l’ennesima volta i documenti e io ho dimenticato che lui era un soldato. Siamo ritornati uomini.
Un’altra volta ho visto che un soldato era stanchissimo e gli ho detto: ”Mi dispiace che tu stia qui al checkpoint. Preferivo pensarti a Tel Aviv con la tua famiglia.” Ed egli ha ammesso: “Sono in piedi da 14 ore”. Io gli ho dimostrato la mia compassione per la sua difficile situazione… I checkpoint sono il dramma del popolo palestinese, di tutta questa gente che desidera solo condurre una vita normale. Tutto il mondo è ben accolto a Gerusalemme ma io, prete cattolico, non posso andarci perché oltre a questo sono palestinese. E sono nato lì vicino e quella è la mia terra. Mi arrabbio veramente tanto quando ai checkpoint vedo ad esempio un soldato ebreo russo appena giunto su questa terra, che impedisce a me di calpestare liberamente il mio suolo!
Giocate da soli
La soluzione che prevede la spartizione della terra tra i due popoli ormai non va più bene, non è più possibile a causa della complessità delle cose. Il governo israeliano persevera nel convincimento di non avere un partner con cui dialogare e fare pace. Arafat era considerato un terrorista ed Abu Mazen è considerato troppo debole. E allora Israele compie iniziative unilaterali, come quella del ritiro da Gaza. Si sono ritirati da Gaza, ma hanno lascito un milione e mezzo di persone rinchiuse nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, senza porto né aeroporto. E quando alzano la testa li bombardano con gli F16. Ed ora il muro: se fosse sui confini della linea verde, si potrebbe accettare pensando almeno che potrebbe rappresentare la frontiera tra lo stato che c’è già e quello da costituire… Ma non è così. Finiranno per darci il 40% di quel 22% che abbiamo accettato. Neanche la metà della quarta stanza! Finito il muro, ci diranno: “Voi siete lì e noi siamo qui. Giocate da soli e lasciateci in pace”.
Quattro stanze e liberi tutti
Allora io propongo la soluzione alternativa a tutto questo: Facciamo di queste quattro stanze una casa unica. Propongo uno stato unico, democratico, dove possano vivere in pace cristiani, musulmani, ebrei e drusi e tutti gli uomini e le donne che abitano lì. Questo per rispettare la specificità, l’identità e il mistero di questa terra, che per noi tutti è madre. E una madre non si può fare a pezzi per spartirla tra fratelli. La terra santa è un’unità geografica, storica, demografica che non possiamo fare a pezzi. Gli israeliani si oppongono a quest’idea perché vogliono uno stato ebraico e perché temono la bomba demografica palestinese. Ma non possiamo fare altrimenti. Dobbiamo vivere insieme, con Gerusalemme non capitale suddivisa, ma condivisa a livello internazionale. Gerusalemme deve diventare capitale internazionale e spirituale del mondo, perché è patrimonio universale, madre di tutti, come recita il Salmo 87.
--------------------------------------------------------------
CONFINE DI GUERRA
Gush Shalom ad published in Ha'aretz, February 10, 2006
Olmert wants to fix The permanent borders of Israel "Unilaterally",
To annex
Greater Jerusalem,
The Ariel bloc,
The Modi'in Illit bloc,
The Gush Etzion bloc,
The Ma'aleh Adumim bloc,
As well as the Jordan valley
And several "security zones".
Neither the Palestinians
and the Arab world,
Nor the United States and
The family of nations
Will recognize these borders.
This is not a border of peace.
This is a border of war. Olmert vuole fissare una volta per tutte
i confini definitivi di Israele, unilateralmente.
Per annettere
la Grande Gerusalemme,
il blocco di Ariel,
il blocco di Mod’in Illit,
il blocco di Gush Etzion,
il blocco di Ma’aleh Adumim,
così come la Valle del Giordano,
e molte “zone di sicurezza”.
Nessun palestinese
come nessun paese arabo;
Non gli Stati Uniti e certamente
neanche l’insieme di tutte le Nazioni
riconoscerà questi confini.
Questo non è un confine di pace.
Questo è un confine di guerra.
-----------------------------------------------------------
INSOMMA, CHE FARE DI QUESTE MASSE DI ARABI?
(di quando un lettore ingenuo interroga il suo giornale)
LORENZO CREMONESI, il 5 dicembre 2005 sul Corriere della Sera ha presentato l’uscita della nuova edizione del libro di Benny Morris, uno dei cosiddetti "nuovi storici" israeliani che hanno rivisto e ridiscusso le origini dello stato ebraico.
(…) “È un libro ormai famoso sull’esodo palestinese tra il ‘47 e il ‘49. (...) Così, nell'arco di circa un anno e mezzo, più o meno 700mila palestinesi…
Lettore ingenuo di giornale: Dice che erano palestinesi. Più o meno...una pulizia etnica, una catastrofe che distrugge con quasi tutti i suoi villaggi un intero popolo. Boh. Ma più o meno?
…"abbandonavano i territori dove era nato lo stato ebraico".
Lettore ingenuo do giornale: beh se sono stati loro ad “abbandonare” la loro terra! Praticamente, una deportazione per scelta. Mah… perché poi l’hanno chiamata "Nakba"=catastrofe? Non era così, la catastrofe?
"Sorgeva allora la "questione palestinese".
Lettore ingenuo di giornale: Ah ecco com’è. È colpa loro se sono poi diventati per di più una “questione” da risolvere!
"In sostanza, che fare delle masse che avevano lasciato le loro case? È diventato questo un nodo centrale per le vicende che hanno caratterizzato la storia recente del medio oriente".
Lettore ingenuo di giornale: È colpa loro se sono poi diventati per di più una “questione” da risolvere! Mica qualcuno li ha obbligati: hanno lasciato le case disabitate. E che, si fa così? Uno se ne va e pretende che le cose e le case non vengano usate?
"Tanto importante che ha ostacolato tutto l'iter dei negoziati di pace di Oslo e terminati con il fallimento di Camp David tra il 1993 e il 2000".
Lettore ingenuo di giornale: Davvero da condannare questi benedetti palestinesi che hanno “ostacolato” con la loro pretesa di esistenza tutto il processo di pace!
"Ancora oggi vede le due parti impegnate nella ricerca di un compromesso sul "diritto del ritorno" per i profughi (che ora con i loro discendenti superano i 3 milioni) invocato sempre a gran voce dal mondo arabo". (...)
Lettore ingenuo di giornale: fammi capire, giornale! Ora questi pretendono anche di tornare? Dopo essere diventati più o meno cinque volte il più o meno di prima? Ah ecco! Sono gli altri arabi che lo esigono. E dove se li metterebbero poi tutti sti arabi. Sì, già… ricordo che in quel periodo tanti russi andavano laggiù. Un milione, ricordo. Mah… loro potevano… erano ebrei…e c’è una legge… e se la legge lo consentiva… Ehi giornale, ma non c’era una legge anche per questi arabi? Mi spieghi meglio, giornale?
(...)”Nella nuova versione il libro appare addirittura giustificare l'espulsione delle masse palestinesi, sino a suggerire che, se i 160mila arabi rimasti allora all'interno dei confini del nuovo stato fossero stati cacciati, sarebbe stato molto meglio”.
Lettore ingenuo di giornale: appare, appare… che vuoi dire con appare: insomma è o non è… era meglio o non era meglio?
“Oggi Israele non si troverebbe a dover fronteggiare le tensioni sempre presenti con oltre un milione di cittadini arabi, che sono i discendenti di chi rimase. “(...)
Lettore ingenuo di giornale: ah ecco era meglio! Pensa che lavoraccio fronteggiare ste tensioni… e doverli sopportare, controllare, contenere… a questi che sono rimasti… Ehi! Ma come dici ‘cacciati’? Ehi giornale ti sbagli… non avevi detto che gli altri se ne erano andati? Ehi ti sei confuso giornale… perché se anche i primi sono stati cacciati allora… allora è stata una nakba! Che dici? Cos’è sta parola araba? Oddio: forse che l’ho letta su un altro giornale?
----------------------------------------------------------------
Omar S., un caro amico palestinese che vive a Napoli, non ha letto la Nakba su nessun giornale. La sua famiglia l’ha subita ed egli ne riporta nel cuore e sulla pelle le ferite. Che sono fatte di distanze mai più colmate, di odori, suoni e colori mai più raggiunti, di abbracci mai più scambiati. Da trent’anni Omar non calpesta più la sua terra, non rivede più i suoi cari. Ma continua instancabilmente a portarci la Palestina qui. Per il suo compleanno e per i suoi trent’anni di lontananza obbligata ci ha regalato queste parole.
Noi gliene auguriamo solo due: che il mai più diventi per te NON ANCORA, caro amico. NON ANCORA.
Chissà come deve essere buono l’odore
di madre anziana che conserva nella cintura del suo vestito la tua foto
in bianco e nero strappata dal diploma appesa al muro di casa.
Chissà come deve essere caldo l’abbraccio di una madre che sogna di
stringere un figlio che gli manca da un’eternità.
Chissà come deve essere dolce il sorriso di una sorella lasciata bambina che ora non si
ricorda più i tuoi ritratti.
Chissà come saranno bianchi i capelli del tuo compagno di banco di scuola, che non si ricorderà più neanche
come sei fatto.
Chissà se saranno asfaltati , o spianati dai bulldozer
i sentieri che portano alle grotte dove hai fatto i tuoi primi sogni
giocando con i tuoi amici .
E chissà se hanno avuto la fortuna di
sopravvivere gli alberi di ulivo che, bambino, tuo padre ti ha insegnato
a piantare ,annaffiare e curare.
Niente luna da prendere tra le mani, niente di straordinario e impossibile da realizzare: cose normali ,
semplici. Potersi coccolare nell’abbraccio caldo e tenero di una madre
che hai voglia di vedere, godere del sorriso tenero di una sorella che
ti manca .
Poter calpestare la terra dove sei nato e dove hai giocato e
sognato di poter costruire il tuo futuro. Poter andare
a cena da un fratello affettuoso, poter raccogliere e mangiare il
frutto di un albero che ha la tua età che hai piantato quando eri
bambino. Poter ricordare, magari ridendo, i giorni di scuola con i tuoi
compagni di banco..
Ma perché quello che
per la maggior parte degli essere umani è una normalità per noi
palestinesi deve essere un sogno?
Omar S.
Sociale.network