Domande e … proposte - Enrico Peyretti
Domande (Enrico Peyretti, 21 agosto 2006)
Interposizione in Libano: è possibile la nonviolenza contro la guerra?
È molto importante che, in una guerra tra due popoli, o stati, o gruppi, la comunità internazionale decida di intervenire, terza parte pacifica, a separare i contendenti.
Un corpo militare, inviato dall'Onu, a comando italiano (così sarà, a quanto pare oggi), farà interposizione tra Libano e Israele, nel fragile cessate-il-fuoco della recente guerra.
È ragionevole l'ampia soddisfazione e orgoglio dei politici italiani per questo possibile comando, in una impresa con un fine giusto ma mezzi e metodi ben discutibili?
Infatti, i militari sanno fare la guerra. Per questo sono attrezzati e preparati. Ma sanno anche fare cessare la guerra?
Se i belligeranti, violando la tregua, riprenderanno la guerra, cosa farà il corpo di interposizione militare? Farà la guerra dell'Onu (ossimoro assurdo), per far cessare la guerra dei belligeranti?
È possibile, in generale, pacificare i contendenti, disarmare gli armati, impedire i violenti, senza uso di armi e di violenza?
La distinzione, che credo davvero importante, tra polizia ed esercito, tra azione di polizia e guerra, basata sulla differenza di fini, mezzi e metodi, quanto regge, nei casi più difficili, alla critica della realtà?
Non è forse vero che la polizia per ristabilire l'ordine pubblico legale deve essere più armata e numerosa dei delinquenti, pur dovendo usare la forza con un fine non distruttivo (come è invece l'uso della violenza in guerra)?
La possibilità, storicamente verificata, che un popolo consapevole ha di destituire con la democrazia o la noncollaborazione nonviolenta un governo violento, illegittimo, ingiusto, si può verificare anche con la interposizione nonviolenta tra i belligeranti nella guerra moderna (che non è solo guerra tra stati, ma anche guerra "privatizzata")?
Una interposizione tutta civile, disarmata, perciò non minacciosa, che si collochi sul territorio, e che, col porsi come scudo ad entrambi i belligeranti, costituisca un appello alla loro umanità, può essere efficace, quando la guerra tecnologica può scavalcarla e colpire lontano tutto il territorio e la popolazione nemica?
Auspicabili Corpi Civili di Pace (ancora lontani dalla realizzazione istituzionale) molto numerosi e distribuiti su tutto il territorio di entrambi i contendenti, in solidarietà attiva con entrambe le popolazioni, possono essere fattore di riconciliazione e, in quanto potenziali vittime neutrali, efficace dissuasione morale al proseguimento della guerra?
L'interposizione è da intendere solo fisica, sul territorio, che sia militare o civile, oppure, più ancora, politico-diplomatica? Per esempio con pressanti documentate pubbliche proposte di soluzioni di compromesso (1), sempre meno costose e più vantaggiose della guerra sotto ogni aspetto.
La mediazione insistente e concreta, sotto gli occhi delle popolazioni coinvolte e dell'opinione pubblica mondiale, che convochi le parti ad aperte trattative attorno a proposte di soluzione, non sarà ancora più efficace e meno pericolosa della interposizione territoriale (sia militare che civile)?
È possibile che anche in questo caso la guerra continui, o venga ripetuta, perché la decisione di guerra non risulta da un calcolo razionale di convenienza, ma - come mostra l'analisi di Simone Weil, la più profonda (2) - da pure ragioni di "prestigio" (parola che significa "illusione"). La guerra è pura ideologia irreale, imposta da pochi a molti, sofferta più che mai dai popoli nell'era della guerra tecnologica. La liberazione dalla guerra, prima ancora che nella elevazione morale delle civiltà (che ne sarebbe la maggiore garanzia), forse sta nella libertà e capacità delle opinioni pubbliche di calcolare e confrontare i vantaggi della vita con i vantaggi illusori dei potenti e con i profitti concreti dei mercanti di morte, e quindi di imporsi ai poteri politici e militari.
Tocca ai popoli liberarsi dalla guerra. Il maggiore problema non è nei potenti e nei mercanti, ma nei popoli che li subiscono, che ignorano il proprio potere nonviolento, o addirittura si infervorano fanaticamente per le ragioni di quei pochi. Prima vittima della guerra è la verità, e la libertà di vedere la verità. Gli obiettori di coscienza alla prepotenza, anche un obiettore da solo, sono liberatori del popolo, se il popolo capisce. La democrazia può liberare dalla guerra, se il popolo capisce. Spesso non occorre un coraggio eroico, basta la ragione. Cultura e informazione sono i primi strumenti della pace. Dice Kant che per un regime giusto non occorre un popolo di angeli, basta un popolo di diavoli intelligenti. Dice Giovanni XXIII che la guerra, specialmente nell'era atomica, è «fuori dalla ragione». Dice Simone Weil da qualche parte che la pace non verrà dall'amore - che può anche spingere alla guerra - ma dall'intelligenza.
Come fare ragionare il potente o il popolo che non ragionano? L'inizio di una difficile risposta è: ragionando e parlando.
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All'attenzione del Comitato direttivo della Tavola della Pace
e di Flavio Lotti e Maria Grazia Bellini - Coordinatori della Tavola della Pace
Cari amici,
conto di essere presente dopodomani 26 ad Assisi.
Chiedo che, riguardo al conflitto Isarele-Libano-Palestina, l'Assemblea punti su due richieste politiche principali, che devono superare per urgenza, impegno, significato civile e qualità umana, qualunque azione militare, sebbene con intenzione di interposizione e pace:
1) una immediata intensa campagna politico-diplomatica per una conferenza internazionale sul Medio Oriente, verso un obiettivo di pace stabile e giusta, come nelle proposte di Johan Galtung, il decano della peace research mondiale, che allego (nel testo inglese, nel testo italiano integrale e in quello ridotto, con indicazione dei siti). Una pronta iniziativa italiana per una tale conferenza sarebbe vero onore e merito della nostra politica internazionale.
2) immediato e adeguato finanziamento, addestramento e impegno istituzionale di forze civili non armate - sul modello dei Corpi Civili di Pace proposti da Alex Langer, e finora attuati dal generoso volontariato associativo con significative esperienze - per una interposizione-mediazione costruttiva, senza alcuna minaccia o coinvolgimento bellico. Tale presenza civile potrebbe inizialmente, stante l'attuale mentalità della classe politica, aggiungersi alla presenza militare, purché in modo totalmente indipendente e autonomo, ma deve progressivamente sostituire del tutto lo strumento militare negli interventi internazionali di mediazione dei conflitti.
Enrico Peyretti, Torino
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