Gli scarponi dei lagunari e la pace in Medio Oriente

tre riflessioni da Avvenire

Se a Palazzo Chigi sedesse ancora il CavaliereLa pace fa i conti col realismo di governare

Marina Corradi - 27 ago 2006

Tremila soldati italiani sono in partenza per il Libano. Pronti i marò del Reggimento San Marco, pronti i Lagunari. Tutti, se pure in missione di pace, ben equipaggiati di armi, dovendo andare a mettersi di mezzo fra combattenti scarsamente sensibili alle buone maniere. In armi, dunque, si parte, nel tentativo di non lasciare degenerare un disastroso conflitto. Così come in armi si era andati in Iraq e in Afghanistan, con almeno l'intenzione di riportare un minimo d'ordine in Paesi dilaniati da guerra civile e terrorismo. Ma, e la novità è questa, attorno a questa partenza tutto o quasi tace. Minimo il dissenso alla missione Unifil, capeggiato da un manipolo di irriducibili come Gino Strada. Per il resto, un quasi generale compiacimento accompagna i nostri a Beirut. Ma immaginiamoci cosa succederebbe oggi, se la crisi in Medio Oriente fosse scoppiata appena prima di aprile. Se quei tremila, li mandasse Berlusconi. In 24 ore le piazze d'Italia gremite di bandiere arcobaleno, e folle intente a tutti i riti del pacifismo di strada: canti, cori, danze, declinazione di netti slogan senza se e senza ma. Reggimenti di adolescenti, immemori eredi di un'Europa liberata dal nazifascismo ad opera degli armatissimi Alleati, davanti alle telecamere spiegherebbero come in Libano occorra andare al massimo in missione umanitaria, e senza fucili, chiedendo a Hezbollah e israeliani, per cortesia, di smetterla. I balconi d'Italia drappeggiati di arcobaleni. Le linee ferroviarie attorno a Pisa presidiate da folle di no global bivaccanti sui binari, a fermare gli eventuali carri armati in transito. E magari, ancora lo sventurato coro «Una, cento, mille Nasiriyah» riecheggiante qui e là. Mentre qualcuno di Rifondazione avrebbe gridato che non si può inviare truppe, mentre il popolo italiano è «quasi alla fame» - come Fosco Giannini in occasione del rifinanziamento della missione in Afghanistan. Silenzio, invece. Salvo che ad Assisi, nelle piazze d'Italia si passeggia e si mangia il gela to. I giornali di sinistra dedicano parole solidali, e talvolta commosse, ai soldati in partenza. Su Liberazione, quotidiano comunista, Rina Gagliardi scrive che «tutti coloro che si sentono pacifisti hanno quest'obbligo: provare a esserci, bandire ogni pur legittimo desiderio di fuga e puntare tutto sulla speranza». Entusiasta la Rossanda sul manifesto: «Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza l'Europa sta dando!». E l'editoriale di Repubblica plaude alla nuova «politica di autonomia e di responsabilità, che consente all'Italia di giocare un ruolo nel Mediterraneo». Ma perché, si potrebbe candidamente domandarsi, il "desiderio di fuga" è legittimo in Afghanistan e non in Libano? Perché armati a Beirut, e non a Kabul, a tentare di fronteggiare taleban e terroristi e ricondurre un Paese alla democrazia? Davvero è solo l'iniziativa Onu a fare la differenza? Se è lecito, come ha detto D'Alema al quotidiano israeliano Haaretz, mandare uomini «in segno di affetto a Israele», perché non al popolo afghano? (Se di «segno d'affetto» a Israele avesse parlato Berlusconi, che pandemonio). Perché, perché. Domande oziose circa quella coerenza di cui tanti si vantano. Domande che prescindono da quella legge della politica, per cui quando si governa non si può più dilettarsi con i no di principio e l'utopia, ma occorre fare fronte alla realtà. Quando l'urgenza di ciò che accade interpella, l'ideologia deve cedere per forza il posto al realismo. Non c'è più tempo per girotondi e arcobaleni; non basta protestare, occorre decidere e fare. Così che, guardando a quei tremila che vanno a rischiare la pelle loro in una difficilissima missione, mostrando che per l'Italia "pace" non vuole dire solo starsene in pace, viene da dire agli ex-pacifisti integralisti: meno male che al governo oggi ci siete voi, altrimenti non avreste lasciato partire neanche un fante. E benvenuti, finalmente, nella realtà.

La missione che parte ha un obiettivo sullo sfondo
Gli scarponi dei lagunari e la pace nel Medio Oriente

Luca Geronico 29 ago 2006

Una svolta la partenza del contingente internazionale per il Libano, con l’Italia a giocare un inedito ruolo da protagonista sulla scena mondiale. Un rischioso azzardo politico, che sembra aver ripagato il nostro Paese sia nell’assetto del contingente, sia nelle attribuzioni di responsabilità di comando. Sul terreno fra la “linea blu” e il fiume Litani – il più insidioso dei terreni possibili – si scriverà nei prossimi mesi, probabilmente anni, l’ardua sentenza di quella scelta. La doverosa speranza di un buon esito non può far velo alle tante insidie militari e politiche che la formidabile morsa triangolare Beirut-Gerusalemme-Teheran(Hezbollah) pone alla missione Unifil2. Politicamente la decisione presa venerdì dai venticinque ministri degli Esteri dell’Ue potrebbe aver marcato un tornante nella guerra asimmetrica contro il terrorismo internazionale, partita che si gioca in gran parte nel Medio Oriente. Fornendo 7mila uomini, vale a dire l’impalcatura di base del contingente Onu, l’Unione europea potrebbe aver avviato il superamento della dottrina della guerra preventiva per una nuova sintesi e corresponsabilità politica. In buona sostanza, è lasciata alle spalle un’impostazione contrassegnata dall’attacco Usa a Baghdad che ha avuto come premessa il fossato, profondo quanto l’Atlantico, scavato da Donald Rumsfeld nei confronti della «Vecchia Europa». L’esito nefasto di quella stagione era stato, per la comunità internazionale, l’assalto qaedista al Canal Hotel di Baghdad il 19 agosto 2003, quando un camion bomba spazzò via il quartier generale delle Nazioni Unite intensificando l’offensiva del terrore nella regione. Un attacco criminale che affondava le radici in una diffusa ostilità verso chi era, a torto, assimilato come inutile complice del “nemico occidentale”. Ora le Nazioni Unite ci riprovano, tornando in un’area di crisi ancora più cruciale di quella del Golfo. Una presenza favorita anche dal prudenziale attendismo americano, determinato dallo stillicidio di uomini, risorse, e consenso interno per la vicenda irachena. Così la comunità internazionale con il marchio dell’Unione europea, ritorna nella regione. Una presenza richiesta, fra distinguo e cautele, anche da Israele e da Beirut, e per la quale si è adoperata la stessa Condoleezza Rice. Il nuovo contingente internazionale, unito a una azione politico-diplomatica, potrebbe lasciar percepire questa presenza occidentale non più ostile, ma stabilizzatrice. Un auspicio, mentre si stanno ancora lucidando gli scarponi dei nostri lagunari. Un obiettivo che, in prospettiva, non può non contemplare anche la soluzione della questione arabo-israeliana. Potrebbe sembrare un azzardo pensarci ora, e invece è un nodo ineliminabile per non vanificare tutto il processo politico che si sta aprendo. Con una speranza in più. Un Occidente pragmaticamente percepito come forza di stabilizzazione e di ricostruzione economica e sociale, sarebbe in grado di offrire un modello culturale e istituzionale capace di suscitare se non consenso, almeno interesse, nel mondo arabo e in quello islamico in particolare. Il che equivarrebbe a togliere acqua al terrorismo internazionale e a depotenziare la strategia nuclear-antisionista dell’Iran, la nuova forza regionale emergente. Tutto questo – se necessario con mano pronta alla fondina – mettendo alle corde terrorismo e crimine politico-fondamentalista. Il “nuovo Medio Oriente” promesso da Bush appena conquistato l’Iraq resta una chimera, mentre la realtà appare molto “incarognita”. La partecipazione responsabile e complementare del Vecchio mondo potrebbero essere una chance per dare anima e forza a una nuova politica verso quella strategica regione.

IL RUOLO DEI NOSTRI SOLDATI
Dall' Iraq al Libano Due impegni un solo obiettivo

Andrea Lavazza - 3 set 2006

Èinutile nascondersi come le guerre abbiano segnato la storia delle nazioni, in genere più nel male che nel bene. E come i militari siano a lungo rimasti una delle incarnazioni dello spirito patrio, spesso in una retorica dimentica dei sacrifici, delle violenze e dei lutti che ogni conflitto porta inevitabilmente con sé. Ma vi è anche una dimensione positiva delle Forze armate che l'Italia ha saputo in questi anni recuperare, superando le esaltazioni del passato, in particolare dello sciagurato Ventennio, e le "mortificazioni" della fase repubblicana, in cui il contesto - e il legittimo desiderio - di pace ha in parte oscurato la presenza e il ruolo degli uomini in armi (malgrado le tensioni della sfida tra i Blocchi). Anche la soppressione della leva obbligatoria è stata espressione della volontà di superare la mitologia del "servizio" in divisa alla collettività.
Eppure, non solo rimane la necessità della difesa comune da possibili minacce - e dopo la caduta dell'Urss è sorta quella del terrorismo internazionale -, ma è andata definendosi una prospettiva di costruzione attiva della sicurezza internazionale fatta di peace-enforcing e peace-keeping, ovvero una serie di interventi tesi a salvaguardare popolazioni attaccate (è il caso del Kosovo), a separare contendenti (come dovremo fare in Libano) o a garantire l'ordine in attesa di una riconciliazione nazionale (come abbiamo contribuito a fare in Iraq e continuiamo a fare in Afghanistan e nei Balcani).
Proprio in questi giorni si compie il passaggio da una missione all'altra, non senza contraccolpi a livello politico e diplomatico. Andiamo nel Paese dei cedri - se dobbiamo dare credito ai sondaggi d'opinione - con una maggioranza di consensi che non accompagnava l'operazione Nuova Babilonia, sulla quale gravava, almeno all'inizio, la contrarietà per l'invasione del Paese da parte della coalizione a guida americana. Oggi l'egida Onu, sotto cui si muoveranno le nostre truppe, fa sì che l'appoggio dell'op inione pubblica sia più ampio, ma questa pare una componente più ideologica che una valutazione condotta sulla base dell'efficacia prevista dell'intervento.
Quello di questi giorni, in cui mille nostri soldati sbarcano sulle spiagge libanesi e altri 1600 si apprestano a lasciare il controllo della provincia irachena di Dhi Qar alle nuove autorità locali, in previsione del ritiro completo del contingente, costituisce comunque un momento di alto valore simbolico. E come tale va interpretato, senza lasciarsi soggiogare dalla forza delle immagini che ci raggiungeranno. La nostra presenza a Nasiriyah è stata segnata dal grave attentato del 2003, tutti abbiamo ancora negli occhi i funerali di popolo che salutarono i caduti nella basilica di San Paolo. Nei tre anni della missione si sono piante altre vittime (e anche ieri una bomba è esplosa al passaggio di un convoglio italiano) ma il bilancio non è fatto solo di dolorose perdite. Il ringraziamento del governo di Baghdad indica che i militari italiani si sono segnalati, come in molte altre circostanze, per la capacità di interpretare con serietà e umanità il loro compito. Una caratteristica che riproporremo in Libano, dove ci aspetta una situazione difficile, non priva di rischi ed esposta a molte complicazioni. L'invio di 2.500 uomini entro i prossimi due mesi ha lo scopo di sostenere una fragile tregua e garantire l'avvio di un processo negoziale sul delicato confine che vede fronteggiarsi Hezbollah e Israele. E i militari italiani non saranno schierati per un puro sfoggio di "presenzialismo" - per dare lustro a un Paese che va in cerca di un po' di prestigio (e non a buon mercato). Ora che il governo ha deciso e dopo che avrà votato il Parlamento, compito responsabile di tutti - anche di coloro che legittimamente dissentono dalla missione - sarà di non "lasciare soli" i soldati in prima linea per la pace. Non c'è da esibire trionfalismo o da maledire rigurgiti militaristi, piuttosto da chiedere un intervento efficac e, rispetto delle regole e vicinanza alle popolazioni, esprimendo gratitudine a chi ha già ben operato su altri fronti.

PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.8.17 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)