Caro Bush e caro Papa, caro G8, nè ghetti nè muri ma l'umanità

non più guerra in questi giorni di incontro e scontro di potenti, fra potenti, fra società civile e governanti, fra uomini e donne che hanno la possibilità di offrire una via diversa per la costruzione di un mondo nuovo voglio semplicemente rilanciare un appello a tutti. Non serve scagliarsi contro niente e nessuno, sopratutto con livore e rabbia in corpo, con provocazioni che semplicemente alzano il tono dello scontro e allontanano la possibilità di incontro. E' ora il tempo del costruire con tutti gli uomini e donne di buona volontà. Era il 4 ottobre 1965, festa di s Francesco, e Paolo VI (lo stesso che nel 1967 ci regalò l'enciclica Populorum Progressio) parlando all'Onu diceva:

non gli uni contro gli altri, non più, non mai! ... non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell'intera umanità! E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l'equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Si lavori altresì con fratellanza per renderci capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli.

Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l'uomo; in maniera nuova la convivenza dell'umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo, secondo le parole di S. Paolo: "Rivestire l'uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità" (Eph. 4, 23).

È l'ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune.

Questo credo debba essere il tempo per ripensare la nostra comune origine, di ribadire che lavoriamo per l'umanità "una e non divisa", di riconfermare la disponibilità a non trasformare parte dell'umanità in "esubero a perdere" o in "effetto collaterale" da giustificare. Ecco perchè oggi mi faccio voce di due popoli (fra i tanti che parlano inascoltati) e due terre che ci chiedono cosa proporremo per il loro e il nostro futuro e che propongono alcune attenzioni e soluzioni, sulle quali varrebbe la pena riflettere, progettare e collaborare per il bene di tutti. Purtroppo si parla ancora di muri, di occupazione di ghetti, parole che pensavamo definitivamente bandite dal vocabolario dell'umanità.

Niente ghetti: in Iraq si sta varando il piano "Piana di Ninive", una trappola per i cristiani irakeni. Un ghetto in cui collocare tutti i cristiani dell'Iraq per "preservarli" da una estinzione veloce. L'amico mons Luis Sako, vescovo di Kirkuk ci dice: "I cristiani, la cui presenza è ormai dimezzata a causa dell’esodo forzato, devono abbandonare questo rischioso progetto di ghetto. Come cristiani dobbiamo essere presenti ovunque, per testimoniare la nostra identità in mezzo agli altri. La nostra Chiesa non è stata mai nazionalista o chiusa in senso etnico; ha invece sempre abbracciato popoli e nazioni, ha raggiunto l’apice in Mesopotamia, nei Paesi arabi del Golfo ed è arrivata perfino in Cina. Per assicurare un migliore futuro in Iraq dobbiamo: lavorare tutti insieme, cristiani di tutti i riti e denominazioni, per unire la nostra posizione e rendere efficace il nostro discorso politico nel quotidiano. Ciò significa lavorare per la riconciliazione degli iracheni, collaborando con le autorità religiose e i partiti. Dialogo, riconciliazione e spinta verso la cultura della pace sono la nostra missione oggi;
mostrare con fatti il nostro ruolo storico per la costruzione dell'Iraq, la nostra volontà di vivere e collaborare con tutti per l'unità del Paese rifiutando di essere identificati con l’“invasore”; lavorare insieme in un gruppo unito per operare emendamenti al testo della Costituzione irachena e curda."
niente muri e occupazioni: "La costruzione di un muro tra il popolo israeliano e quello palestinese è vista da molti come un nuovo ostacolo sulla strada della pacifica convivenza. In realtà non di muri ha bisogno la Terra santa, ma di ponti!" Così Giovanni Paolo II il 16 novembre 2003. Nessun muro è giustificabile fra popoli, fra razze, fra religioni, fra poveri e ricchi, fra uomini e donne. Ogni muro elabora e giustifica una antropologia e una politica dell'inimicizia, della violenza, della occupazione per la sicurezza. Mons Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme e presidente internazionale di Pax Christi in occasione della Pasqua 2007 ci diceva: “non può esserci il più forte e il più debole, non possono esserci l’occupazione, i muri, le barriere militari, la paura e la violenza. Ce la faranno mai i nostri uomini di governo e la comunità internazionale a porre fine al grande squilibrio che da 40 anni vive la nostra Terra Santa e che ha ripercussioni sull’intera regione e nel mondo? Occorre rompere un cerchio, assumersi il rischio della pace, porre fine all’occupazione e intraprendere un “processo di guarigione”".

Caro Bush, caro Papa, cari amici del G8, cari governanti e responsabili della terra,
niente muri, niente occupazioni, niente ghetti, niente violenze, niente barricate, niente interessi mascherati di bisogno di sicurezza, nessuna giustizia che calpesta la dignità e la vita.
Un mondo nuovo è possibile solo attraverso la giustizia, il disarmo, la nonviolenza, la verità, la liberazione da ogni oppressione, l'amore a chi condivide il destino di un'unica umanità.
Questo ci aspettiamo da voi! Su questo ci avrete alleati concreti e sinceri.

shalom, salaam, peace
d fabio corazzina
coordinatore Pax Christi Italia
Firenze 8 giugno 2007

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vedi inoltre dossier di Asianews - Cristiani irakeni in via di estinzione
http://www.asianews.it/index.php?l=it&dos=108&size=A

07/06/2007 11:50
IRAQ
La Piana di Ninive, una trappola per i cristiani iracheni!
di Louis Sako*
Alla vigila dell’incontro tra il Papa e Bush, l’arcivescovo di Kirkuk analizza i rischi del progetto di assegnare ai cristiani una regione autonoma nella Piana di Niniveh, soluzione contro la quale si sono già espressi autorevoli ambienti del Vaticano.

Kirkuk (fonte: AsiaNews) - Chiudere i cristiani in un ghetto non servirà a salvarli. Anzi. Il piano di una zona autonoma assira in Iraq, portato avanti da ambienti politicizzati in patria e all’estero, rischia solo di peggiorare la situazione. Il cosiddetto “progetto della Piana di Niniveh”, trova inoltre forte contrarietà in ambienti autorevoli del Vaticano. Alla vigilia dell’incontro tra il Papa e il presidente Usa George W. Bush, una delle figure di spicco all’interno della Chiesa caldea, l’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, spiega di seguito le radici dell’utopia assira, i pericoli che comporta e traccia le linee per affrontare in modo unito il problema della persecuzione cristiana.

La piana di Niniveh contiene una serie di villaggi cristiani (circa una ventina), in cui per la maggior parte si parla il dialetto siriaco chiamato “sureth”. La zona è da sempre sotto la giurisdizione di Mosul – da cui dista circa 30-35 km – e che è il centro culturale, commerciale ed ecclesiastico. La Piana è circondata da villaggi arabi, shebac, yezidi e curdi. Vi abitano 120 mila cristiani.

Quello di avere una zona indipendente è un sorta di sogno nazionale per gli assiri che risale già al periodo della Prima Guerra mondiale; poi negli anni ‘70 anche alcuni politici cristiani e leader religiosi hanno chiesto una provincia autonoma, ma il sogno non si è mai realizzato!

Dopo l a caduta del regime di Saddam Hussein e soprattutto nel 2006, guardando all'esperienza del Kurdistan autonomo, tanti nazionalisti cristiani fuori e dentro l'Iraq vedono nella Piana di Ninive la possibilità di guadagnare una zona sicura (Safe Haven).

Perché Niniveh? Niniveh era storicamente la capitale dell'antica Assiria. Gli arabi, in particolare i sunniti, sono fortemente contrari a questa soluzione, come lo sono per il federalismo o ad una divisione del Paese su base etnica o confessionale. Diversi media cristiani stanno conducendo una massiccia propaganda per portare avanti l’idea che la Piana è l’unica speranza di salvezza. E così aumentano i problemi: minacce, rapimenti, attacchi e uccisioni…I curdi appoggiano questo progetto, forse anche gli Usa, data l'esperienza della Jugoslavia e il piano del nuovo Medio Oriente!

Ma i cristiani, la cui presenza è ormai dimezzata a causa dell’esodo forzato, devono abbandonare questo rischioso progetto di ghetto. Come cristiani dobbiamo essere presenti ovunque, per testimoniare la nostra identità in mezzo agli altri. La nostra Chiesa non è stata mai nazionalista o chiusa in senso etnico; ha invece sempre abbracciato popoli e nazioni, ha raggiunto l’apice in Mesopotamia, nei Paesi arabi del Golfo ed è arrivata perfino in Cina.

Per assicurare un migliore futuro in Iraq dobbiamo:

lavorare tutti insieme, cristiani di tutti i riti e denominazioni, per unire la nostra posizione e rendere efficace il nostro discorso politico nel quotidiano. Ciò significa lavorare per la riconciliazione degli iracheni, collaborando con le autorità religiose e i partiti. Dialogo, riconciliazione e spinta verso la cultura della pace sono la nostra missione oggi;
mostrare con fatti il nostro ruolo storico per la costruzione dell'Iraq, la nostra volontà di vivere e collaborare con tutti per l'unità del Paese rifiutando di essere identificati con l’“invasore”;
lavorare insieme in un gruppo unito per operare emendamenti al testo della Costituzione irachena e curda.
Infine la diaspora cristiana e tutte le chiese sono invitate a lavorare senza troppa propaganda ed aiutare nei fatti i cristiani emigrati in Siria, Giordania, Libano, come pure a creare istituti e posti di lavoro nei nuovi villaggi del nord per dare speranza e strumenti di vita alle famiglie dei rifugiati.

* Arcivescovo di Kirkuk

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