I JANJAWEED, PREDONI NEL SEGNO DELLA CONTINUITÀ
Nella tormentata regione del Darfur, assurta recentemente alla cronaca internazionale, i guai sono causati in gran parte dai Janjaweed, conosciuti
anche come Janjawid o Jingaweit. Leggendo i dispacci d'agenzia, questi signori,
descritti come "uomini a cavallo armati di carabina", vengono quasi sempre
indicati come i responsabili delle nefandezze che tormentano la martoriata
regione occidentale del Sudan.
Secondo le informazioni raccolte da varie fonti locali, i Janjaweed sono una milizia filo-governativa sudanese, composta da predoni appartenenti alla famiglia estesa dei Baggara, insediata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale.
Il sostantivo Baggara comprende in effetti vari gruppi etnici semi-nomadi quali ad esempio gli Humr/Messiria, i Rizaygat, i Shuwia, i Hawazma, i Ta'isha,
e i Habbaniya. Il termine Janjaweed, dal punto di vista etimologico pare
legato alla parola 'jawad' ('cavallo') ed è la versione moderna di 'Murahilin'
che letteralmente significa 'coloro che sono in movimento', 'nomadi'. Da
sempre queste tribù arabe sudanesi hanno ridotto in schiavitù le popolazioni
'nilotiche' o 'nere' in generale, scagliandosi in particolare contro gli
animisti e i cristiani. Si tratta di un fenomeno che negli anni '80, e anche
successivamente, ha fortemente penalizzato i gruppi etnici del Sudan meridionale
(ad esempio i Denka). La prima denuncia fu lanciata nel 1987 da due docenti
dell'Università di Khartoum, il professor Suleyman Ali Baldo e il suo collega
Ushari Ahmed Mahmud. Sfidando la censura del regime sudanese, dichiararono
che una vera e propria tratta degli schiavi era già in atto dal 1985. Da
quando, in altre parole, lo stato maggiore dell'esercito sudanese ritenne
opportuno definire alcune strategie per arginare l'attività dell'Esercito
di liberazione popolare del Sudan (Spla) di John Garang. Tra queste fu proposta
e approvata la formazione di una milizia armata di cavalieri Baggara. In
sostanza, si trattava di operare dei veri e propri raid in quei villaggi
Denka, del Sudan meridionale, e più precisamente nel Bahr el Ghazal, in
cui erano presenti possibili sostenitori dello Spla. Gli attacchi, secondo
il rapporto pubblicato dai due docenti sudanesi, si susseguirono a tappeto,
cavallo tra il 1985 e il 1987, in una logica mirante a indebolire il movimento
di guerriglia. I civili uccisi furono diverse migliaia e altrettanti i giovani
catturati per essere poi venduti come merce umana ai mercati. Sebbene le
dichiarazioni di Suleyman e di Ushari avessero al contempo dell'incredibile
e del sensazionale, furono successivamente confermate da osservatori internazionali
e addirittura aggiornate e amplificate con nuovi e terribili testimonianze.
Nonostante sia difficile definire le vaste aree geografiche dove si sono
consumate simili tragedie e, soprattutto, quantificare le cifre che riguardano
la tratta, alcune autorevoli organizzazioni internazionali si sono adoperate
in questi anni affinché si facesse luce sulla verità dei fatti.
Tra esse spicca certamente l'Anti-Slavery International (Asi) di Londra
che da tempo si sta adoperando presso le Nazioni Unite su questo fronte.
Secondo l'Asi, già nel 1988 erano stati ridotti in schiavitù circa 12.000
ragazzi e ragazze Denka. I centri di vendita degli schiavi erano numerosi:
el Dhein (Kordofan), Kadogli (Monti Nuba)... A Sumeih la compera degli schiavi
avveniva addirittura dai finestrini del treno, venduti ai migliori offerenti.
Il loro prezzo poteva oscillare dai 10 ai 100 dollari Usa.
Ma non è tutto qui. Ad esempio, ad Alait, un piccolo centro sulla strada
tra Gerenchat ed el Nahud (Kordofan), presso la khalwa (scuola islamica)
venivano venduti ragazzi Denka a un prezzo fisso, pari, nella metà degli
anni '80, a 13mila sterline sudanesi (circa 9 dollari) su cui non era possibile
avere sconti. Gli schiavi venivano prevalentemente adibiti ai pesanti lavori
nei campi e ai servizi domestici. Tornando ai Janjaweed, le testimonianze
raccolte dalla nostra agenzia parlano di indicibili vessazioni perpetrate
da questi miliziani contro le popolazioni del Darfur, soprattutto d'etnia
Fur, che da tempo protestano contro il governo di Khartoum per essersi disinteressato
dei problemi socio-economici della loro regione. Al momento non vi sono
indicazioni di una tratta di schiavi come accadeva nel passato, ma è bene
vigilare perché certe scelleratezze non si ripetano. Ad esempio, è cosa
nota che i Rizaygat, conosciuti anche come Rezigat, appartenenti alla grande
famiglia Baggara, portino al loro seguito dei servi ridotti in schiavitù
(generalmente nilotici) per accudire il loro bestiame. Ma non solo: nei
principali centri del Nord Sudan vi sono insediamenti di sfollati nilotici
i quali svolgono servizio a quelle famiglie, più o meno benestanti, di tradizione
islamica, anche Baggara, cui prestano manodopera in cambio di cibo, giungendo,
specie nei tempi di carestia, a dare i propri figli in pegno. In particolare
le ragazze spesso subiscono violenze sessuali e vengono trattate dai loro
padroni come concubine. Sia negli anni '80 come negli anni '90, sono state
raccolte storie di minori venduti all'estero dai Baggara. Molti venivano
trasferiti in camion in Libia, mentre altri indirizzati a Port-Sudan e successivamente
imbarcati per l'Arabia Saudita. Non v'è dubbio che la comunità internazionale
e l'Unione Africana (Ua) in particolare, debbano vigilare perché nel Darfur
cessino le razzie dei Janjaweed, prima che sia troppo tardi. (di padre Giulio
Albanese) [GA]
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