Alex Zanotelli

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Da Napoli, la riflessione di padre Zanotelli sul commercio equo e solidale

E` arrivata come un fulmine a ciel sereno. Dal quartiere Sanità di Napoli, dove vive ed è attualmente impegnato, il missionario comboniano Alex Zanotelli ha scritto una lettera aperta sul tema del commercio equo e solidale. Una lettera scritta con il suo stile, molto diretto, senza fronzoli. E con le solite domande, che interpellano e scuotono le coscienze. Il dibattito attorno al commercio equo e solidale (Ces) si infiamma.
5 ottobre 2005
Alex Zanotelli
Fonte: 21 Stili

Carissimi e carissime, jambo! Grazie per lo splendido lavoro che state facendo nelle oltre 500 botteghe del commercio equo e solidale (Ces) sparse in Italia. Girando per questo paese, ho trovato botteghe dove lavorano persone splendide e che sono veri luoghi di condivisione, di informazione, di resistenza. Grazie per l’ospitalità e il calore umano che vi ho trovato. Ho visto il Ces nascere quando ero a Nigrizia ed espandersi quando ero a Korogocho. Poi l’ho conosciuto più dal di dentro quando a Korogocho iniziò la cooperativa Bega Kwa Bega che ebbe il suo sbocco nel commercio equo e solidale.
Per me il Ces è un grande dono, una perla preziosa per resistere al sistema. Sappiamo bene poi che questo sistema economico-finanziario neo-liberista è talmente scaltro che può trasformare anche questa “perla” in un suo fiore all’occhiello. Corriamo il pericolo di buttare le perle ai porci. Per cui è giusto chiederci dopo 20 anni di Ces a che punto siamo. Permettetemi come compagno di viaggio di esporvi alcuni aspetti che mi lasciano perplesso.
1. La grande distribuzione è in rapida crescita. Sembra che la metà del fatturato alimentare del Ces si venda sulla grande distribuzione. Mi sembra che nei punti vendita dei supermercati non c’è uno sforzo serio di informazione e coscientizzazione. Questo mi sembra tradisca lo scopo stesso del Ces che è nato non per mandare qualche soldo in più al sud del mondo, ma per far capire ai consumatori del nord che c’è qualcosa di radicalmente sbagliato nella filiera commerciale. Scopo del Ces infatti è cambiare le regole del gioco perché c’è qualcosa di radicalmente ingiusto nel sistema economico internazionale. È vero che i contadini impoveriti del sud ci chiedono di vendere sempre più i loro prodotti, ma non è così che risolveremo i loro problemi. Se ci dimentichiamo che il Ces è uno strumento politico per coscientizzare i consumatori del nord a cambiare le regole del commercio internazionale, non otterremo nulla. Avremo fatto solo carità. Avevo ritirato il mio nome da Transfair proprio perché, a mio avviso, non faceva uno sforzo sufficiente per informare coloro che comperavano quei prodotti. Ed in questo avevo allora l’appoggio del Ces. Ora è lo stesso Ces che rischia di trovarsi nella stessa situazione.
2. Lo sforzo politico è in calo. Mentre il Ces a livello economico prospera, non altrettanto si può dire del suo impegno politico. Trovo spesso nel Ces una mancanza di sensibilità politica che mi sconcerta! È incredibile per me vedere che spesso su importanti questioni politiche (non parlo di partiti!), il Ces non c’è. Questa mancanza della dimensione politica può portare a conseguenze per me assurde. So di certo che la Max Havelaar (il corrispettivo del Ces in Svizzera) vende alla McDonald’s di quel paese quaranta tonnellate di caffè all’anno!!! E questo nel quasi totale silenzio delle botteghe svizzere che trovano difficile protestare. Ma allora a cosa serve il Ces? A vender di più per aiutare i poveri?
3. Uno stimolo a consumare di più? Se l’enfasi del Ces va al primato del commercio, al vendere di più, è chiaro che l’invito ad uno stile di vita più sobrio, a consumare di meno, andrà decrescendo. Eppure è il cuore del Ces che dovrebbe invitare tutti a consumare di meno, ad avere uno stile di vita più semplice. Un esempio di questa tendenza è l’apertura di tante botteghe durante le “domeniche d’oro” (precedenti la festa di Natale, la festa per eccellenza del consumismo mondiale). È ovvio che in quelle domeniche si vende di più. Ma è giusto? Non rischiamo di entrare nel grande giro del consumare, consumare, consumare… Le botteghe dovrebbero essere dei luoghi dove la gente impara ad essere più sobria, più essenziale.
4. Punto d’incontro, di relazioni? Ogni bottega del mondo dovrebbe essere il luogo dove si sperimentano relazioni umane, fraternità, serenità, gioia di vivere. È un aspetto fondamentale questo per ogni bottega, in una società come la nostra dove viene imposta una massificante cultura, materialista e consumista, che ci riduce tutti a atomi, a tubi digerenti dove non esistono più autentiche relazioni umane. Ecco perché è così importante la bottega (con il rifiuto del supermercato!), dove si sperimenta la gioia dello stare insieme, della celebrazione, dell’incontro anche interculturale e interreligioso. L’anima di ogni bottega dovrebbe essere una piccola comunità che ama ritrovarsi, far festa, danzare la vita. Ogni comunità dovrebbe essere una comunità alternativa alla cultura dominante.
5. E il volontariato? È sotto gli occhi di tutti la tendenza ad assumere impiegati in bottega a scapito del volontariato. È chiaro che una volta che il volume commerciale di una bottega cresce, si dovrà assumere personale per far fronte al lavoro. Per questo l’assunzione di personale dovrebbe essere tenuta entro precisi limiti. Guai a noi se perdiamo la dimensione del volontariato in bottega. Il rischio è che alla fine ci guadagneremo sempre noi del nord a scapito dei poveri ai quali daremo le briciole. Ho potuto toccare questo con mano con la cooperativa Bega Kwa Bega di Korogocho.
6. L’Africa fanalino di coda. L’Africa sembra, purtroppo, essere all’ultimo posto nel Ces. È una constatazione questa che mi ferisce, proprio perché l’Africa è il continente oggi più disastrato. Ma perché il Ces sta investendo così poco in questo continente crocifisso? Perché così pochi prodotti africani nelle nostre botteghe? Lo so, per esperienza, che è più difficile lavorare con gli africani. Ma oggi è proprio l’ora dell’Africa! Quand’è che il Ces deciderà di investire di più in Africa?
7. E il lavoro in rete? Girando per l’Italia, ho trovato botteghe della stessa città che non si parlano, che non collaborano e che non lavorano in rete! Ma che razza di commercio equo e solidale è mai questo? Come fanno botteghe della stessa città a guardarsi in cagnesco, rifiutandosi per di più di partecipare alla rete cittadina? Il Ces è o non è uno strumento politico di resistenza al sistema? E non dovrebbero le botteghe di una stessa città essere le promotrici di reti locali che raccolgono tutte le realtà di resistenza al sistema?
8. Comunità locali autosufficienti. Il Ces non è fine a se stesso, ma deve aiutare tutte le forze critiche presenti sul territorio per far nascere quelle esperienze locali alternative che permettano poi l’emergere di soluzioni economiche di più vasto raggio. «L’elemento chiave di questa prospettiva – afferma il teologo tedesco U. Duchrow nel suo libro Alternative al capitalismo globale – è di rendere le comunità locali il più possibile autosufficienti e proteggerle dagli effetti dannosi del mercato mondiale». Oggi non è più sufficiente fare resistenza, ma sarà sempre più compito del Ces creare spazi economici locali autosufficienti. È fondamentale – afferma sempre Duchrow – «la creazione di spazi economici locali con mercati locali che siano orientati al bisogno, sostenibili dal versante ecologico e promuovano il lavoro». Il noto teologo tedesco Duchrow conclude: «Per questa evoluzione è molto importante il decentramento dell’approvvigionamento energetico con energie rinnovabili (sole, vento, acqua, …) e lo sviluppo dell’agricoltura biologica preferibilmente nella forma della cooperativa dal produttore al consumatore».
Scrivo questa lettera dal Quartiere Sanità dove vivo, uno dei quartieri a rischio di questa grande città di Napoli, il più grande complesso urbano d’Italia e vero cuore del Sud. Vorrei proprio ricordare anche alle botteghe del Nord di non dimenticarsi del commercio equo e solidale del Sud. Le botteghe si sono infatti propagate molto al Nord e al Centro, ma poco al Sud. E questo per tante ragioni. Penso che sarebbe un bel gesto se le botteghe del Nord dessero una mano alle botteghe del Sud per poter decollare. È così brutto veder che c’è un Nord e un Sud anche nel Ces!
Questa lettera che vi proviene dal cuore del Sud vuole essere un grido di allarme, ma anche un inno di grazie per lo splendido lavoro che il Ces ha fatto in questi 20 anni. Tutta l’Europa guarda con meraviglia alla nostra maniera di fare commercio equo e solidale. Non sciupiamo questa perla preziosa che ci è stata affidata, ma rendiamola sempre più strumento efficace di resistenza. Buon lavoro. Sijambo.

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