Latina

Probabile riconferma per Rafael Correa

Presidenziali in Ecuador: lo scenario politico ad un mese dalle elezioni

Destra divisa, sinistra e movimenti puntano su Alberto Acosta
18 gennaio 2013
David Lifodi

internet Ad un mese dalle elezioni presidenziali, che si terranno il 17 febbraio, le previsioni per la competizione verso Palacio de Carondelet sembrano premiare il mandatario uscente, Rafael Correa, soprattutto grazie all’estremo frazionamento della destra, ma un risultato sorprendente potrebbe ottenerlo la sinistra sociale di Alberto Acosta, entrato da tempo in rotta di collisione con l’ex presidente.

Correa, secondo gli ultimi sondaggi, gode di un consenso che si aggirava intorno al 60%, prima degli ultimi casi di corruzione che, secondo altri exit-poll, lo darebbero tra il 37% ed il 44%. Già in seguito alla cacciata a furor di popolo di Lucio Gutiérrez nel 2006, l’attuale presidente si era messo in luce, in qualità di ministro delle Finanze, con una serie di scelte volte a contrastare il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, nei pochi mesi di amministrazione del vicepresidente Alfredo Palacios: vinse le elezioni e fu rieletto nel 2009. Al centro del suo programma la Revolución Ciudadana  e l’approvazione della nuova Costituzione improntata al buen vivir (Sumak Kawsay, in lingua indigena) e al riconoscimento dell’Ecuador come stato plurinazionale. Finalmente un presidente di sinistra, commentarono in molti, anche perché Correa era giunto alla presidenza sospinto dai movimenti sociali ed era visto di buon occhio dalle organizzazioni indigene. Lo sviluppo dell’istruzione, l’approvazione di una legge sui media che vietava ai potentati economici e finanziari di detenere quote dei mezzi di informazione e la distribuzione dei Bonos de Desarrollo Humano, dei buoni del valore di 35 dollari mensili da distribuire alla famiglie più povere sulla falsariga del programma lulista Fame Zero, lo hanno caratterizzato come una persona attenta al sociale. Del resto, non poteva essere diversamente: Correa era cresciuto secondo i princìpi della dottrina sociale della Chiesa, aveva trascorso un anno della sua vita in una comunità indigena kichwa ed era naturale che mostrasse attenzione verso questi aspetti. Correa ha trasformato il paese, dicono i suoi sostenitori. Un’altra scelta assai popolare e apprezzata ha riguardato la decisione di non sfruttare le riserve di petrolio del Parque Nacional Yasuní, situato in una zona biodiversa ed abitata dai popoli indigeni. A livello internazionale, la presa di posizione più coraggiosa di Rafael Correa è stata la difesa di Julian Assange, rifugiatosi presso l’ambasciata ecuadoriana di Londra in seguito al caso Wikileaks. La piccola Quito che sfidava la capitale finanziaria dell’Europa, concedeva asilo politico ad Assange e al tempo stesso criticava le posizioni filoisraeliane del vecchio continente in merito alla questione palestinese aveva riscosso simpatia e consensi, al pari dell’espulsione dell’ambasciatore Usa in Ecuador in seguito a dichiarazioni poco gradite, emerse ancora una volta da Wikileaks. Inoltre, l’Ecuador di Correa è stato tra i primi paesi ad aderire all’Alba (l’Alternativa bolivariana per le Americhe), a sostenere l’idea del socialismo del XXI secolo e ad adoperarsi attivamente per l’integrazione latinoamericana, a partire dalla creazione di una moneta unica. E ancora: nei primi mesi della sua prima presidenza, Correa non rinnovò agli Stati Uniti la concessione della base aerea di Manta in territorio ecuadoriano. Senza dubbio, da questo punti di vista, le iniziative di Correa sono senz’altro notevoli, ma i primi dolori dell’inquilino di Palacio de Carondelet arrivano con la questione ambientale. Sotto Rafael Correa i conflitti tra stato e organizzazioni indigene, contadine e ambientaliste, sono tornate ai livelli dei presidenti neoliberisti che hanno governato il paese prima della sua elezione. Più volte Correa ha insultato le combattive associazioni ecologiste come “pazze” o “infantili”, e non si è mai fatto alcun scrupolo ad inviare la polizia a reprimere violentemente le manifestazioni di protesta. Da qui è derivata la rottura con la Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador), la più forte organizzazione indigena del paese, ma anche con i movimenti sociali. Molti ottimi princìpi elaborati nella Costituzione sono rimasti lettera morta: addirittura il presidente ha dichiarato il suo disappunto per aver inserito nella carta costituzionale norme molto severe in merito agli ogm e alle coltivazioni transgeniche, tanto da voler aprire un dibattito a livello nazionale sul tema e rendere meno rigidi i princìpi da lui stesso approvati.  Lo sfruttamento delle miniere a cielo aperto, al pari della costruzione delle centrali idroelettriche e dell’apertura alla monocoltura della soia, ha di fatto contribuito a svendere la sovranità territoriale del paese alle imprese multinazionali. Da questo lato Correa non ci sente: per lui lo sfruttamento delle risorse naturali serve a combattere la povertà. Indigeni, contadini, ma anche movimenti urbani che si sono battuti contro lo sfruttamento minerario e per la difesa dell’acqua come bene primario da non regalare alle imprese straniere, hanno dovuto fare i conti con una severissima legislazione “anti-terrorista”: il caso più clamoroso riguarda i “dieci di Luluncoto”, un barrio a sud di Quito dove un gruppo di attivisti di sinistra è stato arrestato e tuttora si trova  in carcere da mesi in quanto promotore della Marcha por el Agua, la Vida y la Dignidad de los Pueblos, che si tenne dall’8 al 22 marzo 2012 e percorse tutto il paese. La polizia ha fatto irruzione ad una loro riunione e li ha tratti in arresto con modi brutali: i dieci militanti sono divenuti il capro espiatorio di un governo che vede complotti ovunque e che bolla tutte le proteste dei movimenti sociali come finanziate dalla destra e dagli Stati Uniti.

È per queste ragioni che Alberto Acosta, economista, intellettuale e docente della Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales (Flacso) da tempo aveva deciso di uscire dal partito di Correa (di cui era stato anche ministro delle Miniere), il Movimiento Alianza País, per dar vita all’Unidad Plurinacional de Izquierdas, che raggruppa tutte le forze di sinistra, dal Movimiento Popular Democrático al Movimiento Pachakutik, passando per la Red Ética y Democrática e Socialismo Revolucionario. I sondaggi danno Acosta intorno al 14%: la sua vice presidente, in caso di vittoria, sarà l’afrodiscendente Marcia Caicedo. A sinistra si presenterà anche un altro candidato, appoggiato da un piccolo movimento politico fuoriuscito anch’esso dal Movimiento Alianza País, ma che difficilmente otterrà più del 2% dei consensi: si tratta di Norman Wray, appoggiato dal Movimiento Ruptura de los 25.

A destra, invece, grande è la confusione sotto il cielo, sintomo di una battaglia tra i maggiori imprenditori del paese che, probabilmente, finiranno per aiutare Correa proprio grazie al loro malcelato protagonismo. Guillermo Lasso si candida per il Movimiento Creando Oportunidades (Creo): ex presidente del Banco de Guayaquil, secondo gli addetti ai lavori incarnerebbe la destra moderna, ma in realtà hai suoi scheletri nell’armadio. Lasso vanta amicizie e collaborazioni con personaggi a dir poco imbarazzanti a livello nazionale (su tutti l’ex presidente Jamil Mahuad) e internazionale, dall’ex premier spagnolo Aznar all’ex presidente colombiano Uribe, fino a noti golpisti venezuelani. I sondaggi più recenti accreditano a Lasso una percentuale massima del 15%, ma ciò che preoccupa di più è la sua Fundación Ecuador Libre (Fel), che intende selezionare i migliori giovani del paese  e indirizzarli verso le più importanti università straniere private, vere e proprie fucine del neoliberismo. Lasso rilascia continuamente dichiarazioni in cui si augura di sfruttare l’”effetto Capriles”, dal nome del principale competitor di Chávez in occasione delle presidenziali di qualche mese fa e peraltro sconfitto, per quanto si sia rivelato un osso più duro degli altri candidati che in passato hanno conteso Miraflores al presidente bolivariano. Inoltre, Lasso ha provato a confondere le acque nominando come vicepresidente l’indigeno Auki Tituaña, per rimpiazzarlo dopo che era già stato comunque espulso dalla Conaie, di cui faceva parte. In queste presidenziali Lasso intende fare le prove generali per quelle del 2017, ma fin dal prossimo febbraio dovrà fare i conti con Mauricio Rodas, candidato del Movimiento Sociedad Unida Más Acción, di orientamento conservatore e con percentuali da “zero virgola”: il suo unico scopo sembra essere quello di far perdere voti al leader di Creo. Pare che tra i due sia in atto una battaglia per guadagnarsi il titolo di candidato unico delle destre nelle elezioni del 2017. Intenzioni di voto minime anche per gli ultimi tre (screditatissimi) candidati in lizza per la destra. Il primo è Lucio Gutiérrez, sotto le insegne del Partido Sociedad Patriótica. Già alla guida del paese dal gennaio 2003 all’aprile 2005, l’ex presidente stupì un po’ tutti con un programma di sinistra e la presenza di due ministri indigeni nella sua squadra, ma in breve tradì tutte le attese trasformandosi nel migliore alleato che gli Stati Uniti avessero mai desiderato, anzi, sembra che Gutiérrez si fosse spacciato per uomo di sinistra per poi cambiare rotta proprio su consiglio della Casa Bianca. Altrettanto impresentabile il pastore evangelico Nelson Zabala, segnalatosi più per dichiarazioni violente e incitamenti all’odio contro gli omosessuali che per un programma decente. Infine, Álvaro Noboa, uno degli uomini più ricchi del paese, candidatosi più volte a Palacio de Carondelet senza mai riuscire a conquistarlo. È a capo di un vero e proprio impero nel commercio delle banane e rappresenta una parte dell’oligarchia ecuadoriana, razzista ed elitaria, ma, per fortuna, assai frammentata. Il Partido Renovador Institucional Acción Nacional (Prian) scommette su di lui.

In definitiva, è probabile che Correa riesca a riconfermarsi alla guida del paese fin dal primo turno, ma un’affermazione convincente, quanto auspicabile, di Alberto Acosta e della sua Unidad Plurinacional de Izquierdas, sarebbe importante per ostacolare i progetti di estrazione mineraria, incalzare il presidente sulla questione ambientale ed imporgli un’agenda che rispetti davvero quanto sancito dalla Costituzione, una delle più avanzate e all’avanguardia dell’intera America Latina, ma finora rimasta in gran parte inapplicata e solo sulla carta.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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